IL RITORNO DEL MONNEZZONE

Volevo, lo giuro, parlare di qualche libro che mi è piaciuto particolarmente. Però la discussione che si è sviluppata su horror e informazione in rete sta prendendo una piega molto interessante: se ne parla su Malpertuis e da Andrea G.Colombo.
Aggiungo solo una piccola cosa: giustamente il titolare di  Scheletri rivendica nei commenti a Malpertuis  il carattere amatoriale del suo sito, peraltro gestito con molta passione da una sola persona, mentre le recensioni vengono direttamente dagli utenti. Certo, questo è un caso diversissimo rispetto alle tre e-zine corazzata di cui ho parlato in precedenza: però, la mia provocazione intende  battere anche su questo tasto.
Ovvero, l’importanza di un’assunzione di responsabilità PROPRIO da parte degli amatori. Chiunque scriva su un blog scrive gratis: ma se è il compenso a fare la professionalità, la rete rischia grosso. Almeno secondo me, è importante essere sempre pienamente consapevoli di cosa e di come si scrive.
Anche quando si parla di horror e di fantasy.
Direi, persino, soprattutto.  Dal momento che ieri ho visto rispuntare il fantasma del Monnezzone.
Il Monnezzone ha una lunga storia. Si manifestò nel 2006, quando Silvia Ballestra, intervistata da Simonetta Fiori per l’uscita del suo romanzo, ne parlò in questi termini:
Il “monnezzone” è il thriller standardizzato, diffuso a livello planetario. Libri plastificati sul genere Sonzogno ma anche Mondadori ci dà sotto. Un esempio tipico è Jeffrey Deaver, l’ inventore del criminalista paraplegico coinvolto in storie efferate. Titoli del tipo: Lo scheletro che balla o Il collezionista d’ ossa… O anche i gialli di Carlo Lucarelli e Massimo Picozzi. è un genere che tira molto. E io confesso che, quando sto male, me lo divoro.
Seguì un articolo di Andrea Cortellessa su Tuttolibri, la cui parte finale recitava così:
Purtroppo per l’eventuale buonafede di chi spaccia a palate i suoi spaghetti gothic, a contenere in sé un reagente conoscitivo dal valore anche sociale resta proprio la noiosissima letteratura «vera». Quella, cioè, che funziona attraverso la differenza, e non la ripetizione. Quella che, se inventa sempre nuove forme, è perché non s’appaga soporifera di quelle ereditate (le forme artistiche, trascendentale allegoria di quelle dell’esistenza associata). Quella che non equivale certo, sic et simpliciter, alla «comunicazione»: e proprio per questo ha il coraggio di pagare (anche fuor di metafora) la propria mancata «sintonia con le domande della società». È questa la letteratura che prevede, fra i propri scopi ideali, la liberazione del pensiero di chi legge. E non è un caso che sia questa, oggi, a rischiare d’essere travolta dal «futuro» editoriale e mediatico dei monnezzoni «Classe 1984». Se ciò dovesse accadere, stia sicuro l’Inquisitore, non mancheremo, armi e bagagli, d’andarcene sopramonte. Non la sottovaluti, Eymerich, la resistenza: altri hanno fatto lo stesso errore.
Dopo un lungo silenzio, il Monnezzone è riapparso in pompa magna in un articolo di Elena Stancanelli, peraltro molto bello e interessante per quanto riguarda il rapporto fra case editrici e autori. Solo che, verso la fine, cigolano le porte, stridon le catene. Ed ecco cosa accade:
Comprare libri è difficile. Per chi non tiene il naso ficcato ogni giorno nelle pagine culturali dei giornali serve un tom tom, qualcuno che ti indichi la strada quando, entrando nelle librerie, vieni ormai travolto dalla potenza visiva e anche fisica delle pile di “monnezzoni” dalle copertine dorate, che vomitano draghi, complotti, maghetti.
E tre.
Tre fra autori e critici che definiscono spazzatura o, nella migliore delle ipotesi, scrittura da volgare  intrattenimento, tutta la narrativa fantastica. Sì, tutta. Perchè non mi interessa se qualcuno, ora, salterà su dicendo che in realtà adora Philip Dick e ha costruito un altarino segreto a Lovecraft.  Occorre essere chiari: che ci siano libri di basso profilo nella narrativa fantastica è evidente. Che tutto ciò che parla di draghi e magia sia immondizia  è un falso.
Se, dunque, il Monnezzone viene ancora considerato come serie B rispetto alle nobili stanze della letteratura  (ma che noia dover ripetere queste cose a distanza di quasi quattro anni. Davvero, che noia, che desolazione), ebbene, ecco che l’assunzione di responsabilità di chi informa, sulla rete, su  quei libri, diventa fondamentale.
Tutto qui.
Ps. Gl D’Andrea parla nel suo blog dello stesso articolo.

334 pensieri su “IL RITORNO DEL MONNEZZONE

  1. Ancora a dirsi: questo sì e quello no. Ho sempre avuto la sensazione che moltissimi grandi capolavori fossero fruiti e considerati come letteratura d’intrattenimento o persino come “monnezzoni” all’epoca in cui uscirono.
    Poi è la storia e la fortuna dell’opera a decidere se un’opera verrà letta dai posteri con rispetto sacrale o rimarrà del buon intrattenimento. Alcune opere nascono elevate e serie quando non seriose, ma non tutte. Alcune nascono pure e controcorrente, in aperto scontro con i desideri del pubblico pagante, ma molte no o non del tutto e questo non le rende di per sè migliori o peggiori. Shakespeare, per dire, riempiva i teatri, era felice di farlo e si interrogava spesso sulle possibili reazioni del pubblico ad un certo personaggio o ad una certa trama. Ho persino il sospetto che gli antichi romani andassero a vedere Plauto con lo spirito che oggi anima il pubblico dei cinepanettoni e che l’autore lo sapesse benissimo. Personalmente trovo alcuni cartoni giapponesi ricchi di fascino e meritevoli di un’interpretazione critica, il chè non toglie che siano anche intrattenimento, anzi che il ritorno economico di queste operazioni si basi proprio sull’intrattenimento o addirittura- orrore dei letterati intronati nella torre d’avorio!- sul merchandise. Alcune scene del Furioso, che mescolano avventure, cenni di erotismo, trovate comiche, nonchè il ritmo e le trame intrecciate per garantire suspance, fanno pensare ad una fruizione “da telefilm” di quello che oggi è visto come un corpus ponderoso e degno di studi; “telefilm” peraltro colto finchè si vuole ma fatto di cavalieri, sangue, risate, amori, colpi di scena e uno sproposito di ripescaggi e comparse. All’epoca non piacque al dedicatario: forse era troppo pop.

  2. Cara Lipperini, non mi risulta che essere germanisti sia un titolo, e per di più non è a te che lo ho detto, ma a un signore che ha sbandierato i miti norreni dicendomi che io non sto di cosa sto parlando e lui sì.
    Se proprio dovevi intervenire nello scambio tra G.L. e me, scambio da me non cercato, potevi farlo con un certo equilibrio.
    Sono due le ragioni per le quali vengo qui di rado e non commento quasi mai, una, la principale, è che non ha mai troppo senso discutere con chi è su posizioni antitetiche alle nostre, l’altra è il tuo modo di trattare i commentatori che non condividono le tue posizioni, anche quando non si rivolgono direttamente a te.
    Tolgo il disturbo.

