IL RICORDO DEL BENE

In questi giorni confusi e convulsi, dove il centro vacilla (per l’amato gatto, e per quel che ci accade, certo, anche), sono andata a ripescare un piccolo saggio di Wu Ming 4, L’eroe imperfetto. Cercavo, in verità, un passaggio, sugli hobbit come antieroi. L’ho trovato, e ho ricordato perché lo cercavo. Nelle ore difficili, è il ricordo del bene a venirci in aiuto. Che sia così per voi tutti, oltre che per me.
“Al contrario degli eroi virili, gli hobbit non temono il ridicolo, anzi, lo introiettano grazie all’autoironia e all’umorismo istintivo che nasce da una visione scanzonata e godereccia della vita. Questo non impedisce loro di accettare il sacrificio per il bene collettivo, ovvero di spendersi fino all’ultimo con coraggio. Come dire che sono edonisti, amanti dei semplici piaceri e delle gioie terrene, piuttosto che ascetici guerrieri, ma non per questo sono cinici o egoisti. Non è l’osservanza a un’ideale eroico che li spinge a grandi
imprese, bensì il rifiuto di esso. La risata divertita degli hobbit non è il ghigno sprezzante del guerriero che si lancia verso la morte, né il sorriso sardonico di chi contempla la propria e altrui sorte con distacco. Allo stesso modo la loro ironia non è un artificio retorico per sminuire la gravità dell’impresa che li attende, né soltanto un mezzo per alleviare la tensione (anche se certo aiuta): si tratta invece di un ottimo antidoto contro l’orgoglio.
Non è un caso che nel breve tratto di strada in cui Sam si trova a portare l’Anello, per lui la tentazione si concretizzi nella prospettiva di diventare “Samvise il Forte, Eroe dell’Era”, salvatore della Terra di Mezzo. La sua risposta consiste nel ristabilire il limite di ciò a cui tiene, superando il quale verrebbe travolto dalla propria stessa hybris:
“In quell’ora di tentazione fu soprattutto l’amore per il padrone che l’aiutò a tenersi saldo; e poi, in fondo alla sua anima, viveva ancora indomito il buonsenso hobbit, ed egli sapeva in fin dei conti di non essere abbastanza grande per poter portare un simile fardello, anche se le visioni non fossero state esclusivamente ingannevoli illusioni. Il piccolo giardino di un libero giardiniere era tutto ciò di cui aveva bisogno, e non un giardino ingigantito alle dimensioni di un reame; aveva bisogno di adoperare le proprie mani, e non di comandare le mani altrui”.
(Il Ritorno del Re, libro II, cap. I)
A Sam non importa nulla dell’onore né degli onori. Tanto meno gli interessa emergere come sovrano illuminato di un reame a venire che riecheggi i fasti del passato; sorte che toccherà invece ad Aragorn e che lui accetterà con cautela, consapevole dei rischi e dei limiti impliciti.
Ancora più importante è il secondo elemento che tiene lontana la disperazione.
C’è un momento particolare, quando Sam crede di avere perso per sempre Frodo, in cui si siede sconsolato e inizia a rimembrare casa.
Mormora “vecchie filastrocche infantili della Contea” e canzoni che evocano “eteree visioni della sua terra nativa”. Piano piano la memoria gli ridona speranza e il suo canto diventa più convinto, chiamando in causa il rigoglio della natura e le “elfiche stelle”.
Ecco come ritrova il coraggio Sam, che ormai si avvia a diventare l’eroe indiscusso del romanzo: grazie al ricordo del bene. Un’idea che riecheggia le parole di Tecmessa ad Aiace:
…un uomo non deve
dimenticare la dolcezza che ha ricevuto.
Il bene genera il bene, sempre, e colui
che non conserva il ricordo di quel bene
non può essere definito un uomo nobile.

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