LA FORTUNA DEI VIVI: SCRIVERE DEL DOLORE

L’ho premesso ieri sera su Facebook e lo premetto di nuovo qui. Non mi interessa tanto entrare nel “caso Nadia Toffa”. Mi interessa discutere di libri e di dolore, del filone dei libri sul dolore, dell’interesse che suscitano, delle vendite che sollecitano quasi sempre.
Ho provato a dirlo, ma le risposte sono sempre state relative al tweet con cui Nadia Toffa annuncia di aver raccontato la sua malattia, appunto, in un libro, tweet giudicato dannoso e offensivo. In realtà il parlare di “dono” è faccenda non nuova, fa parte di quella che viene chiamata la “mitologia del cancro”, che include anche la lotta come strumento di salvezza.
Non lo dico io. Lo ha scritto Philippe Forest, in quel libro terribile e bellissimo che è Tutti i bambini tranne uno, peraltro da poco riproposto da Fandango. Forest compie un atto di impudicizia e di amore: racconta la morte della figlia bambina, per tumore. Non riuscirà a raccontare altro, nei libri successivi, e lo fa consapevole, come leggerete, di essere parte di uno “spettacolo raro”: la morte, e la morte di una bimba di pochi anni. Certo, una storia diversa da quelle che abitualmente si raccontano sul cancro:
“Success stories, happy ends… E così via, fino alla nausea… Se la malattia colpisce ciecamente, per lo meno saprà rispettare quelli che le resistono, risparmierà quelli che le tengono testa. La società vuole che la paccottiglia dei suoi valori regni fin nel chiuso dell’ospedale. Nella vita, come nella morte, ci vogliono i combattenti, i vincenti. Il paradiso della riuscita è loro. Meglio, l’ospedale diventa il luogo esemplare in cui la società intende verificare la giustezza dei principi che fondano la sua logica di schiacciasassi. La lotta perpetua per la sopravvivenza non è una finzione politica. Guardate come la medicina ne conferma la verità: i deboli muoiono, i forti trionfano. Ha dunque una morale la favola sanguinosa dell’esistenza. Bisogna essere caritatevoli, pietosi, nei confronti di chi sprofonda ma i veri eroi positivi che la società reclama sono quelli che escono vincitori, hanno fornito la prova che la stessa morte poteva essere sconfitta, che non esisteva. Hanno raccolto ciò che avevano seminato. I loro sforzi sono stati contraccambiati. Tutto questo è giusto. Ognuno ottiene ciò che gli spetta. Ma che cosa spetta ai morti?”.
Ora, la reazione a quella che a me appare soprattutto un’ingenuità di Toffa, porta dentro di sé questo stato d’animo. Che è più che comprensibile, più che condivisibile. E che all’interno della reazione ci sia la disapprovazione per la provenienza della ragazza da una trasmissione tossica come Le iene ci sta pure. Ci sta meno, secondo me, l’estrapolazione della faccenda da una tendenza crescente nel mondo editoriale.
Seconda precisazione.
Non ho nulla contro i libri che raccontano il dolore. Credo che ogni libro, o quasi ogni libro, porti con sé la ferita di chi lo ha scritto. E credo anche che i libri che dichiaratamente esaminano e restituiscono il dolore possano assolvere alla funzione consolatoria che non l’autore, forse, ma di certo l’editore mette in conto. Quando è morta mia madre leggevo L’anno del pensiero magico di Joan Didion, leggevo Livelli di vita di Julian Barnes, leggevo, certo, Philippe Forest. Mescolavo le mie lacrime a quelle di chi raccontava la propria sofferenza. Credo che sia importante trovare anche questo in un