STEPHEN KING, KING OF POP

Questo articolo di Wu Ming 1 è uscito sul numero di maggio di XL. Ve lo posto qui, in attesa di poter commentare Duma Key (ma già le prime venti pagine…vabbè).

E’ ufficiale: i clown fanno paura. Pochi mesi fa, l’Università di Sheffield ha condotto una ricerca su arredamento e decorazioni nei reparti pediatrici degli ospedali inglesi. Lo scopo: capire come creare un ambiente meno ansiogeno e più rassicurante. I test condotti su 250 bambini hanno dato un risultato sorprendente: di fronte a immagini di clown tutti gli esaminati hanno reagito con spavento e repulsione. “Per i bambini i clown sono figure estranee.” ha detto la psicologa infantile Patricia Doorbar. “Fanno parte di un’altra epoca e non hanno un aspetto divertente. Sembrano soltanto fuori posto.”

Leggendo la notizia, come non pensare a Pennywise, il pagliaccio maligno che imperversa in It, romanzo-fiume di Stephen King?

E’ una cosa che mi capita sempre più spesso: leggo una notizia, a casa o al bar, e mi viene in mente King, che è sempre stato in molti luoghi, ma ultimamente è dappertutto. Anche a teatro: a Londra va in scena con successo un dramma tratto dal suo Misery, e lui stesso sta scrivendo un musical per Broadway (!) insieme al rocker John Mellencamp. Intanto la Marvel, dopo la serie a fumetti della Torre nera,  ha annunciato una graphic novel tratta da L’ombra dello scorpione. Addirittura, l’ultimo romanzo Duma Key (edizione italiana in libreria in questi giorni, Sperling & Kupfer, traduzione di Tullio Dobner) sta provocando un turismo a tema verso la Florida. Nei dintorni di Sarasota, diverse stazioni balneari propongono ai villeggianti un “Pacchetto Duma Key”.

Vacanze letterarie a parte, Duma Key racconta la storia di Edgar, costruttore cinquantenne che in cantiere subisce un incidente, si salva per miracolo e, col braccio destro amputato e il desiderio di lasciarsi tutto alle spalle, si ritira su un’isoletta della Florida, la Duma Key del titolo. Qui riprende i propri hobby di gioventù, disegno e pittura. Con grande sorpresa, scopre che i suoi quadri sono… buoni. Anzi, ottimi. Capolavori. Li mostra a un esperto d’arte, e questi rimane a bocca aperta. Sono scene oniriche e surreali, ambientate al tramonto sulla spiaggia di Duma, popolata di esseri e oggetti inquietanti. E’ lo spaventoso passato dell’isola che si manifesta tramite l’arte, con Edgar come medium.

Di chi sta parlando King se non di se stesso? La sua arte consiste tutta nell’evocare spettri. E, con grande sorpresa dei critici, è buona. Spesso è ottima.

Lo zio Steve – così lo chiamano i fans – ha da poco compiuto sessant’anni e non potrebbe portarli meglio. Ha rivoluzionato l’horror e la fantasy, con effetti-domino nell’intera industria culturale, ma non ci pensa nemmeno a riposare sugli allori: sperimenta, azzarda, si lancia in ogni direzione, felice di essere un “cattivo maestro” per le nuove leve.

Sì, maestro, e finalmente un ciclo si compie: King ha sempre reso omaggio agli scrittori, fumettari, registi e musicisti che lo hanno influenzato, e oggi sempre più scrittori, fumettari, registi e musicisti rendono omaggio a lui. La pattuglia è numerosa, si va dagli sceneggiatori di Lost a scrittori “rispettabili” come Bret Easton Ellis e Michael Chabon. Per non dire di due autori il cui legame con King è ancora più stretto: i suoi figli Owen King (autore della raccolta di racconti We’re All In This Together) e Joe Hill (pseudonimo di Joseph Hillstrom King, autore del romanzo La scatola a forma di cuore,  Sperling & Kupfer).