  3. Scusate l’intromissione, ma quando sento sproloquiare su Tolkien metto subito mano alla tastiera.
    “Il Signore degli Anelli” è il libro più letto del XX secolo. Dal 1954 viene continuamente ristampato e nel corso di cinque decenni non è mai uscito dalle librerie di mezzo mondo. Sull’opera letteraria e accademica di Tolkien sono stati versati fiumi di inchiostro da parte di studiosi noti e meno noti, con testi divulgativi e ultraspecialistici, al punto che la letteratura secondaria ormai riempie decine di pagine di bibliografia. Dal 2004, in America, esiste perfino una seriosissima rivista di studi tolkieniani. Cos’altro serve per poter definire un’opera letteraria, dopo quasi sessant’anni di vita attiva sugli scaffali, un “grande classico”? Il Premio Nobel per la Letteratura?
    A uno James Joyce può anche non piacere, ma se andasse in giro a dire che non è un grande autore del Novecento probabilmente verrebbe preso a pernacchie dai due lati della strada, o no? Invece con Tolkien ce lo si concede senza pudore e se lo concede proprio chi della critica letteraria fa professione. Basterebbe questo a spiegare perché gente come Zolla e De Turris ha avuto mano libera per trent’anni, scrivendo su Tolkien bestialità inaudite in qualsiasi altro angolo dell’orbe terracqueo.
    Dunque se a uno non piace Tolkien liberissimo di dirlo e sbandierarlo, ma sarebbe meglio non azzardare il giudizio su ciò che si conosce poco e male. In questo sinceramente trovo più apprezzabile il Cortellessa della postfazione a “L’Anello che non tiene” di quello che invece scrive i commenti su questo blog. Perché in quella post-fazione Cortellessa ovviamente non parla mai di Tolkien, ma del problema delle sovrainterpretazioni, delle incrostazioni che ricoprono un testo (citando per altro i casi di Nietzsche e Wagner che con il caso Tolkien c’entrano molto poco, ma tant’è). Il suo è un breve sunto compilativo, concluso da una riflessione generale sull’invenzione artistica della tradizione operata dai nazisti e non solo da loro. [Per inciso: il libro di Del Corso e Pecere è una bella inchiesta e un pessimo saggio, un libro che trasuda snobismo, disprezzo per la fandom e la fan culture, che viene irrisa alla stregua di una degenerazione mentale. E’ un perfetto esempio di come certa intellighenzia di sinistra non abbia capito nulla della partecipazione collettiva alle narrazioni e sia incapace di leggere i fenomeni del nostro tempo per scovarvi ciò che c’è di buono e magari provare a selezionarlo. Perché non solo si è deciso che l’educazione puzzava di ideologia e andava abbandonata, ma si è anche scelto di parlare solo a se stessi o al massimo ai propri sodali, magari facendosi due risate alle spalle dei “boveri sdronzi” che si appassionano alla Terra di Mezzo. Fine dell’inciso].
    Nel suo commento poco sopra, Cortellessa espone limpidamente il pregiudizio a cui accennavo (che non persiste solo nel plumbeo provincialismo italico, sia chiaro). Lo fa quando sostiene che “relazionarsi con Musil è un po’ più complesso che farlo con Tolkien; provoca interazioni a più livelli; accende più sinapsi. Il che vuol dire, alla fine della fiera, che quello di Musil è un ‘bellissimo libro’ (e forse anche un ‘grandissimo classico’, anche se non mi pare conosciuto come merita) e quello di Tolkien, quanto meno, un libro un po’ meno bello (pur essendo *infinitamente* più conosciuto).”
    Ecco: si chiamano in causa criteri oggettivi, senza considerare che potrebbero poggiare su postulati fallaci. Il fatto che in realtà potrebbe essere vero il contrario, e cioè che da quattro generazioni Tolkien accenda più sinapsi e provochi più interazioni a più livelli di quanto non riesca a fare Musil, evidentemente non viene nemmeno preso in considerazione. Certo non è questione su cui interrogarsi troppo e certo non fa sorgere nel critico letterario il sospetto che potrebbe essere lui a non sapere leggere e interagire con i testi in questione, o che semplicemente abbia lasciato che i suoi gusti prevaricassero il proprio giudizio.
    Chiedo scusa ancora per essermi dilungato. Se può consolare, io altro che congiuntivite… sono monocolo.

  4. Io praticamente sto piangendo, ho letto tutto e si sono fatte le 4 e dieci, fuori piove che è una meraviglia e la discussione è confusa ma prende.
    Grande Loredana “zero tituli” Lipperini!

  5. @ Wu Ming 4
    Non so perché tu debba definire il testo che hai letto un “sunto compilativo”, se dobbiamo stare qui a insultarci smettiamo subito; se ne gioveranno gli occhi tuoi e miei. Bello o brutto che sia, è un testo su cui ho lavorato invece un bel po’, costretto a leggere un autore che detesto (non solo opere narrative ma anche saggi strampalatissimi, suoi e dei suoi cosiddetti interpreti; a proposito, se è un titolo di “letterarietà” il fatto che “dal 2004, in America, esiste perfino una seriosissima rivista di studi tolkieniani”, mi concederai spero che su Musil esiste, e da un po’ prima del 2004, ben altro che una rivista; questo curioso doppio legame che intrattieni con l’accademia e i suoi riti andrebbe sceverato con attenzione: da un lato l’accademia è per definizione parruccona perché si ostina a sostenere quello scassamaroni di Musil contro il magico Tolkien, così negligendo l’opinione di decine di milioni di lettori entusiasti; dall’altro appena quattro reduci dai campi hobbit, o analogo americano che sia, diventano ricercatori universitari e si affannano a dedicare al monnezzone corsi e riviste, allora il titolo accademico diventa improvvisamente una patente di nobiltà; davvero curiosa ambivalenza questa). E l’ho fatto perché il saggio di Del Corso e Pecere, che con una certa malizia mi era stato proposto in lettura da Christian Raimo, era ai miei occhi, allora sanissimi, tutt’altro che “un pessimo saggio”; era invece scritto molto bene da due fan di Tolkien che, come sarebbe auspicabile facessero anche gli altri, avevano letto anche molto altro (filologia e filosofia, soprattutto) e con questo “altro” avevano voluto mettere alla prova la loro passione giovanile. Senza affatto rinnegarla – ma anatomizzandola in pubblico, per così dire. Un atto di generosità e correttezza intellettuale ammirevoli, e che francamente fatico a trovare in chi, per dire, sostenga nei suoi di saggi, non so se definire “compilativi”, di aver letto *davvero* Benjamin – ma che da questo non ne sappia dedurre alcunché sui pericoli di un uso irriflesso, e dunque inconsapevolmente ideologico, del mito. Per dire. Quanto alla quantità di sinapsi, mi riferivo ovviamente alla quantità di sinapsi all’interno dei singoli cervelli; ma se per te invece contano di più le sinapsi di milioni di cervelli, o piuttosto le peristalsi di milioni di viscere, buon Moccia (e buon Berlusconi) per i prossimi duemila anni. Saluti.
    @ Valeria
    L’obiezione che poni è giusta. Il passaggio che ho svolto è quanto meno affrettato. Diciamo che sono convinto – io – che sì, il movimento delle sinapsi del lettore è un buon indice del valore del testo. Cioè la “qualità” del medesimo (che non si può “misurare” scientificamente, come aveva preteso molta teoria della letteratura post-jakobsoniana; ma avercene, oggi, di Roman Jakobson!) è denotata dalla sua capacità di farsi cogliere a tanti livelli diversi (per es.: meramente ritmico-acustico, cognitivo e/o emotivo, antropologico, ideologico ecc. ecc.). Dicasi “ricchezza”, di un testo: dalla quale dipende la “ricchezza” della relazione di lettura. Le due cose sono distinte ma non possono essere disgiunte l’una dall’altra. La “ricchezza” del testo in questione, certo, magari potrà essere colta solo dalle generazioni a venire; il che valse per Svevo e Campana, esempi che si fanno sempre (chissà perché, però, sempre e solo loro) in questi casi; mentre Salgari, per dire, un monnezzone era e un monnezzone resta oggi (a dispetto dei meta-demagoghi meta-epici). Quando parlo di “molteplici livelli di interazione” mi riferisco anche a questo fatto. L’energia mentale di un testo importante può rilasciare, e anzi il più delle volte rilascia, lentamente le sue “lenze da sinapsi”. Magari per il banale motivo che la sua oscurità di dettato lo abbia reso provvisoriamente opaco. E’ il caso di tanti poeti, intenzionalmente o meno, “oscuri” (Celan, Mandel’stam, Amelia Rosselli), e che a distanza ci appaiono i più grandi del secolo; non è invece il caso di Tolkien, che ha avuto subito la massima popolarità (perché quella, fra l’altro, cercava). Chi crede di poter fondare un canone critico-teorico sulle classifiche di vendita della scorsa settimana o è patologicamente impaziente o è un demagogo che non brilla per buona fede.

