IL PRINCIPE DAGLI OCCHI DI FALENA: SONTAG E WOOLF

La discussione sul racconto della malattia è evidentemente continuata, a dimostrazione che anche da una polemica fiammeggiante e breve come quella accesa sui social su Nadia Toffa si può trarre una riflessione importante, ed è importante proprio perché non è abbastanza narrata, a dispetto del proliferare di libri di cui si diceva ieri, qui e a Fahrenheit (chi volesse riascoltare la discussione con Vittorio Lingiardi e Andrea Tarabbia la trova qui).
Allora, vale la pena di ricorrere a due consigli di lettura. Il primo, citatissimo e necessario, è Malattia come metafora di Susan Sontag (sembra non disponibile, purtroppo), laddove Sontag dice che “non c’ è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è inevitabilmente moralistico”, e dunque tutti i discorsi sulla forza di volontà e sulla lotta che si associano spesso alla malattia perdono senso in quanto metafora militare vincente che ci piace adottare, ma non corrisponde alla realtà della malattia stessa.
Il secondo libro è Sulla malattia di Virginia Woolf e riguarda le parole con cui raccontarla. E’ un saggio breve, ma evidenzia le difficoltà che ancora oggi abbiamo nell’affrontare il discorso, dentro e fuori dai libri: perché se è vero che dal 1926 a oggi il lettore ha ormai centinaia e anzi migliaia di testi sull’argomento, forse ancora quella narrazione, nonostante tutto, è terribilmente faticosa.
“Appare davvero strano che la malattia non figuri insieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi principali della letteratura. Verrebbe da pensare che romanzi interi siano stati dedicati all’influenza; poemi epici alla febbre tifoidea; odi alla polmonite; liriche al mal di denti”. (…)
Ma no, salvo poche eccezioni, la letteratura fa del suo meglio perché il proprio campo d’indagine rimanga la mente; perché il corpo rimanga una lastra di vetro liscio attraverso cui l’anima appaia pura e chiara, e, eccetto che per una o due passioni come il desiderio e la cupidigia, sia nullo, e trascurabile e inesistente. La verità è tutta il contrario. Il corpo interviene giorno e notte, si smussa o si affila, si colorisce o si scolora, si volge in cera nel calore di giugno, s’indurisce come sego nell’oscurità di febbraio. La creatura che vi sta rinchiusa può solo vedere attraverso il vetro, imbrattato o roseo; non può separarsi dal corpo come il coltello dalla guaina o il seme dal baccello per un solo istante. (…)
La gente non fa che raccontare le imprese della mente; i pensieri che l’attraversano; i suoi nobili propositi, come abbia civilizzato l’universo. Secondo loro la mente, nella sua torre d’avorio, ignora il corpo; o con un calcio lo fa volare, come un vecchio pallone di cuoio, attraverso leghe innevate o desertiche a perseguire conquiste e scoperte. Alle grandi guerre che il corpo, servito dalla mente, muove, nella solitudine della camera da letto, nessuno bada. Non ci vuole molto a capire il perché. Guardare simili cose in faccia richiede il coraggio di un domatore da leoni; una vigorosa filosofia; una ragione radicata nelle viscere della terra. Se ne manca, questo mostro, il corpo, questo miracolo, il suo dolore, ci faranno subito ridurre nel misticismo o salire, con rapidi battiti d’ala, alle estasi del trascendentalismo (…)
A impedire la descrizione della malattia in letteratura ci si mette anche la povertà del linguaggio. (…) Qualunque ragazzina innamorata può contare su Shakespeare o Keats per dar voce ai suoi sentimenti, ma basta che il malato tenti di spiegare a un medico la sofferenza che ha nella testa perché il linguaggio si prosciughi di colpo. Non c’è nulla di pronto all’uso. (…).
Ma non abbiamo bisogno semplicemente di una lingua nuova, più primitiva, più sensuale, più oscena, bensì di una nuova gerarchia delle passioni: l’amore si ritiri davanti a quaranta di febbre, la gelosia lasci il posto agli attacchi di sciatica; l’insonnia prenda la parte del cattivo e l’eroe sia un liquido bianco dal sapore dolciastro – quel Principe valente con gli occhi di falena e i piedi piumati, uno dei cui nomi è Chloral”

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