Per capire quale sia il posto di King nella cultura di oggi, prendiamo il titolo della sua rubrica sulla rivista Entertainment Weekly:  “Pop of King”. E’ un gioco di parole meno semplice di quel che sembra: certo, è un rovesciamento di “King of Pop” (lo scrittore del Maine ha da tempo realizzato il presagio contenuto nel cognome), ma è anche una dichiarazione di intenti (“Eccovi il pop visto da King”), una constatazione (“Il pop di oggi non sarebbe stato possibile senza King”) e, infine, una manifestazione d’affetto, perché “pop” significa anche “babbo”.

Nella rubrica, tutti i venerdì, King parla di cinema, tv, fumetti, videogame, e a volte coinvolge i lettori in giochi e progetti di narrazione collettiva. L’autore di Carrie è sempre sintonizzato, tuned in; è un attento e vorace consumatore di media e se una cosa gli piace si entusiasma come un ragazzino. Se invece non gli piace, la stronca senza problemi, in fondo che gli frega? Dall’alto dei suoi duecento milioni di copie vendute e dei circa ottanta film e telefilm tratti dalle sue storie, di chi dovrebbe aver paura? E’ entrato in quella che lui stesso, in Danse macabre, chiamava “la sala culturale degli echi”, e il mazzo di tarocchi dei “suoi” personaggi (il Clown malvagio, l’Automobile assassina, l’Adolescente emarginato dotato di poteri psichici etc.) viene continuamente mischiato e consultato.

Ne abbiamo visto i risultati in serie tv come Heroes (chi conosce il ciclo della Torre Nera non avrà difficoltà a trovare analogie e discendenze tematiche) o Lost (esercitazione sul tema del “riazzeramento sociale” tanto caro al Re di Bangor, più volte nominato dagli sceneggiatori in interviste e apparizioni pubbliche).

Ne abbiamo visto i risultati in film come Donnie Darko, lunga sfilza di omaggi al Re, a partire dalla copia di It in mano alla madre di Donnie nella sequenza d’apertura.

Ne abbiamo visto i risultati nell’immaginario del nuovo metal: il “Mr. Grady” di cui cantano i Beholder è il custode dell’Overlook Hotel in Shining, e nell’Overlook Hotel si svolge il videoclip di Spit It Out degli Slipknot.

Ne abbiamo visto i risultati in videogames come Dead Rising (storia di zombies che rende omaggio a King e a George Romero) e in un sacco di altri posti.

Nel mazzo di tarocchi c’è anche lo stesso King, divenuto a sua volta un personaggio: appare nelle trame dei propri libri (La Torre nera), nelle scene di alcuni film e addirittura in una puntata dei Simpson, intento a scrivere una biografia di Benjamin Franklin.

All’età in cui altri scrittori e artisti iniziano a rallentare, King ha accelerato. Negli ultimi dieci anni non si è fatto mancare nulla, compresi gli esperimenti con Internet: nel 2000 il suo racconto Riding The Bullet, disponibile solo in rete, fu scaricato 500.000 volte nei primi due giorni. Poco tempo dopo mise in download a puntate, sul suo sito ufficiale, un vecchio inedito chiamato The Plant, a un prezzo facoltativo di $1 a capitolo e con una specie di formula shareware: “Se, volta per volta, almeno due persone su tre pagheranno il download, metterò on line la prossima puntata”. Andò bene per qualche settimana, poi il numero degli acquisti calò drasticamente e la pubblicazione fu sospesa. Io comprai tutti i capitoli messi on line, benché la storia non fosse, ehm, di quelle imperdibili. Ad ogni modo, quando nel 2007 i Radiohead hanno fatto parlare il mondo mettendo In Rainbows scaricabile a offerta libera, alcuni hanno ricordato il precedente di The Plant.

Lo zio Steve è anche un grande sostenitore degli audiolibri. Mentre molti li scoprono oggi, lui segue e promuove il fenomeno da tempi non sospetti, e  a volte recita i propri testi in prima persona. Tempo fa ha dedicato una puntata di “Pop of King” a un elogio dell’audiolibro: “L’audio non ha pietà, rivela ogni frase mal riuscita, ogni metafora trita, ogni parola sbagliata. Ascoltate su cd un romanzo di Tom Clancy, e non ne ascolterete mai più.”