  6. Andrea, Tolkien cercava soprattutto un linguaggio, che è cosa che alla critica dovrebbe piacere assai. Lo ha detto e ridetto nelle sue lettere. E’ partito da una lingua per arrivare alla costruzione di un universo. Non cercava popolarità, cercava una forma.
    Alcor. Per me ha molto senso, invece, discutere con chi ha posizioni antitetiche: purchè non arrivi con il mignolo alzato (rileggi il primo commento) a offrire le proprie sentenze.
    Esempio: di Musil ho letto solo L’uomo senza qualità. Mio limite, mia lacuna. Ma è anche il motivo per cui, d’abitudine, non entro in una discussione su Musil fornendo pareri lapidari.
    Grazie.

  7. Loredana, infiniti scrittori e poeti hanno inventato lingue e le hanno anche “filologicamente” descritte (fra gli altri Eco, che è uno di loro, ha scritto interi studi sul fenomeno). Pochissimi, invece, credibilmente hanno “scritto” la propria opera nella lingua che hanno inventato (non, voglio dire, nel senso di un poeta che “si faccia” un suo linguaggio; di questo se ne possono pure trovare infioniti esempi). Joyce, che Wu Ming 4 pone sullo stesso piano di opinabilità di Tolkien, è uno. Quanto a Musil, io credo che aver letto L’uomo senza qualità possa bastare a decidere se sia meglio questo libro o Il signore degli anelli. Lo ripeto, bisogna scegliere. Scegliere è tutto. Altrimenti, ripeto pure questo, tutto va bene tutto è sullo stesso piano di tutto, tutte le vacche sono nere, e allegramente via nella catastrofe nella quale peraltro già siamo da tempo. Adesso però davvero mi taccio perché (credimi non lo dico per mozione degli affetti ma perché è brutto interrompere così questa bella discussione) devo andare al pronto soccorso per questo cazzo di occhio.

  8. Auguri per l’occhio, e per Natale, Andrea.
    Come noterai dal post odierno, tutto non è uguale a tutto. Ma concordo in pieno con Wu Ming 4 per quanto riguarda l’accostamento. E Tolkien, in assoluto. Tolkien, e non i suoi emuli, molto spesso di livello medio, se non basso.

  9. Auguri per l’occhio e per Natale, anche da parte mia e grazie del chiarimento.
    Concordo sull’esigenza della scelta, o della cernita che poi è la funzione della critica, ma io rivendico per me lettrice il diritto di scegliere e Musil e King. Ti assicuro che li ho ‘selezionati’ e che entrambi hanno attivato le mie sinapsi, forse poche ma di quelle sono stata dotata e quelle mi tengo.
    E comunque credo che il post di oggi di Loredana spazzi via molti equivoci.
    Auguri a tutti.

  10. Non era mia intenzione offendere nessuno quando ho usato l’espressione “sunto compilativo”: mi riferivo appunto al riassunto delle tipologie di approccio a Tolkien che venivano ricatalogate nella post-fazione al volume di Del Corso e Pecere. Un riassunto sommario e soprattuto incompleto (giacché derivato dai contenuti del saggio stesso).
    Ribadisco che su ciò che non si conosce è meglio non sbilanciarsi onde evitare figuracce. Questo vale non solo per i suddetti due studiosi, ma anche per chi oggi pensa e afferma che l’interesse su Tolkien sia limitato a un paio di fascisti evoliani e ai loro “analoghi” americani. E’ risaputo che l’anomalia Tolkien in Italia è appunto questione meramente nostrana. Altrove, e soprattutto in area anglosassone, il dibattito e gli studi su Tolkien sono indirizzati su tutt’altre visioni e questioni e toccano diversi campi d’interesse (dalla filologia alla letteratura epica, dalla linguistica alle culture partecipative). E’ evidente che le patenti di nobiltà non le assegna l’accademia e nemmeno il pubblico, ma se criteri oggettivi per la definizione di “grande classico” devono essere ricercati, allora Il Signore degli Anelli li soddisfa senz’altro. Non volerlo ammettere è una posizione pregiudiziale. Motivarla dicendo che Tolkien movimenta meno sinapsi di Pinco o di Pallo nel singolo cervello è un’affermazione dal vago retrogusto scientista, ma soprattutto INDIMOSTRABILE (se non adottando criteri individuali e soggettivi appunto).
    Per carità, ognuno è libero di esporsi come crede, io posso solo invitare alla prudenza al fine di evitare strafalcioni. Ad esempio additando chi da dieci anni ragiona e scrive sull’uso del mito (riflesso, irriflesso, consapevole, inconsapevole) come uno che non lo fa. O attribuendo posizioni qualunquiste sull’accademia “parruccona” a chi costantemente studia e lavora su libri scritti da accademici e ricercatori, e magari si confronta con loro sui blog di discussione e nelle presentazioni (alcune delle quali proprio in contesti universitari).
    Detto questo chissà se all’avvento del berlusconismo ha giovato di più certo snobismo e ignoranza ostentata di certi fenomeni popolari (Del Corso e Pecere ne ostentano un bel po’, se non altro rispetto al fandom tolkieniano di cui si dilungano a parlare) o la supposta inconsapevolezza di chi con la cultura e la letteratura popolare continua testardamente a confrontarsi.
    Quel che è certo è che sul medio periodo saremo tutti morti e potremo smettere di annoiarci a vicenda.

  11. Volevo solo segnalare che i fan di Stephen King sanno molto bene cos’è “Lunar Park”, e non solo per l’immediato accostamento che fu fatto dalla stampa all’uscita di LP, ma anche e soprattutto per la recensione di Stephen King.

  12. Quando Ellis lo presento nell’aula magna dell’università degli studi di Torino, scoppiò il finimondo.
    Lui ribadì, più volte, che la sua formazione letteraria, è stata fortemente influenzata dall’opera di King. Le sue affermazioni scatenarono l’ira del docente di storia della letteratura inglese (di cui non rammento il nome).
    Ellis alla fine, esasperto, lo zittì, dicendogli che sì, lui si era laureato, che sì, lui aveva letto i classici, ma che era andato oltre. Che la sua opera poco aveva a che fare con le letture scolastiche e molto doveva a Stephen King.
    In quell’attimo dal pubblico si è alzato un boato.

  13. ESATTAMENTE!!!
    Vi giuro che la discussione tra Claudio Gorlier e Ellis fu surreale.
    A un certo punto Gorlier elencò una serie di autori che secondo lui avevano influenzato gli scritti di Ellis. Ellis gli fece notare, rispettosamente, che non avevano nulla a che fare, ma Gorlier non se ne capacitava.
    Ellis continuava a citare King e Gorlier continuava a interrromperlo, il solo nome lo faceva diventare viola.
    L’applauso finale dei ragazzi, lungo, sentito, è stato un attimo di vera liberazione.

  14. posso rimescolare le carte due secondi?
    Gorlier ritiene che Lunar Park di Ellis abbia ricevuto l’influenza di grandi classici che lo stesso Ellis smentisce facendo invece riferimento a King. Gorlier si incazza.
    Ma allora forse Gorlier nell’interpretare Lunar Park ha legittimamente descritto il proprio rapporto di lettore con l’opera, quel che ci ha visto, indipendentemente da quanto lo stesso autore pensa dell’opera sua, e si ritorna così all’affermazione di Manzoli secondo cui “il valore di un libro è molto più nella testa di chi legge che nelle pagine del libro stesso”. Affermazione peraltro criticata da Cortellessa che ne denuncia la dannosa matrice decostruzionista.
    Dunque c’è un accademico che fa un’affermazione decostruzionista (o intesa come tale), un altro accademico che critica tale affermazione e un terzo accademico che, a meno di non prender per buona quella affermazione di dannosa matrice decostruzionista, ci fa la figura del peracottaro smentito nella propria interpretazione del testo dall’autore del testo stesso (mi viene in mente Woody Allen che in un film si porta McLuhan sottobraccio per smentire uno spocchioso che lo citava a capocchia).
    Di contro chi volesse dare addosso all’accademico spocchioso che interpreta a capocchia, dovrà (anche se magari non ne ha voglia) dare ragione all’accademico che critica la visione decostruzionista e dunque dissentire dall’accademico che l’ha pronunciata (e magari ne ha ancora meno voglia).
    Filosoficamente concluderei con due massime immortali: il mondo (anche quello accademico) è bello perché è vario e non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace.
    Voi mi piacete abbastanza. Ellis e King mi piacciono parecchio. Su Tolkien e Musil non mi pronuncio avendoli letti poco e male e dunque evito di beccarmi lo schiaffone di esperti e germanisti vari. 🙂
    Grazie a tutti, mi avete fatto passare un pomeriggio interessante.