libro, in certi momenti della propria vita. Ma credo anche che ci sia un’indubbia lontananza, a volte abissale, nel modo di raccontare e di decidere di pubblicare. Non parlo solo di lingua letteraria, anche se è elemento fondante, parlo di come quel libro viene proposto e in quale filone si inserisce: è noto che da qualche anno a questa parte si moltiplicano i testi sulla malattia, fisica e psichica, sulla vedovanza, sulla morte. Dipende, credo, ma non so trovare una parola più adatta, dall’onestà di quel libro, dal modo in cui si maneggia quella materia terribile che si è deciso di raccontare. Ecco cosa scrive, ancora, Forest nel suo romanzo:
“La morte di un bambino è uno spettacolo raro. Riempite la sala. Fate il tutto esaurito. Si spintonano in platea, si spintonano in galleria. Dietro le quinte, il direttore di scena batte i tre colpi. Il sipario si alza, stupore. Non credete ai vostri occhi. In un batter d’occhio, la commedia è diventata tragedia. (…) Però non siete nella tragedia. Siete nella vita, e sono gli altri che chiamano la vostra vita: tragedia. Il disastro che vivete è al di là delle parole. Non se ne può dire niente. Non si scompone in atti, in scene”.
Forest è consapevole del ruolo che si assumeva durante la malattia di Pauline e di quello che si assume mentre racconta la sua morte. Questa consapevolezza e questa autocritica, anche, è quella che può fare la differenza. Ed è rara.
Poi c’è un’altra cosa. Siamo stati abituati per anni al dolore altrui esibito in televisione. Ora ci abituiamo al dolore narrato sui nostri social, spesso con ottime intenzioni e persino con ottimi risultati. C’è un mio contatto, che non nominerò, che posta con frequenza piccoli video sulla madre malata di Alzheimer. Chi è caregiver come lui si riconosce, si commuove, partecipa, lo sostiene. Lo comprendo. Resta in me un neanche sottinteso orrore verso l’esibizione di quel volto innocente e inconsapevole, esposto alla visione degli altri. E anche se quei video sono importanti per chi è nella stessa situazione, non riesco a non rabbrividire. Certo, dalla mia posizione di privilegio, io che ho perduto una madre lucidissima a dispetto dei suoi 91 anni e che non sono stata, per mia carenza e per destino, una vera caregiver.
C’è una morale in tutto questo? Non lo so, e non era mia intenzione trarne una. Vorrei che ci fossero meno libri sul dolore, o almeno meno libri casuali e furbi, ma forse è una sciocchezza anche questa. Vorrei che il gioco della gogna sui social si indirizzasse ad altro, ma più che una sciocchezza è un’utopia. Di certo, tutti abbiamo bisogno di raccontare il nostro soffrire  (qui c’è parte del Diario del lutto di Roland Barthes, per esempio), ma sarebbe bello che non ci si speculasse (troppo) sopra. Ma è vano pensarlo, credo. Come scrive, ancora, Forest:
“La maggior parte degli umani pensano che esista nel mondo una quantità limitata di fortuna. Di qui l’espressione di contentezza che passa sul loro volto quando vedono un morente. Credono che il morente, con la sua disgrazia, liberi così la parte di fortuna che gli era riservata e che questa possa reintegrare il totale a disposizione dei vivi”.
Suave mari magno: “È dolce contemplare dalla riva le onde sollevate dalla tempesta, e il pericolo di uno sventurato che lotta contro la morte: non perché si provi piacere per la disgrazia altrui, ma perché è consolante la vista dei mali che non ci colpiscono”.