Per l’appunto: con il nuovo millennio, King ha ingaggiato una battaglia contro il trito, il banale, il prevedibile, anche a costo di irritare i fans più conservatori (“Aridatece er Kinghe de ‘na vorta!”). Le sue storie si sono fatte più bizzarre e sperimentali: si va da gialli del tutto privi di soluzione (Colorado Kid) a monumenti di complessità narrativa ed emotiva (La storia di Lisey), passando per romanzi “informi” (Buick 8) e raccolte di novelle collegate per vie traverse (Cuori in Atlantide). Ormai non c’è titolo di King che non divida i suoi lettori in due schieramenti opposti.

E’ questa, del King di oggi, la qualità che più mi intriga: se ne fotte e va per la sua strada. E a volte la sua strada porta dove “non c’è campo”. Lo zio Steve ha trascorso l’agosto 2007 nelle distese del deserto australiano. “Volevo purgarmi la testa.” ha scritto, “Passare un mese lontano da tutto, in parte per allontanarmi dal casino, ma soprattutto per vedere le cose con occhi nuovi al mio ritorno. Quella pausa mi ha fatto capire quanto di quello che guardiamo, leggiamo e ascoltiamo sia merda di cui possiamo fare a meno.”

Qui casca l’asino: stare dentro il pop non significa ingoiare tutto. Certe cose restano inaccettabili, e pure questa è una lezione da “cattivo maestro”, e un maestro è tale solo se è cattivo.

Me lo immagino, King, che in una notte di visioni mistiche, sdraiato su un sacco a pelo sotto le stelle, ha la Rivelazione:  “La parola migliore per definire la merda rimane, ancora e nonostante tutto: MERDA”. Così sia, allora, e lunga vita al Re!

45 pensieri su “STEPHEN KING, KING OF POP

  1. Per Anna Luisa: “Qualcuno scrive un saggio per dire che lui e i suoi amici sono il nuovo della letteratura” (Simone Battig)

  2. Per viridolci:
    e se il saggio in questione venisse letto attentamente e poi criticato, anche in modo feroce, punto per punto e con cognizione di causa, non sarebbe più utile?
    La frase che tu riporti che validità può avere se non è accompagnata da alcuna riflessione ragionata? E gli sfottò che in questi giorni si moltiplicano, non pensi che siano il modo più semplice per aprire bocca e non dire assolutamente NULLA su ciò che è stato scritto?

  3. La descrizione a parte diciamo così solidificare il rango artistico di King (forse è ancora necessario, non so), ci dice di un ‘mondo della creazione’ in cui King ha un ruolo cruciale. Questo mondo è straordinario perché ‘pop’: con la vocazione ad aprirsi alle persone, rendendoli addirittura attori della creazione. E’ un mondo economicamentene fondato e artisticamente avanzatissimo. Eppure tutto si conclude così, in una bolla culturale autoreferenziale, non c’è confronto tra questo mondo e la realtà.
    Forse questa critica fa pensare al ‘benaltrismo’ se lo scopo dell’articolo era soltanto far percepire il valore di King. Ma io non riesco a concepire il discorso su una scrittura che non mi dice come quella scrittura, esibendo una ‘verità’, cambia la mia visione della ‘realtà’. Insomma, non mi interessa ‘come’ è fatta la scrittura di King né se collocarla in un canone, mi interessa – di ogni scrittura mi interessa questo – che cosa ‘fa’. E’ come se si parlasse, che so, di una medicina dicendo della formula chimica rivoluzionaria, dei laboratori avanzati in cui si sviluppa, del consumo di massa, senza però dire che cosa cura, cosa può toccare. Allora potrei anche pensare a un placebo, no?

  4. Scusate, all’inizio ho scritto ‘la descrizione’ ma volevo scrivere ‘L’articolo’, il fatto è che leggo l’articolo come una descrizione.

  5. Bravo WMI, l’impostazione ‘XL’ dell’articolo è azzeccatissima, e riesce a far entrare dalla finestra la letteratura mostrandola senza mai nominarla!