  15. Grazie a tutti per gli auguri. La situazione dell’occhio è sotto controllo (nel senso che per il momento lo tengo chiuso; ma del resto nella scientificità dei protocolli medici nutro la stessa fiducia che in quella dei protocolli letterari).
    @ Wu Ming 4
    Certo che è INDIMOSTRABILE la mia preferenza per Musil, o per Joyce, rispetto a Tolkien. L’ho premesso e l’ho (appena) ribadito; nulla c’è di dimostrabile dalle nostre parti, se non a livello tecnicamente filologico (e alle volte anche lì il principio di indeterminazione, infine, prevale). E’ per questo che ci sono i critici. Per argomentare, corroborare, o come si diceva una volta “dimostrare” (termine dal quale gradirei fosse esclusa, appunto, l’accezione scientifico-teorematica) una tesi, che non è una legge scientifica. Bensì un asserto, un discorso, un dispositivo concettuale. Il conflitto delle interpretazioni è, in primo luogo, un conflitto di forze e strategie retoriche. Che però ha pure un coté “democratico” (in un ambito strutturalmente antidemocratico come quello dell’estetica): chi convince più persone a loro volta in grado di convincere altre persone, “vince”. Fino alla prossima “partita”, beninteso. (In “Una questione privata” Milton a un certo punto, ricorderai, si appresta a giocare “una partita di verità”.) Ma se le persone-in-grado ecc. si fanno convincere è perché la tesi ha una sua verosimiglianza. Per esempio la mia tesi è che quello di Musil sia un romanzo più complesso, importante e “bello” di quello di Tolkien. E credo francamente che la tesi appena esposta abbia una sua certa verosimiglianza.
    @ Alessandra C
    L’episodio di Ellis-Gorlier-King è gustosissimo. Ma io ovviamente lo leggo in modo diverso da te (o, mi pare, da Loredana). Partiamo dall’attendibilità di Claudio Gorlier, che non è solo “un accademico” (che, come le vacche, non sono tutti neri) ma in assoluto uno dei maggiori specialisti, a livello mondiale, di narrativa postmodernista. Uno che ha letto non solo Ellis, non solo King, ma anche un’altissima percentuale di tutti quelli che questi hanno a loro volta letto. Gli studenti pronti ad acclamare le battute demagogiche e snobistiche (anche tu, Wu Ming 4, annoto che usi “snob” come fa la tivù) di Ellis avrebbero fatto meglio a prendere appunti, sui nomi che snocciolava (con indubbio compiacimento da accademico maestro della materia, immagino, del resto conoscendolo un po’) Gorlier. Così come, ovviamente, dell’unico nome sbandierato da Ellis, cioè quello di King. Ma loro, che gli autori elencati da Gorlier non li conoscevano e non avevano nessuna intenzione di conoscerli, erano lì per vedere la “loro” cultura celebrata dalla demagogia di Ellis, e quella del parruccone (si fa per dire, data la pelata di G.) che li vessa agli esami, di contro, irrisa e sfanculata. E’ questa l’essenza della demagogia: il vostro complesso di inferiorità non ha più ragione di esistere! Siete stati vittime di un complotto! King è meglio di quel sacerdote runico di Joyce! Tolkien si mangia a colazione quell’ingegnere meteopatico di Musil! E La Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca! Segue, fragorosa, l’ovazione. (Io di fronte alle ovazioni, non so perché, manterrei sempre una qualche cautela.) Non so perché Ellis abbia nutrito questo atteggiamento snob e demagogico, non so quasi nulla di lui come personaggio. Posso supporre che per lui, come per tanti altri autori grandi e piccoli del passato e del presente, faccia “fino” citare come propri antecedenti materiali “bassi”, mentre ammettere influssi di tipo teorico o concettuale da parte di autori impegnativi e magari impopolari, specie di fronte a platee di fans, parrebbe loro atteggiamento distanziante e, appunto, accademico. Montale si divertiva molto a dire, agli increduli astanti, che il suo maestro era stato Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, ma si è sempre guardato bene dall’entrare nel dettaglio dei propri debiti nei confronti di Clemente Rebora. Il primo, a differenza del secondo, non rischiava certo di fargli ombra. Ovvio che Montale abbia davvero usato Ceccardo, così come non faccio fatica a credere che Ellis abbia usato King. Insieme a tanto altro che non ha voglia di ricordare, di fronte ai fans. Pynchon ha usato di tutto, alto basso e bassissimo. Benjamin parlava degli “stracci e rifiuti” della storia”, giusto Girolamo?, e anche con quelli sono fatti i tessuti pregiatissimi della letteratura (così come della sua stessa filosofia). Ma appunto una cosa è lo straccio, o il monnezzone. e una cosa il tessuto che ne deriva.
    Ultimo appunto. Immagino che a Wu Ming 4 non faccia né caldo né freddo (se per lui Del Corso e Pecere peccano di “snobismo”, eddài!, nei confronti del “fandom”), ma ribadisco che questa sviscerata simpatia per l’atteggiamento da “fan” – nei confronti di uno scrittore, di un libro, di un materiale mitico, ma anche di un ideale politico per esempio, o di un modello di società – contrapposto all’atteggiamento invariabilmente palloso dell’interprete, del critico, della persona “educata alla letteratura” (o alla storia, o alla politica), a me pare pochissimo incoraggiante. Viviamo in tempo di acclamazioni, certo. Di nuovo buona fortuna.

  16. Ho messo in moderazione il commento di “fabriziodambrosio” perchè conteneva affermazioni pesanti nei confronti di Elena Stancanelli. Ribadisco che qui si discute di idee e testi, non delle persone.
    Andrea, solo una cosa.
    Io ho la sensazione che tu non abbia fiducia nei lettori. Tanto meno in quelli che chiami, con una vena di quel che a me sembra sarcasmo- fan. Che sono persone più serie di quel che ritieni, credimi.
    Di nuovo auguri.

  17. Questa discussione potrebbe andare avanti all’infinito, immagino, ormai però i punti di vista di ognuno di noi sono chiari e definiti. Una cosa però ci tengo a precisare.
    Il fatto che viviamo in tempi di acclamazioni è indubitabile, ma l’educazione allo spirito critico, di cui io sono una oscura quanto ostinata paladina, non può essere fatta negando l’evidenza.
    E che Ellis nel suo Lunar park abbia voluto rendere un esplicito tributo a King è una evidenza. Che poi il suo ‘testo’ sia stato intrecciato con molteplici fili può essere meno evidente ai più, ma non si fa una battaglia di verità ribaltando figura e sfondo, e negando che la figura, evidente in primo piano, ci sia. E in Lunar park King è in splendida e smagliante figura, tanto per prendere in prestito il linguaggio dalla psicologia della forma.
    L’applauso, l’acclamazione dei ‘fans’ può non essere intesa come una ovazione al demagogico (!) Ellis, ma come un liberatorio riconoscimento condiviso di qualcosa che c’è e che era stato ostinatamente negato contro ogni verosimiglianza ed evidenza.
    Non è che una verità evidente è meno vera di quella non evidente. Non giochiamo con la complessità, per favore.
    In ‘The dome’ io ho visto in filigrana Hawthorne, per mia inclinazione personale senza dubbio, ma anche perché mi pare che King dissemini il suo testo di indizi che confermano questa mia lettura.
    E’ una traccia possibile, la difenderei pure davanti a King, ma non mi verrebbe in mente di negare altri possibili indizi, alti e bassi che siano, perché la mia ignoranza è grande, come quella di Gorlier nei confronti di King probabilmente. Solo che un semplice e sprovedduto lettore può ammettere la sua ignoranza, un accademico laureato no.
    E allora vorrei davvero capire dove sta l’educazione al libero pensiero. Se sopraffazione c’è stata nel caso della conferenza di Ellis, mi pare proprio che non sia venuta dalla platea.