7 pensieri su “LA FORTUNA DEI VIVI: SCRIVERE DEL DOLORE

  1. Ci sono dentro, sono una “vincente” per me stessa, ma ho perso mio marito due mesi fa più o meno. Ho letto molte volte che chi aveva scritto della propria malattia o della propria perdita l’ aveva trovato terapeutico.
    Non so, a parte i grandi talenti letterari che rendono una storia universale, in genere nei momenti più duri non trovo parole.

  2. Non lo so,
    come madre di un bambino che ha vinto la leucemia e aver vissuto nei reparti di oncologia infantile, posso dire che certi accadimenti non sono doni ma opportunità. Ovviamente se se ne esce vivi.
    A mio avviso il cancro è come il nazismo e chi lo “sconfigge” un ebreo sopravvissuto. Conosci il valore della vita che i sani normalmente danno per scontato, se hai risorse (umane, culturali o quello che volete) rivoluzioni la scala dei Valori, rivaluti le persone, diventi più tollerante con il genere umano perché lo hai conosciuto anche nelle pieghe più nascoste.
    Quello che non si dice mai è che il malato spesso viene abbandonato. I primi ad allontanarsi sono proprio “gli affetti più cari”.
    Non c’è umana empatia nel mondo del lavoro dove comunque devi presentarti più o meno ogni giorno anche se hai un figlio di nemmeno 10 anni da accompagnare alle chemio e alle radio.
    Il malato è improduttivo e spesso perde il lavoro. Mio figlio era troppo piccolo per averne uno ma io abbastanza grande da rischiare il posto.
    Sono esperienze che ti cambiano talmente profondamente da voler raccontare quella rivoluzione personale.
    In un periodo storico così nero dove è normale augurarsi che dei disperati anneghino in mare piuttosto che approdare sulle nostre coste, parlare del dolore e di quello che puoi imparare se hai la fortuna di sopravvivere, mi sembra un’operazione di marketing forse ruffiana ma certamente non così negativa e dannosa.

  3. Cara Loredana e anche cari voi che le scrivete,
    lavoro da trentasei anni come infermiera in un ospedale oncologico e non ho la verità in tasca. Certo posso ricordare tempi differenti da quelli di oggi e mi sembravano molto spaventosi, un po’ di più di oggi.
    Ovviamente c’erano meno terapie, molto meno mirate e bisogna ricordare che la diagnosi precoce oggi è più diffusa. Sicuramente non può interessare le persone che non hanno vissuto la mia esperienza, l’evoluzione delle cure. Come sappiamo, le possibilità di guarigione sono enormemente aumentate per quasi tutti i tipi di tumore e ora abbiamo le nuove frontiere dell’immunoterapia per la quale ogni paziente ha un tumore diverso dagli altri, con le sue specifiche caratteristiche immunoistiochimiche e dunque in alcuni casi con possibili cure specifiche.
    Ma ritorno all’aspetto umano di essere malati e penso che anche sul fronte del modo di trattare la persona malata ci sia stato un progresso legato alla consapevolezza che prendere in carico la persona malata sia già parte della cura e allieva un po’ l’angoscia di doversi muovere da soli a destra e sinistra senza sapere bene come fare a prenotare una Tac ad esempio.
    Ma non tutto va bene purtroppo, non sempre questa presa in carico si realizza nel modo più appropriato.
    Questo per dire di alcune cose pratiche che accadono intorno ad una persona malata di cancro.
    La malattia è per ciascuno esperienza individuale, però è stato importante che i pazienti sentissero che è esperienza che riguarda tanti, anche persone note.
    Ho sempre ammirato coloro che da persone famose hanno fatto sapere di essere malate o di esserlo state. Se non ci si sente di farlo va bene uguale. Però una persona conosciuta non deve avere una ricetta per tutti, questo non lo accetto. Un paio di volte ho messo mano al portafoglio perché c’erano persone che avevano problemi economici che io non potevo risolvere ovvio, ma non potevo mostrarmi indifferente.
    Con ciò volevo dire che esistono le disuguaglianze economiche anche quì dove abbiamo da benedire il nostro SSN, che ci cura abbastanza bene.