  6. @ Anna Luisa. “E gli sfottò che in questi giorni si moltiplicano”
    In realtà non si moltiplicano affatto. Sono sempre le stesse due o tre rane che tentano di gonfiarsi e sembrare buoi 🙂
    Il rancore di certi scrittori falliti è incredibile, se l’impressionante quantità di energia che spendono nell’attaccare chi è colpevole di essere pubblicato (nonché denunciare chissà quali complotti ai loro danni) la spendessero – anche soltanto in parte – per migliorare la qualità di quel che propongono, forse non sarebbero scrittori falliti.
    @ Viridolci. Tu non hai capito (ça va sans dire): è in questo articolo che io parlo davvero di me.
    @ Andrea. Mi è stata chiesta una rassegna delle influenze di King e uno “stato dell’arte” su dove si trova ora nel panorama pop. Cosa che valeva la pena ricapitolare. Soprattutto su una rivista comprata principalmente da adolescenti e ventenni che non possono conoscere il divenire storico della cultura pop in cui vivono. Bisogna iniziare a dar loro prospettiva. Dell’ultimo King negli ultimi anni ho scritto tantissimo e penso di avere anche detto “che cosa fa” la sua scrittura. Commuove, coinvolge, forza i limiti, sfida la comunità dei suoi lettori perché non si adagi sugli allori (altrui), spinge i colleghi a osare, racconta il mondo, descrive processi di guarigione come “rivolte riuscite”. Rimando alle mie recensioni di “Colorado Kid” (Nandropausa), “La storia di Lisey” (Carmilla) e “Duma Key” (Lipperatura di qualche tempo fa). Comunque sì, c’è ancora molto da riflettere e scrivere, su King.

  7. Per viridolci:
    “Se Manituana è il nuovo, ben resti il vecchio.” Risposta: decine di titoli e autori citati nel saggio e ti riferisci solo a Manituana?
    “La frase sintetizza perfettamente l’operazione NIE”. Risposta: operazione NIE????? Scusa ma detta così la tua frase mi fa un po’ sorridere…
    Il saggio NIE nasce come semplice relazione pubblica svoltasi in ambito accademico (e poi successivamente messa in rete)… queste cose accadono tutti i giorni in tutte le Università del pianeta, è la norma: l’operazione NIE è tutta qui 😉

  8. Ancora NIE? Ma perché, a fronte di un testo piacevole e che ben racconta uno Scrittore come King, si sente il bisogno di infilarci altro?
    Oh, mica voglio difendere WM1 che lo fa benissimo da solo e quello che dovevo dire sul tema l’ho già detto e discusso, senza mezzi termini, anche con lui in un post dedicato all’argomento, ma se continua così, per quel poco che vale il mio parere (nulla), finirò per pensare che abbia ragione quando parla di rancore. Su quello che fa/fanno i Wu Ming a volte si può essere d’accordo, a volte no, possono piacere o meno i loro libri, ma se un articolo è ben fatto perché cercare di infangarlo con discussioni che non c’entrano nulla invece di rimanere sul tema King e magari arricchirlo?
    Questo atteggiamento proprio non lo capisco. Sarà perché gioco a carte e le dinamiche sono diverse, sarà perché forse idealizzo il ruolo della letteratura (contrappasso?) e di chi fa letteratura; epperò questo gioco delle uova marce a tutti i costi è noioso e scontato.
    Blackjack.

  9. Che noia! Non sarà trolleggio al 100%, ma il “blocco ideologico” di tanti comment fa passare la voglia di condividere le proprie opinioni.

  10. Per Wu Ming 1. Sei un ottimo kingologo. Sei un pessimo wumingologo.
    Per Anna Luisa. “Decine di autori citati… “. Tutti gli autori citati hanno scritto opere perfettamente identificabili. Se poi qualcuno si fa le seghe americanizzandole in UNO (uniditified narrative object), buon pro gli faccia. In fondo, chi se ne frega? Gomorra è Gomorra. Hitler è Hitler. Biondillo è Biondillo. Gli Argonauti erano gli argonauti, ma Wu Ming 1 non è Giasone. Posso dirlo senza essere tacciata di scrittrice fallita e rosicante?