  18. Va benissimo per me chiuderla qui. Solo due precisazioni.
    @ Loredana
    Non sono io ad aver usato la categoria di “fan”, e oltretutto in positivo (cosa per me intellettualmente aberrante, lo ammetto): “un libro che trasuda snobismo, disprezzo per la fandom e la fan culture, che viene irrisa alla stregua di una degenerazione mentale”: lo dice Wu Ming 4 contro Del Corso e Pecere.
    @ Valeria
    Non voglio negare che Gorlier si sia affannato su una posizione indifendibile, per partito preso e per irritazione nei confronti dell’atteggiamento di Ellis. Ma se in un universo parallelo James Joyce avesse sostenuto in pubblico che l’unica fonte di “Ulysses” era l’Odissea, e che cercarne altre signifcava negare l’evidenza contenuta sin nel titolo, Joyce avrebbe avuto un atteggiamento demagogico e snob.

  19. Pace. E’ Natale! Pacificata però mica tanto: chi ha irritato chi nel caso di Ellis/Gorlier credo sia indecidibile da parte di chi non era presente alla discussione.
    Io una ideuzza ce l’avrei ma, per spirito natalizio, me la tengo per me.
    Davvero auguri a tutti.

  20. Mi fa piacere che il buon Big Andrea is back, pugnace e generoso come suo uso, ero preoccupato per il suo occhio (e non sto scherzando).
    E so cosa vuol dire, in fondo. C’è un libro, per fare un esempio, scritto nel dopoguerra che parla di un uomo solo in un mondo postatomico. Un libro pazzesco. Fantascienza come neppure ancora un americano sapeva fare. Ed infatti è un tedesco, Arno Schmidt. “Specchi neri”. Il traduttore, che ha fatto un’opera titanica, mi diceva in privato, che non avrà venduto neppure 800 copie. Queste cose rimestano il sangue.
    Detto ciò, non sarà certo il genere o il numero di copie vendute che farà davvero da discrimine. Kafka è uno degli autori più venduti di tutti i tempi. Quindi è un autore commerciale?
    L’USQ di Musil l’ho letto la prima volta a 18 anni. E non ho ancora letto ISDA di Tolkien, ma mi fido di WM4. So però che prima o poi capiterà di incrociarlo. Tempo al tempo.
    Riassumendo:
    I critici sono tutti parrucconi: NO BUONO
    i libri di genere sono tutti monnezzoni: NO BUONO
    I critici hanno sempre ragione: NO BUONO
    i libri di genere sono sempre capolavori: NO BUONO
    Il 90 % di tutto è merda: BUONO
    Il 90 % dei critici e dei libri, in generale, sono merda: BUONO
    ERGO: Coltiviamo il 10% sano di tutto. Con santa pazienza, curiosità e, il più possibile, scevri da pregiudizi (inevitabili, ovviamente, dato che anche noi abbiamo la nostra quota parte di merda da smaltire).
    Dio come sono stucchevole ed ecumenico!
    Quindi, per finire (rullo di tamburi): CULTURAME!!!!!! (FACCETTONA!)
    (Dai, Andrea, non fare così, stavo scherzando… Andrea, no, Andrea, no, ti prego…)
    buone feste, voi che potete, io lavorerò.

  21. Sei ecumenico da far schifo, sì. Inoltre è natale, il che rappresenta un’aggravante. La mia sfiducia, non nei lettori (come pensa Loredana) ma nei confronti del genere umano tutto, che si affolla nelle strade per fare gli ultimi acccquisti, in questi giorni raggiunge i suoi vertici. Sospetto di tutti. Anche dei 799 altri lettori di Arno Schmidt. (Per non parlare dell’ottocentesimo, che conosco anche troppo bene.) Una cosa tremenda. Faccette a tutti.

  22. Scusate tutti, ma non riesco proprio a non dire due cose prima che tutti vadano a scartare i regali sotto l’albero.
    Signor Cortellessa, sono due giorni che leggo la discussione.
    All’inizio ho cercato di prendere la storia del monnezzone con una battuta,: e che vuoi che sia, eccone un’altra (di ingiuria) nei confronti di noi poveracci che scriviamo di fantastico, e che ci trastulliamo con i draghi (io con un demone, il GL che le ha risposto più volte – senza che lei rispondesse sul punto a lui – con creature ancora più spaventose).
    Poi però mi sono resa conto che una battuta in effetti è un po’ poco.
    Io voglio chiederle una cosa. Anzi, più di una. E prima voglio dirne altre.
    A me non sembra che lei stia parlando di fan in positivo. A me sembra che per lei i fan siano una massa di goliardi un po’ idioti, privi degli strumenti della critica, incapaci di distinguere fra bene e male.
    Un po’ come i lettori che inciampano nelle pile dei monnezzoni, e che anche se magari stavano andando a comprarsi Mishima o DeLillo (piace pure a me, sa? Sorpresa) si distraggono e comprano Eragon.
    A me, scusi, questa distinzione del mondo dove da una parte ci sono quelli dotti che decidono cosa è bene leggere e dall’altra i cretini che, a meno di non incappare in un dotto, si comprano Fabio Volo, proprio non piace.
    Perchè non è vera.
    E perchè mentre io, che sono una fan e che scrivo monnezzoni, conosco i testi che lei cita (anche Joyce, pensi), lei non conosce noi.
    Lei non sa NIENTE di noi e non le interessa saperlo. A meno che non ci abbia letto tutti, me, GL e gli altri italiani e non italiani che scrivono fantastico, e abbia deciso che le facciamo davvero schifo come le fa schifo Tolkien.
    In questo caso, la ringrazio per la delicatezza che ci ha usato nel tacercelo, e sto zitta.
    Ma se così non è, le chiedo (finalmente, sono logorroica): come fa a sostenere quello che sostiene? Lo sa che non tutti gli autori di fantastico scrivono di draghi e di maghetti?
    Lo sa che non tutti i fan sono decerebrati che gridano olè contro l’americanista, ma che fra loro -e anche fra quelli che hanno gridato olè, probabilmente – ci sono persone che insegnano, che studiano, che leggono?
    E leggono pure tanto.
    Perchè, e finisco, mi può persino andare bene che lei che decida che i libri di fantastico non vanno presi in considerazione.
    Pace, me ne faccio una ragione.
    Ma non può trattare i lettori come una massa belante che senza l’indottrinamento dall’alto si farà condurre al macello dal mercato.
    Semplicemente, perchè non è vero.
    Mi scusi se mi sono permessa e Buone Feste.

  23. Se l’eventuale critico letterario in ascolto volesse farsi un’idea di come si può essere fan creativamente, e di come la fandom possa essere arma critica nonché strumento d’interazione col mondo e fonte di arricchimento culturale, potrebbe dare un’occhiata a H. Jenkins, “Cultura Convergente”, Apogeo 2007 [anche evitando di leggere la prefazione di Wu Ming, of course]. Così, tanto per sapere quello che succede nel mondo…

  24. …Se invece volesse farsi un’idea della portata letteraria dell’opera di Tolkien (e delle sinapsi che può muovere) consiglio T. Shippey, “Tolkien autore del secolo”, Simonelli, 2004.

