Come accennavo ieri, si discute parecchio, in ambito social-letterario, delle scarse vendite dei libri. Faccenda che, come detto, dovrebbe essere nota anche ai non addetti ai lavori, visto che i medesimi ne parlano spessissimo. Non commento ulteriormente, ma rimando a questo articolo di Guia Soncini uscito oggi su Linkiesta.
Invece, provo a spiegare cosa significa pubblicare in modo che definire eccessivo è poco. E lo faccio postandovi l’articolo uscito a febbraio per Linus. Parla di un romanzo fra i moltissimi, Il mondo dietro di te di Rumaan Alam, altrove lodatissimo, da noi passato sotto silenzio, e suppongo già sparito dagli scaffali.
Come si pretende di non vendere poche centinaia di copie quando lo spazio fisico nelle librerie non c’è perché si deve far posto alle novità? Basterebbe questo. Non basta mai. Buona lettura.
“È questo il modo in cui finisce il mondo. Non già con uno schianto ma con un lamento”, scriveva T.S. Eliot oltre cento anni fa. Fra tutte le distopie possibili, quelle che immaginano l’apocalisse senza schianti sono quelle, forse, più riuscite. Penso a quel piccolo capolavoro che è Il silenzio di Don DeLillo, dove la fine coincide con la sparizione improvvisa e immotivata di ogni tecnologia. E penso a un gioiello come Il mondo dietro di te di Rumaan Alam (La nave di Teseo, traduzione di Tiziana Lo Porto), ingiustamente più noto per il film Netflix con Julia Roberts e Ethan Hawk che per il romanzo, fra l’altro lodatissimo dalla critica americana, finalista al National Book Awards e libro dell’anno per Time e Washington Post.
Nei fatti, nel libro possiamo solo intuire le sorti del mondo: per parentesi e incisi, sappiamo che qualcosa di terribile sta accadendo o è già accaduto, ma quello che ci interessa è la sorte della famigliola di Brooklyn che si concede una vacanza a Long Island, in un luogo isolato ma in una casa lussuosa trovata su Airbnb. Si chiama L’Ultimo Approdo, e lo slogan, quanto mai profetico, recita: “Entra nella tua bella casa e lascia il mondo dietro di te”. Sono in quattro, e sono quelli che avremmo chiamato un tempo piccolo borghesi: Amanda dirige un reparto contabilità in un’agenzia pubblicitaria, il marito Clay insegna al City College e scrive pigramente recensioni letterarie, e ha il vizio, contrastato, del fumo. I figli sono normalissimi adolescenti: Archie ha quindici anni, indossa sneaker sformate “grandi come filoni di pane”, mangia come un lupo. Rose ne ha tredici, vive incollata a cellulare e computer, osserva il mondo con quella modalità trasognata che hanno le non ancora ragazze. La loro vita è banale: amano fermarsi da Burger King e da Starbucks, bere buon vino e mangiare formaggio. Amano anche i loro corpi, nonostante Amanda e Clay abbiano superato i quarant’anni, e amano fare l’amore. Il lusso della casa e l’evidente condizione sociale superiore dei proprietari li imbarazza e li rende felici: fornelli con i rubinetti di rame, l’isola di marmo grigio in cucina, il bagno tutto bianco e l’enorme letto matrimoniale, la piscina, la sauna. A soli 340 dollari al giorno più le spese, è il paradiso.
Quel paradiso viene contaminato dall’arrivo, in piena notte, dei proprietari, George e Ruth. Sono neri, e sono molto ricchi. Eppure sono in fuga da New York. C’è stato un blackout, mentre nella casa delle vacanze l’elettricità c’è ancora. Ma non funzionano più i cellulari, né la televisione. Nessuno sa cosa sia accaduto, e George e Ruth, nell’insolita veste di ospiti a casa propria, ritengono che quel luogo isolato sia, al momento, sicuro.