  11. Viridolci
    Alias Viridiana Dolci, che su Ibs recensisce entusiasta il libro di Angelini come il libro più bello di tutti i tempi…
    UHMMMMMMMMMMMMMMMMMMMMMMMM

  12. @ viridolci
    se sei davvero convint@ di quel che scrivi, perché non posti i tuoi commenti sul NIE nei post dedicati al NIE? È come se nel post di ieri sullo stronzo del participio (e, gli auguro, presto anche passato) qualcuno avesse commentato: “si, però Loredana Lipperini veste male, e il suo giudizio su Ammaniti non m’è piaciuto”
    @WM1
    “è in questo articolo che io parlo davvero di me”
    occhio Roberto, che alla tua età (non parliamo della mia) il sacco a pelo sotto le stelle e la schiena del papà stanno insieme come le due parti di un ossimoro 😉

  13. Inoltre, Viridiana Dolci recensisce con entusiasmo ancora maggiore il testo in cui Lucio concorre al concorso Scrittomisto.
    Due coincidenze fanno uno pseudonimo, e Lucio colpisce ancora. Hai visto te!

  14. Intanto è iniziata la ricezione della prospettiva wuminghiana presso i vari livelli dell’”industria culturale”.
    http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=251312
    Lo dico senza ironia, beninteso; da subito, oltre che per la stimolante caratura dei contenuti, il saggio di Wu Ming mi è parso ben riuscito anche in termini di tempismo. Ha colto il momento giusto per non rischiare di passare inosservato (per una serie di ragioni che meriterebbero uno spazio troppo ampio per non turbare l’economia di questo post).
    Già me li vedo, gli occhi di Lucio Angelini alla vista dei nipotini alle prese con la NIE sui loro manuali di liceo…

  15. Viridolci, poco prendere per il culo: usi un aggettivo come cavallo di Troia, e poi trolleggi fuori argomento. Content@ tu, che non hai di meglio da fare.

  16. Per Sherlock. I sedicenti innovatori si muovono in sincrono rimbalzandosi pezzulli a raffica da Lipperatura a Carmilla a Giugenna pur di imporre un marchio di squadra e tu vieni a fare le bucce a me, che seguo da un paio d’anni il blog di Angelini e ne ho apprezzato le traduzioni anderseniane? Trovi così strano che anche Angelini possa avere qualcuno che lo apprezzi? Fatti una pipa, va’ (come l’ispettore Maigret), ma anche una pippa, se preferisci.

  17. @ Anghelos: in questo articolo parlo di me perché metto a nudo un mio amore, parlo di una mia grande passione, parlo dell’autore di libri coi quali sono cresciuto, parlo di quella che è per me la cultura, e di quel che per me dovrebbe essere uno scrittore. Insomma, ecco, parlo di me.

  18. @WM1: sì, avevo immaginato fosse questa l’interpretazione. La mia voleva essere una battuta, anche se viridolci ne ha approfittato per “arruolarmi” tra chi la pensa come lei.

  19. Per Girolamo. Scusa, chi ti ha chiesto di perdere tempo con me? Confabula tranquillamente con i tuoi compagni di squadra.

  20. Francamente, pensavo che ci fossero modi più intelligenti per occupare il proprio tempo, ma evidentemente c’è chi si diverte ad inventare nuovi pseudonimi per continuare a bloccare una discussione. La presunta signora Dolci, spiacente, va a tener compagnia ad altre identità della medesima persona, in moderazione.

  21. Curiosità tratta dal sito della rai: si dice che i ragazzini di Bangor, nel Maine, abbiano istituito una forma di iniziazione crudele, che consiste nello scavalcare il recinto di casa King e passare una notte nel giardino del maestro del brivido. Solo così si dimostra di avere le palle.
    Uno scrittore per tutte le età. Un minatore dell’inconscio.