  25. @ Lara Manni
    Nessuno può leggere tutto. Comincio col segnarmi i testi che consiglia Wu Ming 4, il quale legge senz’altro molto. A lei rispondo che no, non ho letto i suoi testi né quelli di “G.L.” (anche perché non credo pubblichi sotto questo acronimo). Ma appunto vorrei risponderle: sfido chiunque a dirmi dove avrei scritto che “tutto ciò che è fantastico è monnezzone vitando”. Sono partito dall’affermazione contraria: che cioè l’autore da me in assoluto>/em> prediletto, nel Novecento italiano che è il repertorio di mia professionale competenza, è Tommaso Landolfi (1908-1979). Il che vorrà forse dire che non ho alcuna pregiudiziale contro il “fantastico”, per es. in favore di un ipotetico “realismo”. Ho contestato altrove con ogni possibile vis polemica, anzi, i corifei dell’odierno “ritorno al realismo” (alcuni dei quali, per inciso, si valgono proprio di una, a mio parere cervellotica e insieme ingenua, interpretazione del repertorio “di genere”).
    Ho pure attaccato qui un lungo saggio contro Tolkien, scritto nel 2002. Nel quale non è vero, come hanno sostenuto due persone che hanno sostenuto di averlo letto, che non si capisce il motivo per cui io detesti questo autore; mi pare di aver mostrato (chi legittimamente non abbia pazienza di leggere quel “sunto divulgativo” mi creda per favore sulla parola: almeno di aver tentato di mostrare) che l’uso irriflesso e contraddittorio del materiale mitologico a sua disposizione, da parte dell’autore, ha avuto come non casuale conseguenza una straripante fortuna presso i “fans” e, mi si conceda assai meno, presso la maggior parte dei lettori “educati” (quand’anche non professionalmente tali). Molti dei quali “fans”, almeno in Italia (perché, su questo ha ragione Wu Ming 4, negli Stati Uniti per es. la storia è profondamente diversa: come profondamente diversa è l’articolazione ideologica di quella cultura, rispetto alla nostra), altrettanto non a caso, hanno avuto o hanno tuttora simpatie politiche di estrema destra.
    Quanto ai “fans”, mi perdoni ma lei ha equivocato le mie parole. A differenza di Wu Ming 4 non ho affatto “parlato di fan in positivo”. Non riassumerei quel che penso dei “fans” come fa lei (“A me sembra che per lei i fan siano una massa di goliardi un po’ idioti, privi degli strumenti della critica, incapaci di distinguere fra bene e male”), ma qualcosa di vero c’è. Io per es. sono “fan” di Patti Pravo, e quando penso a lei o parlo di lei con degli amici in effetti lo faccio da “goliarda un po’ idiota, privo degli strumenti della critica”: perché non sono un critico musicale e in particolare, detestando in generale il pop italiano (che è il “campo” culturale al cui interno Patti è nata e cresciuta e al quale incontestabilmente appartiene), sono del tutto privo di strumenti storici e culturali che mi consentano di spiegare a me stesso i motivi del fascino che su di me esercita.
    Io penso che sia pernicioso avere un atteggiamento da “fan” – cioè appunto criticamente impreparato, irriflesso, viscerale e compiaciutamente irrazionale: in una parola, “fanatic” – nei confronti della letteratura, e in particolare della letteratura (come Tolkien per es.) che utilizza materiali mitici, plessi profondi dell’immaginario archetipico ecc. Per i motivi che ho scritto nel mio pezzo del 2002: e cioè per il potenziale fortemente diseducativo sul piano politico. Peraltro, come risposto a domanda specifica di Loredana, penso che tale potenziale diseducativo sia più insidioso, perché più dissimulato e apparentemente neutro, nella narrativa “realistica borghese” (per usare un macro-contenitore non meno generico di “fantastico”), nelle sue gradazioni di target: da Mazzantini a Moccia.
    Più in generale, la mia sensibilità sulla “letteratura di intrattenimento” è perfettamente riassunta dalla citazione da un mio scritto di qualche tempo fa, che Loredana ha indicato al pubblico ludibrio all’inizio di questo thread. Penso che la letteratura non di intrattenimento oggi, non solo in Italia ma in Italia con l’oltranza arrogante che hanno qui tutti i fenomeni che rientrano nelle categorie del politico, sia davvero minacciata dallo spazio (fisico e metaforico) che quella di intrattenimento si è conquistata nelle librerie e nella comunicazione libraria. Ed è per questo, fondamentalmente, che io e non solo io (caro Francesco Dimitri) abbiamo oggi questa impazienza nei suoi confronti. Se non vedete come la letteratura di intrattenimento abbia saturato ormai quasi tutti gli spazi, non so che farci. Vuol dire che purtroppo guardiamo cose diverse. Io di forme letterarie non di intrattenimento ne conosco moltissime; e per un DeLillo – che, mi compiaccio, qui tutti hanno letto – c’è un 95% di prodotti assolutamente non disprezzabili che invece nessuno legge. Io non ho letto Eragon, lo ammetto. Ma penso che anche molti di voi non leggano i libri che a me piacciono. Di conseguenza le grandi case editrici fanno sempre più resistenza a pubblicarli. Di conseguenza le piccole case editrici che li pubblicano hanno sempre meno la forza di arrivare in libreria. Di conseguenza si assiste alla situazione descritta, in modo colorito ma nella sostanza veritiero, da Elena Stancanelli nell’articolo qui citato e discusso.

  26. Caro “Cortellessa”, anzi no, perchè ne ho le brocche piene (Tendo a dare del Lei a chi lo merita. Di solito persone persone colte e avendo lavorato con alcuni tuoi testi pensavo lo fossi). Ergo, caro Andrea.
    Immagino tu sappia benissimo che esiste una Gilda Degli Scrittori Monnezzoni Che Impedisce La Diffusione Dei Libri Che A Te Piacciono Mentre Noi Ci Pisciamo Sopra (anzi, no, scusa, li bruciamo essendo noi tutti discepoli di Goebbles – mitologicamente parlando). Immagino anche che i libri che tu ami siano così belli ma così belli che è meglio non citarli, vuoi mica che la Gilda prenda d’assalto le ultime roccaforti del Vero Sapere? O, peggio: vuoi mica metterti a discutere di DeLillo o Bernhard con dei Propugnatori del Monnezzone? Sia mai.
    Dopotutto siamo noi i Dioscuri dell’Editoria.
    Ora: a parte una serie di sproloqui molto ben argomentati con fuffa al sapor di calzino sporco, io non ho letto UNA tua sola motivazione per cui il fantastico (salvo Landolfi! Salvo Borges – per favore, vai a vedere il Libro di Sabbia e leggi nelle dediche, grazie) sia monnezza.
    Simpaticamente parlando questo significa essere ignoranti. Simpaticamente, le ventimila battute di cui sopra, ti portano a ricevere il premio di Arrampicata Sugli Specchi 2009. Complimenti.
    Con affetto,
    D’Andrea G.L. (vuoi anche il codice fiscale? il titolo di studio?)
    PS
    Alle volte, basta un clic. Non fa male ed è veloce.

  27. Dal che, signor Cortellessa, capisco che lei non sappia cosa siano oggi i fan e cosa producono. E che non è per niente vero che un fan non sia preparato e che le sue azioni siano viscerali. La prego, legga qualcosa su di noi. Noi fan. I nostri interventi critici, anche. Ne troverà di irrazionali e di ingenui, ma anche di accurati, motivati e ricchi di riferimenti storici e culturali. E, ah, persino di strumenti di analisi propriamente detti.
    Non credo che lei lo farà. Non si è preso neanche la briga di sapere chi fosse GL (pubblica, per Mondadori, sotto questo acronimo:ma bastava cliccare sulla sua firma per scoprirlo).
    Sulla letteratura di intrattenimento: pensi, io sono convinta che Orlando Furioso SIA letteratura di intrattenimento. E se non sbaglio lo pensava anche un altro signore che forse le piace, Italo Calvino. Che, insieme a Landolfi che lei giustamente cita, è uno dei nostri padri. Padri, intendo, di noi che scriviamo fantastico, qui in Italia: noi sì esposti al ludibrio di chi pensa che tutto il fantastico sia Eragon (che a me fa schifo quanto a lei: ed ecco l’equivoco, il pensare che tutto il fantastico sia monnezzone, che tutto il fantastico sia usa e getta).
    Dopodiche, se lei è certo che noi non leggiamo i libri che a lei piacciono, cosa posso farci? So di poterla smentire, almeno per quanto mi riguarda, ma presumo anche che a lei non interessi essere smentito da me.

  28. Chi parla di ‘letteratura d’intrattenimento’, in contrasto a quella che non lo è, definisce se stesso in modo molto chiaro.
    Un modo che, per come la vedo io, non merita il minimo rispetto intellettuale.
    Fai crollare un sistema di legittimazione (che è economico e sociale), e una posizione del genere crolla con lui. Fai crollare lo stesso sistema, e chi sa fare storie le farà diversamente, ma continuerà a farle. A ‘intrattenere’ tra i due abissi eterni che punteggiano la vita. Un bravo narratore esiste come artigiano, il cui merito si dimostra solo sul campo. Un critico colto esiste solo finchè qualcuno lo definisce come tale. C’è una differenza di fondo che colmare non è nè possibile nè auspicabile.
    Sull’ignoranza suprema dimostrata nei confronti del fandom, poi, credo sia anche inutile infierire.

