Anch’io oggi volevo fare un altro post.
Invece linko Giulia.
(ah, per coloro che ancora si stupiscono della dilagante ferocia/precocità sessuale fra gli adolescenti, non posso che ribadire quanto detto nella famigerate quarantaquattro presentazioni: gli adolescenti di ora sono gli stessi bambini che ho visto crescere in un ambiente dove espellere e designare era non solo naturale, ma necessario. E che fra i cinque e gli undici anni, se femmine, hanno avidamente consumato oroscopi del cuore e rossetti alla fragola)
“Se sei single non sprecare nemmeno un istante e occhi bene aperti: qualcuno da qualche parte sta pensando proprio a te!”
no scusate, eh, ma a che target è rivolto il sito delle winx? ora toccherà anche alle bambine farsi le paturnie per trovarsi l’uomo? dovranno crucciarsi anche loro di essere bollate come “single”?
se a 6 anni bisogna trovarsi un compagno, perchè si stupiscono che a 14 abbiano una vita sessuale? e mi pare che nessuno genitore sollevi proteste per gli insegnamenti delle winx. mah!
Il target è cinque-undici anni.
(Parte ludica: con tutti i segni ficherrimi che ci erano io nun zo der grifone? e infatti segno sfigatissimo: dovrei parlare giulivamente con chi mi ha fatto incazzare in passato. Mreno male nun ci ho cinque anni)
Parte seria. Due giorni fa ti ho pensata, cioè di preciso è arrivato mio marito, masculo si ma di tipo attento, e mi mostra la quarta di copertina di “Ville e Giardini”. Vi campeggia una bella pubblicità – marca Bellora – dove si vedono due bimbette ritratte di spalle che camminano in un prato. Pubblicità sommamente truffaldina, le posture e le chiappe delle due sono molto di donne adulte. E invogliano il masculo all’attizzamento.
Solo dopo attenta concentrazione capisci che le due hanno si e no dieci anni.
Eh, ma la colpa è dei telefilm polizieschi
http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/cronaca/caltanissetta-scomparsa/esperto/esperto.html
Oh, il mitico Charmet. Quello che ad un convegno di Carpi che ho condiviso con lui sosteneva che il bullismo si deve alle madri che lavorano e che portano i bambini al nido. Giuro.
The horror the horror. Il problema non è a che età iniziare ad avere una vita “sessuale” — noi umani non abbiamo mai una vita “asessuale”, mica siamo amebe. Che poi, anche loro… vabbé.
Il problema per i giovani è non avere aspettative e prospettive valide per il futuro (il che può generare “branchi” anarchici, di cui un esempio estremo è quello delle ultime pagine del romanzo di Littel, ma pure la cronaca, di ‘sti giorni, mi pare abbastanza estrema), e vedersi proposti modelli di performance (reality) e consumo (pubblicità), ma ben più raramente modelli di vita validi e applicabili al mondo così com’è.
Walter Siti, nella sua ultima fatica (Il contagio, Mondadori) dà un quadro spietato e agghiacciante di questa desolazione, che va anche più lontano di Gomorra…
(e poi, ci sarebbe da chiedersi: di quale educazione avrebbero bisogno, gli adulti e i giovani, e chi dorebbe impartirla. Ma non mi va di lamentarmi oltre).
Un modello di vita applicabile al mondo lo stiamo vedendo in queste ore, con la caccia al rom in mezza Italia, gli incendi dei campi nell’indifferenza generale, quando non nell’apprezzamento. Se la violenza viene accettata come il metodo migliore per risolvere i problemi alla radice, chi può scandalizzarsi se poi un ragazzo per sfuggire a una paternità non voluta uccide la ragazza incinta?
Si può scandalizzare chi non accetta nemmeno il genocidio come mezzo per garantirsi la sicurezza: quanti saremo?
Eh, Anghelos. Sostiene il caro vecchio Foucault che diversi sistemi politici a parole garantiscono grossomodo i medesimi diritti, ma nei fatti tollerano illegalismi diversi.
