Piccolo post scriptum su tema vampiresco. Su Carmilla c’è una bella intervista di Danilo Arona a Angelica Tintori e Franco Pezzini, autori di The Dark Screen, uscito per Gargoyle Books. Leggetela. Vi riporto qui solo un punto su cui riflettere, e che riporta ai commenti di due post fa. Ovvero, la metafora esclusivamente sociale di Dracula. Parliamone, perchè il discorso è delicato.
(Pezzini) Stoker sarebbe stupito delle vorticose trasformazioni alla fisionomia del suo personaggio. D’altra parte il mito di Dracula è uno schermo in cui da oltre un secolo l’Occidente proietta con frequenza ossessiva inquietudini, angosce, desideri più o meno confessabili: e questi mutamenti e libertà di riscrittura appaiono estremamente rivelativi delle varietà di sogni e incubi fermentati nelle singole società. Il cadavere ambulante portatore in Murnau dei turbamenti del primo dopoguerra, il predatore Universal che conduce a compimento la Crisi dissanguatrice del ’29, il seduttore sciupafemmine Hammer che sfascia la morale familiare vittoriana col morso del sesso… e via discorrendo, comprese tutte le variazioni minori e sgarzoline. Dracula si rivela insomma una maschera di straordinaria efficacia e duttilità nell’esprimere le crisi del mondo moderno, sia a un livello interiore e psicologico che collettivo e sociale.
Premetto che il concetto di ‘metafora’ mi mette a disagio – perchè molto spesso si finisce per essenzializzarlo. E cioè: gli studiosi vedono ‘metafore’ e i narratori finiscono per volerle fare – laddove il lavoro di uno studioso è individuarle, quello di un bravo narratore è di evitarle come la peste e scrivere la dannata storia, lasciando che dalla narrazione pura emerga il resto. Con la fiducia che quando il resto c’è, emerge da solo. Per questo Dracula continua a essere tanto ‘vivo’ – più che per motivi simbolici o altro, perchè il libro di Stoker è una narrazione formidabile.
Però, certo, il vampiro è una costellazione, un ‘discorso’, se vogliamo, molto potente – per la sua posizione liminale, tra le altre cose (c’è il famoso saggio di Barber che se non sbaglio ne accenna, e poi c’è un bellissimo e misconosciuto libro, “The Trickster and the paranormal’, che approfondisce il ruolo della liminalità in tutto quanto fa ‘paranormale’.). Il vampiro, a differenza di un fantasma, ha Carne, ha corpo – e in una società che al corpo rinuncia, come la nostra (lo sovraespone e lo svilisce, trasforma un’orgia in una cosa di cui vergognarsi e i gusti sessuali una cosa su cui discutere, mentre illude i suoi cittadini di essere sessualmente liberi), pone più di una domanda.
Riallacciandomi ai discorsi fatti negli altri commenti, vorrei spendere due penny. Primo, qualcuno diceva che è meglio leggere Twilight che vedere la De Filippi. Perchè? La parola scritta in sè non ha alcun potere salvifico. Meglio una rissa tra amici che essere solo con i numeri primi, per come la vedo io, e mille volte meglio una pasta al ragù di ogni cosa la Mazzantini abbia mai scritto.
Cambio la prospettiva: Uomini e Donne è più o meno dall’altra parte dell’universo in cui vivo io, ma è fatto con un livello di professionalità che la Meyer, semplicemente, non ha.
Il punto è che la ‘craft’ della Meyer è pessima. Io ho letto solo il primo libro, ed ero partito con aspettative grandiose – adoro le storie di adolescenti con qualche mostro in mezzo, e la media tecnica dei narratori americani è molto alta. Ma un mostro suscita paura e meraviglia, mentre Cullen non è neanche un principe azzurro – non ne ha la classe. E’ semmai un bullo di quartiere, che passa il suo tempo a dire ‘se mi incazzo sono pericoloso’, senza però mai fare niente di, che so, pericoloso. Fa come quelli che urlano ‘tenetemi sennò lo picchio’. Ma di quelli ce n’è a iosa nel mondo. Io un vampiro lo voglio veder picchiare davvero, voglio avere la sensazione che possa farlo. Esempio: quando ho visto (e rivisto, e ri-rivisto) Buffy con Spike, e perfino con Angel, ho sempre avuto una sensazione _concreta_ di pericolo costante. Con Bella e Cullen no. Qui non c’è da farsi pippe su simbolismi e alterità: qui c’è cattivo artigianato.
