CERCARE UTOPIE

Devo in effetti chiedere scusa al commentarium, perché sto vergognosamente trascurando il blog. A mia giustificazione parziale, il cumulo impressionante di lavoro degli ultimi mesi, che non si placa neppure durante le feste. Saprò recuperare, prometto. Come piccola riparazione posto qui uno stralcio dell’articolo di Sandra Newman che riguardava l’utopia e che ho citato ieri in trasmissione, con qualche mia considerazione.

A maggio 2019, Sandra Newman, autrice del bellissimo I cieli (che è un romanzo fantastico utopico), analizza la tendenza, in cerca di utopia. Perché c’è stata anche quella, da Platone e Thomas More fino a Millennium Hall di Sarah Scott e prima ancora Camelot, naturalmente, e ancor più naturalmente l’idea religiosa che la storia degli uomini “cominci nell’Eden e finisca in cielo”. E’ stata la catastrofe del ventesimo secolo a favorire la distopia, e oggi l’utopia cristiana diventa la Gilead del Racconto dell’ancella, e le innovazioni tecnologiche diventano la possibilità di nuove atrocità come in Non lasciarmi, in Cloud Atlas, in Black Mirror. O nel terribile Omelas di Ursula K. Le Guin, dove la felicità dei cittadini si deve all’eterna tortura di un bambino. Eppure, la nostra vita, vista dagli occhi di un abitante del diciassettesimo secolo, è utopia. I bambini raggiungono l’età adulta, le donne camminano insieme agli uomini, si va a scuola. Offriamo da sedere agli invalidi, cuciniamo per parenti in crisi, aiutiamo gli stranieri. Quasi tutti soffrono nel rifiutare un aiuto a chi lo chiede. Certo, le regole del cinismo e del nichilismo ci hanno portato in luoghi pericolosi, le democrazie vengono erose da brutali demagoghi, siamo nel mezzo di un’estinzione di massa, i nostri sogni di una vita migliore vengono avvelenati. Bisogna reagire, dice Sandra Newman: “non c’è nulla di vergognoso, infantile e irrealistico nel volere un mondo migliore. Dobbiamo lasciarci alle spalle la superstizione che ogni tentativo di risolvere i nostri problemi finisca nella distopia di Orwell. La storia ci insegna che le buone intenzioni non sono un segno di fallimento: dobbiamo permetterci di ragionare in termini utopistici, e di agire pragmaticamente per farli diventare realtà”.

Forse, siamo stati lentamente condizionati da un immaginario lunghissimo. Lungo quanto il secolo passato, e che si sviluppa secondo due direzioni. La prima appartiene al periodo fra le due guerre, quello in cui si muove Aldous Huxley. La grande intuizione de Il mondo nuovo e delle tre parole d’ordine del regime, Community, Identity e Stability,  con la cancellazione delle disuguaglianze e delle differenze individuali: e dunque, con la rimozione psicologica delle alternative, si deve pur scegliere fra libertà e felicità.

Nei Fratelli Karamazov, il Grande Inquisitore dice:

“Noi li costringeremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro ordineremo la loro vita come un gioco infantile, con canti infantili, con cori e con danze innocenti. Oh, concederemo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti (…) daremo loro la felicità degli esseri deboli, quali essi sono stati creati”.

Ora, come ben si sottolinea in un prezioso saggio, “Sul Mondo Nuovo di Aldous Huxley” a cura di Manuela Ceretta e Alessandro Maurini, quella che il Grande Inquisitore va spiegando nel suo meraviglioso monologo è non solo la debolezza della natura umana, ma il fatto che molte sottomissioni, se non tutte, si fondano sul piacere e sul consenso a quel piacere, laddove, e qui siamo già dentro Huxley, la scelta è fra libertà e felicità, e la felicità è data quasi sempre dalla sicurezza.

Ora, non crediamo che esista un complotto che ci impone l’Happycracy che ha in mente Huxley, e non crediamo neanche che Huxley abbia, come spesso si pensa a proposito degli autori fantastici, capacità di preveggenza: anche se alcune cose danno un lieve brivido, come l’uso del soma che preconizza i futuri psicofarmaci, la condanna sociale verso la solitudine, la contrazione del linguaggio e della comunicazione fino a semplici battute. Pensiamo, semplicemente, che come Dostoevskij sappia molto della natura umana, e sappia con quanta compiacenza, e addirittura con quanto piacere, andiamo incontro a situazioni che costituiscono una privazione della nostra libertà, e anzi un fraintendimento della libertà stessa.

Vale anche per i social network: sono un mezzo a cui sempre più spesso affidiamo pensieri che non avremmo espresso in modo così crudo e così istintivo e così, ahiahi, permanente. Il prendere parte a un’aggressione virtuale collettiva ci fornisce, anche se lo neghiamo, un piacere, l’esprimersi su qualsiasi argomento e trovare che altri lo fanno e anzi ci spingono ad alzare il tiro ci fa sentire meno soli. Ci fornisce quelle tre parole: Comunità, Identità, Stabilità. Apparenti, certo, ma non meno vere.

E poi, infine, dimentichiamo anche gli ultimi freni perché, come Huxley sapeva, verremo distrutti  non da ciò che odiamo, come temeva Orwell, ma da ciò che amiamo. E dimentichiamo il dodo, come scrive nel Mondo Nuovo:

“Libero come un uccello, diciamo noi e invidiamo quelle creature alate che si possono muovere a piacimento nelle tre dimensioni. Ahimé, ci siamo dimenticati del dodo. Quando un uccello impara ad ingozzarsi a sufficienza senza essere costretto a usare le ali, rinuncia al privilegio del volo e se ne resta a terra, in eterno. Qualcosa di simile vale anche per gli uomini”.

In parole molto povere, sgomenta la facilità con cui cadiamo in una reazione violenta o non ragionata, specie se il bersaglio è molto visibile. Ma non per questo finiremo malissimo come l’unico oppositore del Mondo Nuovo, il Selvaggio. Penso, invece, in perfetto accordo con quanto teorizza Baricco nel suo The Game, che siamo ancora all’inizio di una mutazione e che possiamo sviluppare tutte le difese, se non per governarla, per far sì che non ci uccida. A patto di accorgersene, naturalmente. A patto di non barattare la propria identità (e pure la comunità e pure la stabilità) per qualche like in più, come molte delle anime belle che, col sorriso, appiccano le fiamme alle fascine.

 

 

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