A proposito: il bisnonno di Bush, mi disse un amco americano, era uno assaiapprezzato (nel Texas, of course) per le “attività antinegri”. Vedi poi com’è finita la prole…
Ieri al capezzolo di vetro (leggi tv) c’era un’esperta, una psicologa. Non ricordo il nome, ricordo solo che somiglia vagamente alla Vanoni e usa un tono molto accalorato nel parlare. Di lei mi hanno colpito due cose.
La prima. Non riesco a capire come sia deontologicamente giustificabile che uno psicologo vada in tv per parlare di un caso che non conosceapprofonditamente. Se ne parlasso chessò Cucuzza, sarebbe diverso (comunque sconsolante), ma che questa ‘chiacchiera’ venga da un professionista che appunto dovrebbe attenersi a un metodo scientifico e a un codice deontologico, lo trovo un problema.
La seconda. La psicologa nella sua foga argomentativa puntellata su dati malcerti dà la colpa al ‘mondo virtuale’. In questo caso non c’è internet, la colpa cade su ‘The ring’, che la bambina conosceva e in cui – diciamo così – si rispecchiava (‘rispecchiare’ è una parola mia).
Ora The ring non è una ‘mondo virtuale’, è una ‘storia’, una ‘narrazione’ – era mi pare fumetto poi trasposto in film. E’ una narrazione dell’orrore. Le storie dell’orrore, credo sia corretto sostenerlo, appartengono a tutti i tempi e tradizioni del mondo, non sono certo il frutto della nostra epoca tecnologica. Per esempio le fiabe italiane trascritte da Calvino sono spesso più orrorifiche di The ring.
Andiamo avanti. La psicologa dà la colpa a queste narrazioni (togliamo dal campo l’espressione ‘realtà virtuale’ o ‘mondo virtuale’ che è davvero imprecisa). Queste narrazioni da quel che capisco farebbero precipitare gli eventi, sarebbero l’humus su cui una situazione di malessere psicologico dilaga (sono mie interpretazioni del discorso televisivamente lapidario della psicologa).
Invece è esattamente l’opposto. Rispecchiandosi nella storia di The ring, la bambina ha simboli, figure per raccontare il suo dramma: può esprimersi. Ecco una delle cose che questa letteratura ‘fa’.
Il problema è che dall’altra parte nessuno è in ascolto. Quell’espressione così viva della bambina, in sostanza un grido di allarme, viene sentita come farneticazione di chi si è perso in un mondo virtuale, produce stigmatizzazione invece di aiuto.
Mi sento male, Andrea. Qui c’era un discorso molto chiaro da fare, che riguarda il branco, riguarda l’aumento esponenziale delle violenze sulle donne, la sessualizzazione precoce delle ragazzine. Insomma, un mondo di fatti da raccontare…e ci si concentra su The ring? Che è stata, come dici giustissimamente tu, una narrazione che lavora su simboli preesistenti come quello del pozzo. E in nessun modo una “causa”.
Non ho parole.
Grazie per la segnalazione (“il capezzolo di vetro” mi ricorda un certo signore che ha scritto “on writing”, e le cose che diceva sul medesimo…)
La causa del bullismo sono le madri che lavorano e portano i bambini al nido. Brillante.
Sono l’unica che pensa al bullismo come ad un fenomeno più positivo che negativo? Nel senso che il bullismo, inteso come vessazione del più debole da parte del gruppo dei forti (non forti che si uniscono, ma deboli che si sentono forti nel gruppo), è sempre esistito, solo che, a seconda degli ambienti, veniva minimizzato*, tollerato, quando non apertamente incoraggiato (penso alla disciplina militare). Il fatto di parlarne implica una società che riflette su queste cose e si organizza.
Un po’ come è successo con lo stupro, che prima non era nemmeno reato, poi un reato contro la morale, contro la persona, etc. Fermo restando che alla voce “Se l’è cercato” si deve ancora lavorare molto.
*Alle Invasioni Barbariche l’anno scorso Daria Bignardi aveva fatto un servizio sui cento anni degli scout, presentandoli come gli anti-bulli. Ricordo di aver fatto un salto sulla sedia. Io sono stata scout e ho sempre pensato che il bullismo fosse un problema quasi endemico, in quanto sempre esistito e più o meno tollerato a seconda dei gruppi.