  22. A me l’ultimo King ha fatto tornare in mente il Giovanni Pascoli di “Il brivido”:
    Il brivido
    Mi scosse, e mi corse
    le vene il ribrezzo.
    Passata m’è forse
    rasente, col rezzo
    dell’ombra sua nera
    la morte…
    Com’era?
    Veduta vanita,
    com’ombra di mosca:
    una ombra infinita,
    di nuvola fosca
    che tutto fa sera:
    la morte…
    Com’era?
    Tremenda e veloce
    come un uragano
    che senza una voce
    dilegua via vano:
    silenzio e bufera:
    la morte…
    Com’era?
    Chi vede lei, serra
    né apre più gli occhi.
    Lo metton sotterra
    che niuno lo tocchi,
    gli chieda – Com’era?
    rispondi…
    com’era? –

  23. @ Plessus: se la notizia che riporti è vera… beh che dire… io lo trovo un rito di iniziazione splendido, quasi da giovani “cripti” spartani (tanto per rimanere in tema con 300!). Immagino però che le aiuole di casa King siano in pessime condizioni.
    @ tutto il commentarium: mi state dicendo che ieri ho sprecato 20 minuti del mio tempo prezioso per conversare con la famosa “rana che si gonfia per assomigliare a un bue” senza accorgermi di nulla? Potevate dirmelo eh…

  24. @ Anna Luisa, ecco la fonte: http://www.dispenser.rai.it/printBook.php?id=128
    Per quanto riguarda la rana, dall’esterno e da perfetto sconosciuto – anche se mi firmassi con il mio nome e cognome tale rimarrei -, è più forte di me, trovo alquanto divertente leggere questi siparietti che si aprono e chiudono per mano di personalità multiple che nascondono un unico (forse due… ) falso bue. Anche se tutto sommato ne farei a meno.
    Ora, nessuno avrà chiesto il mio parere, ma a me sembra che la rana-bue trovi viva soddisfazione a leggere i risultati delle sue provocazioni, inserite a bella posta come gratuite azioni di disturbo ai danni di alcuni commentatori e della gentile titolare del blog, che forse ha anche altro da fare piuttosto che controllare tutti i momenti chi scrive e ciò che si scrive.
    Direi: se c’è qualche rompicoglioni in giro, o si cancella o lo si ignora, a lungo, fino a che l’indifferenza generale non gli smonta il suo ego stranito e lo invita implicitamente a cambiare location. Combatterli è così stressante…
    Ora che mi viene in mente, ce n’era un altro simile, in giro, che interveniva per dire la sua qui e su altri blog “non distanti” su libri che non aveva mai letto. Ma che fine ha fatto? Come si chiamava?
    🙂

  25. Veramente la frase “Tutti gli autori citati hanno scritto opere perfettamente identificabili. Se poi qualcuno si fa le seghe americanizzandole in UNO (unidentified narrative objects), buon pro gli faccia. In fondo, chi se ne frega?” avrebbe una sua legittimità, come tutti i punti di vista dissonanti da quello mainstream, ma tant’è. Che ognuno tiri acqua al suo mulino.

  26. Non ho nulla da eccepire sul saggio, in quanto ho iniziato a leggere King adesso, proprio prendendo spunto dai consigli della Lipperini (e per ora i risultati sono aldisopra delle mie aspettative).
    Vorrei però fare un cenno ad una frase che ho letto qui e ho trovato spesso citata altrove e mi piacerebbe commentare: “Il giallo senza soluzione” come esempio di narrativa sperimentale.
    Ora, premetto che io adoro il giallo. Il giallo classico, per eccellenza, e sopra tutti un autore spesso dimenticato quale John Dickson Carr. Secondo me, la rivoluzione del giallo è proprio riuscire a trovare una soluzione che sia davvero sorprendente. Lì c’è la difficoltà del genere. Certo, ho letto “La promessa”di Durrenmatt ed è un capolavoro, ma proprio perché prende di petto il genere. Adottare i canoni della detective story per poi fare “il colpo di genio” di evitare il finale, lasciando lo spettatore con un palmo di naso, beh per me è molto molto più semplice. E, nei tempi odierni, anche meno originale.
    La grande sfida del giallo, oggi, è riuscire a coniugare talento letterario e profondità dei personaggi (come fece Maigret) alle spettacolari invenzioni illusioniste dei classici. Ma, il must, è deve restare il finale, con la soluzione…
    (ovviamente secondo me).