Quanto poi al ‘vampiro come diverso’: sarà questione di gusti, ma a me pare una stronzata.
Ricordiamo il succo di Dracula: un gruppo di gentlemen si mette in moto per distruggere un mostro che ha rapito il cuore, in vari sensi, di una dama. Una cosa è rivalutare ironicamente Dracula (come ha fatto, per dire, Fred Seberhagen), altra è reinterpretarlo come un poverino che ha bisogno di aiuto. Non è una interpretazione – è un ‘uso’, in termini echiani (e se qualcuno tira fuori Derrida: lui non ha mai detto che un testo non abbia interpretazioni più o meno accettabili, e anzi, si è scagliato veementemente contro chi gli ha messo in bocca quest’idea).
Dracula non è un romanzo sociale, è una storia che parla di persone, amore, follia, sesso e violenza. Ora, se un emarginato, che nella vita ha avuto mille problemi, fa del male alla mia compagna, io lo voglio morto. E non scherzo. Di più: vorrei essere io a distruggerlo, ucciderlo, farlo soffrire.
Questo significa che è socialmente giusto ucciderlo? No, per niente, ma se confondiamo individuo e società stiamo vivendo un equivoco pericolosissimo. Allora, ci sono grandi romanzi sociali che parlano dell’importanza di un certo tipo di giustizia (per esempio, bellissimo il discorso che Gandalf fa a Frodo riguardo Gollum: certo, Gollum merita la morte, ma molti morti avrebbero meritato la vita, e siccome non possiamo riportare in vita i morti, non abbiamo neppure il diritto di decidere a sangue freddo di dare la morte ai vivi). E ci sono grandi romanzi emotivi che parlano di un’altra.
Il vampiro è prima di tutto un tema emotivo. E’ una forma di contagio, è un’immagine medica, ma il suo punto di forza non è sociale, è individuale. Certo, il ‘sociale’ impatta molto sull’ ‘individuale’ – da qui, la bellissima analisi di Pezzini e Tintori. Ma non è l’emarginato che compie un atto socialmente deviante: è il figlio di puttana che stupra tua moglie. O che, come in Anne Rice, disperatamente prova a non farlo. Togliere una carica di autentica mostruosità al vampiro non vuol dire fare un’operazione che invita alla tolleranza, vuol dire annullare la diversità vera, che fa sempre paura, e cambiarla con una versione ammaestrata e ripulita, ‘da giardino’. Facile tollerare uno che non è poi tanto diverso. Facile tollerare uno che alla fine Bella non la pesta. Facilissimo. Rassicurante. Due palle.
Confondere il livello sociale e quello emotivo mi sembra un’operazione tipica di certa accademia: tautologica, non falsificabile e, in ultima analisi, molto povera.
Concordo su ogni punto dell’intervento di Francesco. Anzi, esulto! Era quello che desideravo disperatamente leggere!
Dopo Bram Stoker mi sono fermato. Però nel nord della Moldavia e della Romania o nel sud dell’Ucraina, la zona dei Carpazi e del Conte, il primo regalo che si scambiano un uomo e una donna è un anello: d’argento 🙂
Blackjack.
Ahahah. Bellissimo il paragone tra Cullen e il bullo di quartiere. Aggiungo una citazione dell’introduzione di Francesco Saba Sardi all’edizione del 1979 di Dracula per la Mondadori, che dice che se Dracula fosse stato ambientato nei giorni nostri, non sarebbe un antico nobile ma forse più un ricco trafficante di droga.
Sicura di aver azzeccato il titolo? Secondo me andava meglio “IL MORSO E IL MASSAGGIO”.
Condivido in sostanza l’intervento di Fabrizio.
Ma al di là dei match tv/libri, alto/basso, ecc. ecc. ecc., che cos’ha di magico ‘il livello di professionalità’? Più dell’ironia intendo, o della fisica dell’alibi, per esempio.