In effetti lo è, almeno per un po’: i quattro adulti e i due ragazzi cercano di allontanare ogni ipotesi apocalittica, perché probabilmente, sembra suggerire Raam, davanti alla fine del mondo piangeremmo comunque la fine del social come prima cosa. Clay, nel tentativo di riavviare i computer, desidera solo che tutto torni come prima: “Voleva essere quello che mostrava loro che il mondo continuava ad andare avanti, che la gente continuava a fotografare i loro spritz Aperol e a twittare invettive sulla cattiva gestione dei trasporti pubblici”. Ma anche chi legge si concentra soprattutto su come si evolveranno i rapporti fra Clay, Amanda, George e Ruth. Mangiano una pastasciutta in cucina. Bevono. Fanno congetture. La Corea del Nord? I fondamentalisti islamici? Come mai non hanno sentito nulla? George racconta che l’11 settembre faceva colazione da Balthazar. Ricorda la frittata setosa, le patatine fritte. Ma nessun rumore dalle torri. Eppure, si dicono, sarà qualcosa che è già accaduto: il blackout del 2003, l’uragano Sandy.
Pagina dopo pagina, l’inquietudine aumenta proprio perché nessuno sa davvero se aerei militari si stiano alzando per combattere l’ultima guerra, e se le persone stiano morendo chiuse in ascensori immobili per la fine dell’elettricità, e chi siano gli eventuali hacker che hanno sabotato le centrali elettriche. Conta l’incapacità di proteggersi a vicenda, e di doversi comunque proteggere anche se non ci si è scelti. Conta l’irritazione di Amanda, che vorrebbe essere diversa da come è, più ricca, meno nervosa, più colta. Conta il fastidio di Ruth, che si ritrova a dormire nella stanza degli ospiti nella propria casa, e che non riesce a tollerare i piatti sporchi impilati nell’acquaio o la biancheria seminata in camera da letto.
Ci sono segnali, più che fatti. Cervi che appaiono all’improvviso: uno, poi due, poi un branco. Fenicotteri che scendono a bagnarsi nella piscina. Ma l’anomalia è sempre meno forte rispetto a quel silenzio dei telefoni e dei computer e della televisione. Mentre gli adulti provano a raccontare le loro vite, preparano panini, continuano a fare congetture, i bambini esplorano, seguono i cervi, non si chiedono troppo, una volta superata la delusione per non poter giocare con i propri cellulari.
L’evento, infine, si verifica: un rumore, spaventoso e diverso da ogni cosa conosciuta. Qui è lo spartiacque, il momento in cui il pericolo tocca le due famiglie, le spacca come fa con il vetro di una porta finestra. Minaccia i corpi, e insidia pesantemente quello di uno di loro. Radiazioni? Altro? La consapevolezza che davvero qualcosa di irreparabile è successo cresce pagina dopo pagina, senza che Alam senta però il bisogno di svelare. Perché quel che importa è la cattività che diventa familiarità, le buone maniere e le diverse consuetudini, il Lago dei Cigni per Ruth, Björk per Amanda. Vano è il tentativo di Clay di cercare aiuto in paese: le strade sono deserte, eccezion fatta per una donna che parla solo spagnolo e di cui ignorerà le richieste di soccorso.
Come finisce il mondo? Sicuramente con le stesse paure e con gli stessi pregiudizi, di razza e di censo, con le stesse dipendenze dalla tecnologia, con la tardiva consapevolezza che i nostri corpi e quelli di chi amiamo sono la cosa più importante che abbiamo, e che nelle catastrofi non siamo in grado di difenderli come avremmo immaginato. E’ una vacanza, solo una vacanza, si ripetono spesso Clay e Amanda, ma quella vacanza, che inspiegabilmente li salva, li unisce (come avviene nel meraviglioso racconto di Stephen King, La nebbia), li condanna a capire la propria impotenza (e vale anche per i loro ospiti-padroni di casa, che nulla sanno della figlia e dei nipoti, che sono lontani, confusi nella massa che probabilmente, chissà, sta terminando i propri giorni senza capire perché).
Il mondo dietro di noi, insomma, è quello che un romanzo fantastico dovrebbe essere: il racconto della quotidianità, la storia di persone ordinarie che si trovano a vivere un evento straordinario, e che per questo sentiamo vicine, pur disprezzandole per il loro egoismo e per la loro cecità. Identica alla nostra. E per questo non si sente la mancanza del disastro mostrato in ogni particolare: sono molto più importanti gli effetti che la consapevolezza di quel disastro ha su ognuno di noi.
Una recensione bellissima. Grazie per aver “salvato dall’oblio” (almeno per me) questo libro, che presto leggerò.