  27. Ekerot, hai letto “Colorado Kid”? Penso di no, perché in quel libro King fa qualcosa di diverso dal semplice “evitare il finale”. Il romanzo è qualcosa di più e di diverso da un mero giallo senza soluzione. Quella è una definizione semplicistica e stringata che ho dovuto usare nel pezzo per XL, tra parentesi, in un contesto dove era necessario essere asciutti. C’è uno “squarcio” (più di uno, in realtà) che rende quel libro oltremodo perturbante, se lo si legge con attenzione. La mia recensione su Nandropausa n.9 qualcosa dice. Pure troppo, forse.

  28. E’ l’unico autore di un “manuale di scrittura” che mi abbia fatto venir voglia di scrivere.
    Il termine POP ha radici profonde e in King c’è da scavare a lungo prima ti trovare un fondo che lo definisca o circoscriva; “senza soluzione” potrebbe essere una possibile definizione del re.
    Un giorno un amico mi disse, Stephen King è sicuramente uno pseudonimo; Stephen-incoronato; King-re.
    Io penso che come in altri fatti notevoli della letteratura non tutto quello che è dipenda da sue scelte o si possa considerare un suo obbiettivo, ma debba essere integrato nell’aneddottica che lo accompagna dentro e fuori i suoi libri, sfuggendo, in questo continuo movimento dentro e fuori, ad un giudizio corrente.
    Quando racconta dell’incidente che subì anni fa e descrive il Pickup che lo investe, col fucile sulla rastrelliera, i due pitbull nel cassone e il vecchio zotico in tuta alla guida, dice che non poteva che essere un personaggio della sua immaginazione a centrarlo e quasi ammazzarlo.
    Qui mi fermo, ma dire troppo di lui non credo sia troppo.

  29. Ekerot, proprio i grandi maestri del cosiddetto “giallo classico” sono stati i primi a stufarsi del regolamentare “finale con la soluzione”, come scrivi tu, da Ellery Queen alla Christie (che in ben due libri – uno celeberrimo, l’altro assai meno – usa lo stesso, identico colpo di genio e ti mette nel sacco entrambe le volte), a un autore dimenticato come C. Daly King (il cui “Morirai a mezzogiorno”, del 1935, inizia addirittura con il finale e poi procede a ritroso), a un’altra geniale dimenticata come Patricia McGerr, nel cui “Pick Your Victim”, del 1946, si sa fin dalla prima pagina chi è l’assassino, ma ignoriamo chi è la vittima.
    E non solo loro. Anche nel campo dell’hard boiled ci sono delle intuizioni geniali in cui l’enigma c’è, bello in vista sotto gli occhi del lettore, che quando se ne accorge è già stato fregato dall’autore. Per citarne uno, “L’ultimo vero bacio” di James Crumley, che nessuno penserebbe di infilare tra le “invenzioni illusioniste”. Eppure…

  30. Concordo pienamente. Lo stesso Carr in un suo romanzo infilò il nome dell’assassino subito all’inizio, riuscendo lo stesso ad intortarti.
    Volevo solo approfittare dell’intervento di WuMing1 per postare questa mia osservazione. Spesso il giallo classico viene snobbato in quanto “gioco letterario” (non penso che questa sia la posizione del su-citato), per via di questo “finale con soluzione”, che appunto accomuna il genere del giallo classico ad un evento ludico (orrore per molti critici).
    Penso che la difficoltà del giallo sia appunto nel riuscire a sperimentare con tutti i meccanismi possibili del genere senza però mancare di onorare la pazienza del lettore riguardo alla soluzione dell’enigma.
    Ed oltretutto il “come” rappresenta un vero e proprio guanto di sfida, perché riuscire nel gioco illusionista è compito assai arduo. Riuscire oggi a poter leggere un’accurata e geniale camera chiusa tipo “Le tre bare” per me sarebbe un fatto miracoloso, anche se questo potrebbe apparire un risultato letterario démodé o addirittura reazionario.

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