  29. Vabbè, scusate, una notazioncina secondaria, a latere, ma (credo) non gratuita: Lara Manni e G.L., non è che si può biasimare qualcuno (Andrea Cortellessa, nello specifico) perché non sa chi sia un suo interlocutore che si firma con le iniziali puntate, o perché non clicca sul link del suo blog. Ognuno in Rete si firma come gli pare, e va bene. Con nome e cognome, con acronimi, con nomi di fantasia o col diavolo che gli pare. Ma se io mi firmo P.S, o T.T, o F.B., o G.S., non è che sono tenuto a fare ricostruzioni anagrafiche o indagini per sapere chi si celi dietro la sigla, né a cliccare in giro su blog e siti e motori di ricerca. Ergo, chi vuole farsi identificare per quello che è, firmi per esteso. Sennò buonanotte.
    Buon Natale, eh.

  30. Solo per precisare, eh.
    Era dal momento che Cortellessa aveva scritto “non credo che GL pubblichi sotto questo acronimo”. Nessuno è obbligato a fare niente, si figuri, Piero Sorrentino. Ma prima di fare un’affermazione su un interlocutore io magari mi informo.
    E comunque la questione era un’altra, ma Buon Natale, sì.

  31. Sorrentino: vero, verissimo. E adesso la cambio ‘sta benedetta firma (nome e cognome mi sembra una cosa formale, un po’ in contrasto con il luogo in cui ci troviamo, ma per evitare fraintendimenti mi sta anche bene).
    Il punto è che un accademico che si sente “educatore” non può attaccarsi ad un acronimo per non chiedersi quali siano i risultati del prendere un genere e buttarlo nel cesso. In toto. Con un sorrisetto (quel sorrisetto che tanto bene fa alla propaganda della destrucola italiana).
    Immagino che Andrea questa domanda se la sia fatta e che la risposta non gli sia piaciuta ma non abbia la voglia di spiegarla pubblicamente (oppure, se vuole, la risposta gliela offro io, basti guardare un qualsiasi manifesto di Casa Pound che raffigura Che Guevara). Per essere più chiari: immagino che un De Turris, il tanto vituperato De Turris, invece, non solo certe domande se le sia poste, ma sarebbe ben lieto di discuterne con i monnezzoni.
    Scommettiamo?

  32. Chiedo ancora venia se torno sulla questione Tolkien, ma si fa davvero fatica a tacere davanti a certe prese di posizione così autoevidenti.
    I motivi per cui Cortellessa sostiene di detestare Tolkien non stanno in piedi. Per questo ritengo che dietro al suo saggio del 2002 ci sia piuttosto il suo legittimo (dis)gusto personale e l’informazione parziale desunta dal libro di cui il suo testo è la postfazione. Non si tratta di mettere in discussione la sua buona fede e il suo sincero intento, ma di dire che le cose non stanno come sostiene lui, ovvero che sostiene le cose sbagliate. Ripeto: assimilare Tolkien al caso Nietzsche e al caso Wagner è un errore.
    Tolkien non ha fatto nessun uso “inconsapevole” o tanto meno “neutro” del materiale mitologico che gli interessava. Al contrario, quando si è accorto di che piega stava prendendo un certo revivalismo germanico, ha preso una posizione molto netta. Questo è assai ben riscontrabile da chiunque legga le sue opere con un minimo di voglia, le quali utilizzano sì il materiale mitico nordico, ma alla luce dalla fede cristiana e mettendo al centro una teoria del coraggio del tutto contrapposta a quella prediletta dai fascisti neo-pagani o misticheggianti (non c’è trippa per Casa Pound, tanto per intenderci, a meno di non lasciargli mano libera per omettere qua e là…).
    Il problema è nell’occhio di chi guarda, in questo caso il critico letterario italiano di sinistra che siccome trent’anni fa Tolkien venne traghettato in Italia da certa gentaglia e da essa fu presentato e confezionato – crede che l’opera di Tolkien si presti a un certo tipo di lettura PER LIMITI INTRINSECI. E’ il caso di dirlo forte e chiaro: la lettura tradizionalista dell’opera di Tolkien è possibile SOLO SE SI OMETTONO INTERE STORIE, SCENE, PERSONAGGI, DIALOGHI, TEMI presenti e ben visibili in essa. Scene, personaggi, dialoghi e temi che sono a disposizione di ogni lettore sensibile (fan o non fan che sia). Sono capaci tutti di far dire quello che si vuole a un testo prendendone in considerazione soltanto delle parti e dandone un’interpretazione infondata e distorta. Laddove Tolkien viene studiato seriamente, infatti, le posizioni tradizionaliste non solo non hanno voce in capitolo, ma non esistono proprio. E non è solo questione di diverso contesto culturale tra l’Italia e il mondo anglosassone. Da noi l’opera di Tolkien venne a suo tempo considerata materia di estrema destra perché gente di estrema destra la sdoganò per prima. I critici di sinistra si sono lasciati condizionare dal packaging che i fascisti evoliani avevano confezionato. Hanno cioè dato per scontato il frame stabilito dagli avversari e in questo modo hanno abbandonato Tolkien ai suddetti figuri. Tanto è vero che negli utlimi anni hanno dovuto essere gli studiosi cattolici di Tolkien a fare argine contro i “tradizionalisti”, con tutti i limiti che questo ha potuto comportare.
    In questa scelta nefasta della critica di sinistra ha contato senz’altro – inutile nascondersi dietro a un dito – l’atavico disprezzo per la letteratura fantastica, a vantaggio del “realismo borghese”. Scelta che Cortellessa con le sue parole ancora oggi conferma chiaramente.
    Resta il fatto che è un errore madornale scambiare per una pecca insista nel lavoro di Tolkien l’autoevidente mistificazione operata da un manipolo di fascisti. Impostare su questo errore il proprio ragionamento su Tolkien significa alla lunga rendersene complici.
    L’opera di Tolkien non è affatto neutra, né meno biopolitica di un introspettivo romanzo borghese. Niente più dell’epica contiene chiavi di lettura etiche e politiche. Per limitarsi soltanto al Signore degli Anelli, basti dire che è un romanzo sul potere, sul coraggio, sulle scelte, sulla speranza, e soprattutto su una questioncina di poco conto come la morte. E nessuno di questi temi viene affrontato in maniera semplicistica, men che meno in un modo che possa tornare utile ai fascisti. Certo a meno di non lasciare a lorsignori la possibilità di farne carne di porco. Ecco c’è qualcuno che ha deciso di dire basta, ma i basta devono viaggiare in primis verso sinistra, dove è il caso che i critici la smettano una volta per tutte di scrivere su Tolkien di riflesso.
    Spero di essere stato chiaro. Sicuramente sono stato troppo lungo. Ma, come ho detto, la faccenda mi sta a cuore.

  33. Non che ne abbia bisogno, ma vorrei spezzare una lancia in favore di Cortellessa. Lara, Francesco e G.L. sono ottime persone e scrittori che apprezzo molto (e con i quali sono onorato di perseguire un segretissimo progetto che, se e quando vedrà la luce, sarà bellamente ignorato dalla critica), però non condivido il tono dei loro ultimi interventi. Non mi pare che Cortellessa abbia insultato nessuno, ha semplicemente un’idea della letteratura che difende con passione. A quanto sembra, risulta supponente per qualcuno e irritante per qualcun altro, ma è uno che accetta di discutere qui le sue idee, passando anche sopra a talune battute sprezzanti che non molti tollererebbero. Lui tollera e mi pare pure che argomenti le sue posizioni. Che poi non piacciano le sue argomentazioni è cosa legittima, però i sorrisini di superiorità che gli si attribuiscono, a mio avviso ingiustamente, assomigliano all’atteggiamento di superiorità di chi appartiene a una casta che potrebbe essere attribuito ai giudizi trancianti espressi da Francesco o da GL per esempio (e siccome conosco entrambi, almeno via mail, come persone aperte di mente e di cuore, so bene che si tratta solo di un’impressione non corretta). Esistono produttori di monnezza fra i romanzieri e fra i critici, ma non mi pare che i partecipanti a questa discussione ne facciano parte, e dunque perché surriscaldarsi? WM4 per esempio non si surriscalda, ma argomenta pure lui e fornisce agli ignorantoni del tema come me un punto da cui partire.
    Sono più ecumenico di Biondillo, sono. Sarà il natale.