“E’ una narrazione dell’orrore. Le storie dell’orrore, credo sia corretto sostenerlo, appartengono a tutti i tempi e tradizioni del mondo, non sono certo il frutto della nostra epoca tecnologica. Per esempio le fiabe italiane trascritte da Calvino sono spesso più orrorifiche di The ring… Rispecchiandosi nella storia di The ring, la bambina ha simboli, figure per raccontare il suo dramma: può esprimersi…”
E’ vero Andrea! Prova a ricordare tutti i dettagli drammatici o addirittura splatter delle favole che ci raccontavano da piccoli: BARBABLU’ è la storia di un serial killer che uccide le proprie mogli, in POLLICINO l’orco taglia la testa alle proprie figlie, in HANSEL e GRETEL i due bimbi vengono abbandonati nel bosco dai genitori e poi ingabbiati da una strega che vuole divorarli, in CENERENTOLA le sorellastre si auto mutilano una sezione di piede nel tentativo di calzare la scarpetta, etc, etc, chissà cosa direbbe la psicologa esperta a cui fai riferimento…
Beh, Anna Luisa, pure sulle fiabe si sono scatenati gli psicologi. E infatti molte sanguinarie fiabe dei fratelli Grimm sono state purgate… Se lo trovate in giro, leggetevi “Spezzare l’incantesimo” di Jack Zipes. Gran libro.
Quanto agli scout, Maria, definirei piuttosto ‘nonnismo’ quello che hai conosciuto tu. La differenza è che il nonnismo avviene all’interno di un ‘sistema gerarchico’ con l’esercizio di pressioni dai ‘superiori’ ai ‘sottoposti’ e rappresenta quello che Slavoj Zizek chiama il lato osceno del potere; il bullismo sorge in gruppi spontanei che ignorano le strutture sociali preposte al controllo.
Per questo il ‘nonnismo’, che può manifestarsi in gradi diversi nonché essere o meno tollerato dai responsabili, può essere considerato endemico negli scout, mentre il bullismo assente.
@ Paolo: sì, sì, lo so che esiste un’ampia saggistica sull’argomento (anche se il testo di Zipes in realtà non lo conosco e quindi grazie per il consiglio bibliografico) è che il resoconto fatto da Barbieri mette davvero tristezza:-((
Non avevo letto il succedersi dei commenti. Buon giorno.
Ho apprezzato molto il commento di Andrea Barbieri, commento che ho fatto anche io purtroppo in diverse circostanze, ivi compreso il Caso di Cogne, Rignano Flaminio, la poveretta di Meredith. Psicologi che tradiscono la deontologia per accampare interpretazioni assolutamente aleatorie, e che in un nulla differiscono da un triviale qualunquismo. Sono una iattura per la categoria, sono quelli che poi sputtanandola in questo modo creano una diffidenza in chi invece dalla disciplina potrebbe trarre beneficio.
Però mi sento in dovere di spezzare una lancia nei confronti della lettura psicodinamica delle narrazioni e delle fiabe, qui trattata da qualche commentatore molto male, ma che conta autori che hanno dato molto e che hanno fornito strumenti interessanti. I più attenti di questi, penso a Marie Luise Von Frantz, non hanno mai imputato a qualsiasi narrazione popolare la responsabilità di quanto accade, perchè sia i comportamenti che le narrazioni sono fenomeni di qualcosa di sotterraneo, quindi colleghi più che causa l’uno dell’altro.
Però ciò non toglie che l’argomento è scivoloso, e spesso mi interrogo. Poniamo che una certa narrazione fornisca un certo arsenale simbolico, poniamo per esempio che sia improntato sulla più truce violenza. Non mancano narrazioni di questo tipo. POniamo che dei bambini, vi si mettano in relazione. E continuiamo pensando che questi bambini hanno già una storia pregressa una storia psichica, che con quella simbolica collima. Collimerebbe anche con altre simboliche, magari più evolutive, ma ecco questi bambini hanno incontrato questa. E la fanno propria. Perchè per loro disgrazia l’esperienza dolorosa aggressiva e regressiva, ha preso il sopravvento rispetto a quella più evolutiva e amorevole e tc.