  4. Capisco il bisogno delle persone di leggere libri per non sentirsi soli, soprattutto quando si è vulnerabili, questo bisogno collettivo di vicinanza tra individui. Il problema è che questo bisogno è predato dal mercato. E il mercato si occupa del marketing del dolore non della giusta condivisione sincera della condizione umana.
    Inoltre, tutta la narrazione del “male” è diventata una grande liturgia semi-religiosa. Sembra che la malattia sia una prova a cui le forze dell’universo ci mettono alla prova e solo chi, attraverso una serie ti tentazioni ed espiazioni, sarà redento e assolto. Gli altri non sono pervenuti. O meglio, non esplicitamente. Gli altri evidentemente non erano “abbastanza” e anche questo essere sempre efficienti ogni giorno è un prodotto del mercato.
    Sul caso specifico Toffa credo che la rete si sia lasciata andare ai bassi istinti per via della metafora del “dono”. Da una parte capisco l’irritazione. Un dono è una cosa bella, è il pensiero di chi ci ama, potrebbe essere un dono durante le feste, o una sorpresa di qualcuno che è passato davanti un fioraio e ci ha comprato una rosa, poi arriva il marketing e ti propina un libro sulla malattia-dono con cui testare se si è forti abbastanza.
    Sull’ingenuità del gesto avrei i miei dubbi, ma sicuramente la grande polemica è ormai deragliata su altri binari.
    Tutti noi abbiamo letto libri in cui c’era il dolore ma era sincero, era la narrazione di qualcosa in cui riconoscersi, in queste produzioni in serie del genere malattia-dolore-espiazione-vittoria non sento la stessa cosa. Mi sembrano più affini alle pseudoscienze che ti invitato a risolvere i tuoi problemi (di qualunque natura) con la forza di un infuso magico (molto costoso, non a caso) e la forza interiore dell’individuo. Questo ci rende tutti più individuali e meno collettivi. Ma la condivisione sincera con l’alterità è quello che ci rende umani, o no?

  5. Cara Loredana,
    scrivo ancora dopo aver ascoltato la bellissima trasmissione di ieri di Fahrenheit perché quello che avevo postato non è molto attinente a quanto scrivevi sulla letteratura del dolore.
    Vorrei ricordare per esempio il libro dell’editor Severino Cesari: Con molta cura”, non solo autobiografia del suo percorso di cura col tumore (di cui come sappiamo è poi morto lo scorso ottobre) ma un vero tesoro di umanità e di bellezza, che ci restituisce una persona generosa, profonda, che mi sento di amare.
    Severino Cesari non assume un ruolo eroico che la malattia “tumore” sembrerebbe attribuirci. Anzi, i suoi rapporti di tutti giorni sono vissuti con gratitudine, calore e sensibilità estrema, ma quello è il suo modo personale e specifico di vivere e dunque anche vivere quel tratto di vita colonizzato dalla malattia.
    Come dicevo non ho e non devo avere una ricetta, una verità.
    Scrivere, ricordava ieri lo psichiatra Vittorio Lingiardi, può essere d’aiuto.
    Anch’io partecipo con entusiasmo agli incontri di Medicina Narrativa; è terapeutico anche per me che lavoro per le persone che si stanno curando o non si stanno curando perché stanno morendo. In quei casi tragici e senza possibilità di guarigione, per fortuna esistono le cure palliative. Non si abbandonano le persone perché non si possono più curare ma le si accompagna verso la morte insieme ai loro cari con le equipe che assistono a casa o negli hospice.
    Le metafore della “battaglia” contro il cancro non mi è mai piaciuta ma la accetto da chi sente di volersi esprimere così. Io vedo persone che con difficoltà portano avanti la loro vita e portano avanti anche le cure per la guarigione. Si impara tanto dalle persone ma soprattutto si scambia tanto con le persone che vivono una malattia quasi totalizzante come quella.
    Grazie ancora per l’attenzione.

  6. QUando è uscito il film Arrival mi è piaciuto molto, sembra fantascienza, ma è anche un racconto di come si accetti la vita che ti tocca in sorte e si aderisca ad essa, prima ancora che accada. L’esperienza del dolore, nostro, altrui, delle persone vicine, porta certe volte a scoprire cose che è difficile raccontare, quasi impossibile, i misteri più insondabili, e ci lascia senza fiato, e viene da dire grazie. Anche se forse tornando indietro e avendo la possibiità di scegliere, cosa che nel nostro universo è impossibile, (per ora! poi chi lo sa) se ne farebbe a meno. Ciao LOredana, la seguo sempre

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