  34. Guglielmo, passione per passione, però.
    A Wu Ming 4 sta giustamente a cuore l’interpretazione di Tolkien. A me sta moltissimo a cuore il giudizio sui fan.
    Avviene che i toni si scaldino. Dopodiche, io sarei ben lieta di fare una lunga discussione con Cortellessa su Landolfi e su Calvino e su come influenzano il fantastico di oggi.
    Ma mi sa che mi tocca passare la mano. Ok, è Natale.

  35. @Lara Manni: la mia personalissima impressione è che rispetto alla discussione intavolata in questa sede le questioni che ci stanno rispettivamente a cuore siano strettamente interconnesse.

  36. @Wu Ming4: sì, lo sono e in più di un punto. Per esempio sul fatto che una realtà, o un testo, possano essere interpretati in modo semplicistico. E infatti lo sono nella maggior parte dei casi. 🙂

  37. Lara, sai bene quanto interessino anche a me le narrazioni “dal basso” che scuotono un pochetto la sacralità dell’autore. Ne facevo solo una questione di approccio e metodo di discussione (anche perché so che tu GL e Francesco potete contribuire alla discussione in maniera assai proficua).

  38. Guglielmo: la passione porta a discussioni, anche accese. Io sono un alfiere delle discussioni, magari anche quelle aspre. Ma per discutere ci vogliono due cose: la volontà ed un terreno comune. Cosa di cui Andrea è sprovvisto. Non ha difeso alcuna idea di letteratura, ha attaccato un’idea di letteratura che non è sua. E senza conoscerla. Come un bloggher autoreferenziale qualsiasi. (grazie per le belle parole, me le segno per i momenti di depressione).
    WM4 e Lara: trovo che più che interpretazione “semplicistica” (che pure c’è ed è diffusa – ma che per certi versi mi sta quasi simpatica), qui si stia parlando di interpretazione VOLUTAMENTE errata da parte della critica. Critica di destra e critica di sinistra (e, oggi 2009, la critica di destra appare anche un zinzino più furba, se non altro). Ma non di Tolkien, di tutto un genere. In blocco. Testi, lettori e scrittori.
    Questo significa ignorare un genere che si sposa perfettamente con le istanze e le ricerche che il Reale del XXI secolo può mettere di fronte ad un autore – visto che il “fantastico” altro non è che il proseguimento della metafisica con altri mezzi. Ma, naturalmente, quest’ultima affermazione è partigiana.

  39. Guglielmo, ti ringrazio moltissimo e ti rispondo francamente (e lo farò più in profondità nel mio blog apena ne avrò il tempo).
    Certo che potrei essere più proficuo. Potrei parlare di un certo approccio, che va da Fiske a Jenkins, a Fish (e almeno quest’ultimo, non c’è dubbio, Cortellessa lo conosce molto bene), tanto per tirarne in ballo solo tre, che rende la poisizione di Cortellessa instabile (il concetto di interpretative community fa crollare gli assunti su cui si basa). Ed è solo una delle possibilità. Potrei parlare della produttività feroce di un gioco di ruolo. O di alcune cose meravigliose che stanno succedendo nel campo dei videogiochi.
    Ma il punto è un altro, ed è il motivo per cui, a questo giro, preferisco presentarmi come un thug (rischiando di passare per un imbecille, e lo so bene) che come la persona seria e radicalmente aperta che di solito sono (radicalmente: ho frequentato sette religiose e scienziati, e uno dei miei migliori amici nel giro editoriale è uno scrittore mainstream e serio che più maintream e serio non si può).
    Io non so se Cortellessa abbia o non un sorrisetto di superiorità. Credo di sì, sinceramente, ma mi interessa poco. Io sono convinto solo di una cosa. Sono convinto che le mie azioni, quando scrivo, facciano ridere, piangere e riflettere le persone. Sono convinto che le azioni di un medico salvino vite, che quelle di uno sciamano aprano porte verso altri mondi, che quelle di un fisico… anche. Le azioni di un critico alla Cortellessa (non di un critico ‘tout court’, badiamo bene) mi sembrano perfettamente inutili. Hanno senso e generano stipendi solo all’interno di un precisissimo contesto culturale, che vive in un equilibrio di legitimazioni reciproche. Hanno senso in un sistema che dice: “chi ha letto Joyve può generare uno stipendio, chi ha letto Ketchum, no”. E poi quel sistema, guarda caso, difende Joyce e attacca Ketchum.
    Non dico che ci sia malafede, che ci sia dietro un piano silone, ci mancherebbe: dico solo che è un gioco di reciproche legittimazioni notissimo in sociologia, noto al punto che non vale la pena parlarne più di tanto.
    Equilibrio, gioco, che viene tenuto in ballo anche da noi autori e noi lettori. Finchè vorremo essere ‘legittimati’ da un certo mondo, staremo dando a quel mondo il potere di ‘legittimarci’ ai suoi stessi occhi – e quindi staremo posizionando quegli occhi in uno scalino superiore al nostro (‘nostro’, ripeto, nel senso: di scrittori e lettori allo stesso modo).
    Ecco perchè dico che io NON voglio essere legittimato. Ecco perchè io dico che NON mi frega molto che Cortellessa mi legga e che legga, che so, Jeff Smith. Il sistema in cui il parere di Cortellessa ha valore è un sistema che considero dannoso per la cultura in cui in parte vivo, per il mio lavoro, e per il mio divertimento.
    Il culmine, per me, è la separazione tra intrattenimento e altro. C’è, dietro una separazione del genere, una differenza con il mio approccio che non è letteraria, ma metafisica. E che non mi interessa sondare, perchè la vita è breve e bisogna fare delle scelte su cosa valga la pena studiare e cosa no, su quali siano i nemici degni, e quali no.
    Io seguo, nella mia vita, nella mia scrittura, e nella mia ricerca teorica, il piacere. Per me le storie belle hanno lo stesso tipo di bellezza del sesso, o di un campeggio sperduto nei boschi. Io credo che gli approcci tecnici alla scrittura abbiano un senso (del tipo: se metti una pistola, poi usi la pistola o tematizzi il fatto che non venga usata). Quelli logici, no. Perseguo, orgogliosamente, una via che è più vicina alla magia che alla scienza. Rispetto il pensiero scientifico in alcuni ambiti (anzi: mi entusiasma, e grande merito vada a chi scopre un vaccino). Lo considero povero, misero e brutto quando viene applicato ad altri. Come ogni approccio all’universo, ha i suoi limiti.
    Insomma: si ritorna là. Se io discutessi logicamente con Cortellessa, per il solo farlo, starei entrando nel suo mondo. Starei accettando il suo giudizio, starei cercando di fargli cambiare idea. E questo presupporrebbe interesse da parte mia. E il mio interesse implicherebbe che la sua posizione di legittimatore/de-legittimatore sia in qualche modo giustificata. E non lo è.
    Il mio interesse culturale, se mai ne ho uno, è di abbatterlo, quel mondo. Raderlo al suolo dalle fondamenta, perchè credo che non serva (più) a niente. E’ morto, e come tutte le cose morte che restanno attaccate a un corpo, genera cancrena.
    Questo fa di me un thug, a volte? Purtroppo sì, e me ne dispiace. Ma credo che a volte i thug servano.
    Pe favore: non ditemi che è soltanto una comoda scusa. Io ho alcuni problemi con il dibattito sul NIE, ma non avrei problemi a discuterne. Ho enormi problemi con i cattolici, ma non ho problemi a parlarci, esserne amico. Sono pochissime le cose che mi fanno dire ‘no pasaràn’, ma credo che qualcuna serva. Come questa. In cui, per tornare all’inizio, il semplice entrare nel merito giustificherebbe l’esistenza di un ‘merito’.
    Cortellessa è portavoce di un sistema che io credo vada abbattuto. Non c’è odio personale, ci mancherebbe. Mancanza di stima sì, ed è reciproca (tra i nostri sistemi: non pretendo che Cortellessa legga me, come io, d’altronde, non leggo solitamente Cortellessa).
    Non vedo perchè non dovrei dirlo chiaramente.

  40. ecco, mi pare che gli ultimi vostri commenti, per quanto duri, siano già “discussione”, aldilà del tono ruvido e polemico. ora che ho compiuto la mia buona azione da boyscout, prima di sciogliermi in un disgustoso impiastro di melassa natalizia, vado a cercare qualcuno da mandare affanculo in maniera gratuita. buon 2010

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