Ora uno dice. La responsabilità è del contesto dove il bimbo vive.
Però è anche vero, che se non incontrava quel telefilm a base de coltelli, ne incontrava un altro – che aveva l’ormai veramente aut scopo edificante. Certe volte penso che la rinuncia al valore di “edificante” (che tanto ci ricorda ” il libro cuore”, con orrore) sia una perdita. Quella seconda opzione, quella seconda narrazione scansata, poteva avere la chance psichica di fare leva su delle parti più sane e interne, ora seppellite.
Non vuol dire demonizzare la cultura popolare. Ma non si può neanche sottovalutarne il potere, e in certi casi, la responsabilità.
@Anghelos:
ti domandi “chi può scandalizzarsi se poi un ragazzo per sfuggire a una paternità non voluta uccide la ragazza incinta?”
Scusa ma la storia non è quella che racconti tu, qui la storia è: per ammazzare la fidanzatina chiamo gli amici, prima però, visto che siamo in un casolare isolato per compiere il delitto, ce la facciamo a turno (deve morire, ma è un peccato sprecare l’occasione, ha ancora un corpo che fa voglia, eiaculare un po’ non fa mai male, poi la pestiamo (pugni, calci, la faccia sfigurata, il padre la riconoscerà solo per le meches fatte dal parucchiere pochi giorni prima), poi la strangoliamo, poi, una volta beccati e confessato il tutto al magistrato gli diciamo “ho confessato tutto, posso andare a casa?”.
Questa è la storia di Lorena e va raccontata per quello che è, glielo dobbiamo.
Continuo il post precedente.
Tu dici, siccome si accetta, magari per indifferenza, la violenza come strumento di risoluzione delle controversie allora, questa violenza ce la ritroviamo nel ragazzo che ha inguaiato la fidanzatina e non dobbiamo stupircene.
Questo modo di ragionare interpreta il problema della violenza alle donne come sottoprodotto di una più generale cultura della violenza.
La violenza alle donne diventa subito “pretesto” per parlar d’altro, di qualche evento politico più generale; contestualmente mentre il focus si sposta sul problema della violenza come strumento, la storia di Lorena cambia, non è già più storia di donne macellate con gusto-per il proprio gusto, e si racconta, al suo posto, la storia di un ragazzo che vuole sfuggire a una paternità non voluta.
Come da copione la violenza alle donne, in quanto tale, è destinata a lasciare poche tracce di sè, affogata in altre questioni, per essere messa da parte. Come da copione, come sempre.
Non è forse ora di assumere con serietà che la violenza alle donne, per la sua estensione nello spazio, nel tempo, nelle culture, per i suoi numeri (anche la macelleria ha la sua contabilità) sia invece la violenza primaria, quella che è la prima ad essere vissuta con indifferenza?
E se fosse proprio questa mattanza senza latitudine, a scrivere le regole di fondo di ciò che si manifesta quando incontriamo la violenza come strumento?
Scommettiamo che “a dare la caccia ai rom in mezza Italia” e appicare gli incendi ai campi sono dei maschi?
Questo non ci dice mai nulla?
Franco, forse sono stato io ad esprimermi male, ma tu hai interpretato proprio a rovescio quello che intendevo.
Vero è che, secondo me, la violenza sulle donne deriva dalla più generale culturale della violenza, anche se non la riduco a sottoprodotto di questa, mi limito a stabilire una connessione: la violenza sulle donne è un fenomeno indipendente e con caratteristiche proprie, ma comunque assume tratti più brutali là dove la violenza in sé è più diffusa a tutti i livelli della società.
Una volta stabilità questa connessione tra violenza generale e violenza sulle donne, non ha senso dire che la seconda diventa un pretesto per parlare della prima. Sicuramente c’è chi lo farà, sbagliando, ma è altrettanto sbagliato voler isolare i due discorsi come se non avessero nulla in comune. In questa discussione, come già in occasione di altri post in questo blog, la questione della violenza sulle donne è ampiamente dibattuta in ogni aspetto, e se io ho provato ad allargare il discorso non è certo per deviare l’attenzione da un problema ad un altro, ma perché ritengo che sia utile vedere il tutto in una prospettiva più ampia.