Volevo, lo giuro, parlare di qualche libro che mi è piaciuto particolarmente. Però la discussione che si è sviluppata su horror e informazione in rete sta prendendo una piega molto interessante: se ne parla su Malpertuis e da Andrea G.Colombo.
Aggiungo solo una piccola cosa: giustamente il titolare di Scheletri rivendica nei commenti a Malpertuis il carattere amatoriale del suo sito, peraltro gestito con molta passione da una sola persona, mentre le recensioni vengono direttamente dagli utenti. Certo, questo è un caso diversissimo rispetto alle tre e-zine corazzata di cui ho parlato in precedenza: però, la mia provocazione intende battere anche su questo tasto.
Ovvero, l’importanza di un’assunzione di responsabilità PROPRIO da parte degli amatori. Chiunque scriva su un blog scrive gratis: ma se è il compenso a fare la professionalità, la rete rischia grosso. Almeno secondo me, è importante essere sempre pienamente consapevoli di cosa e di come si scrive.
Anche quando si parla di horror e di fantasy.
Direi, persino, soprattutto. Dal momento che ieri ho visto rispuntare il fantasma del Monnezzone.
Il Monnezzone ha una lunga storia. Si manifestò nel 2006, quando Silvia Ballestra, intervistata da Simonetta Fiori per l’uscita del suo romanzo, ne parlò in questi termini:
Il “monnezzone” è il thriller standardizzato, diffuso a livello planetario. Libri plastificati sul genere Sonzogno ma anche Mondadori ci dà sotto. Un esempio tipico è Jeffrey Deaver, l’ inventore del criminalista paraplegico coinvolto in storie efferate. Titoli del tipo: Lo scheletro che balla o Il collezionista d’ ossa… O anche i gialli di Carlo Lucarelli e Massimo Picozzi. è un genere che tira molto. E io confesso che, quando sto male, me lo divoro.
Seguì un articolo di Andrea Cortellessa su Tuttolibri, la cui parte finale recitava così:
Purtroppo per l’eventuale buonafede di chi spaccia a palate i suoi spaghetti gothic, a contenere in sé un reagente conoscitivo dal valore anche sociale resta proprio la noiosissima letteratura «vera». Quella, cioè, che funziona attraverso la differenza, e non la ripetizione. Quella che, se inventa sempre nuove forme, è perché non s’appaga soporifera di quelle ereditate (le forme artistiche, trascendentale allegoria di quelle dell’esistenza associata). Quella che non equivale certo, sic et simpliciter, alla «comunicazione»: e proprio per questo ha il coraggio di pagare (anche fuor di metafora) la propria mancata «sintonia con le domande della società». È questa la letteratura che prevede, fra i propri scopi ideali, la liberazione del pensiero di chi legge. E non è un caso che sia questa, oggi, a rischiare d’essere travolta dal «futuro» editoriale e mediatico dei monnezzoni «Classe 1984». Se ciò dovesse accadere, stia sicuro l’Inquisitore, non mancheremo, armi e bagagli, d’andarcene sopramonte. Non la sottovaluti, Eymerich, la resistenza: altri hanno fatto lo stesso errore.
Dopo un lungo silenzio, il Monnezzone è riapparso in pompa magna in un articolo di Elena Stancanelli, peraltro molto bello e interessante per quanto riguarda il rapporto fra case editrici e autori. Solo che, verso la fine, cigolano le porte, stridon le catene. Ed ecco cosa accade:
Comprare libri è difficile. Per chi non tiene il naso ficcato ogni giorno nelle pagine culturali dei giornali serve un tom tom, qualcuno che ti indichi la strada quando, entrando nelle librerie, vieni ormai travolto dalla potenza visiva e anche fisica delle pile di “monnezzoni” dalle copertine dorate, che vomitano draghi, complotti, maghetti.
E tre.
Tre fra autori e critici che definiscono spazzatura o, nella migliore delle ipotesi, scrittura da volgare intrattenimento, tutta la narrativa fantastica. Sì, tutta. Perchè non mi interessa se qualcuno, ora, salterà su dicendo che in realtà adora Philip Dick e ha costruito un altarino segreto a Lovecraft. Occorre essere chiari: che ci siano libri di basso profilo nella narrativa fantastica è evidente. Che tutto ciò che parla di draghi e magia sia immondizia è un falso.
Se, dunque, il Monnezzone viene ancora considerato come serie B rispetto alle nobili stanze della letteratura (ma che noia dover ripetere queste cose a distanza di quasi quattro anni. Davvero, che noia, che desolazione), ebbene, ecco che l’assunzione di responsabilità di chi informa, sulla rete, su quei libri, diventa fondamentale.
Tutto qui.
Ps. Gl D’Andrea parla nel suo blog dello stesso articolo.
Guglielmo: le stesse cose, dette in un tono meno “polemico”, le ho ripetute per due giorni. Si sa, le buone maniere non fanno parte del nostro disgraziatissimo Zeitgeist. Così, la modalità “berserk” (tanto per restare in tema), ogni tanto bisogna rispolverarla. Insomma: mi sono girate le melasse natalizie.
Hail Satan!
Guglielmo, non ti riconosco più. 🙂
sai, ho avuto una figlia da 4 mesi e la modalità berserk me la sono scordata 🙂
Allora, ricominciamo. Su Tolkien, @ Wu Ming 4. Non è vero, non è vero che di Tolkien conosca solo quel che dicono Del Corso e Pecere. Il mio compito era postfare la loro analisi e di quella ho parlato, ma ne ho approfittato per dire perché quel tipo di operazione (quella di Tolkien, non quella di Del Corso e Pecere) mi insospettisca. (Con ciò dunque contraddicendo la tesi di fondo di D. e P., che ai miei occhi risulta – ti piaccia o meno – molto simile alla tua: occorre sottrarre un autore “innocente” all’uso perverso che he ha fatto la destra italiana.) Ho mostrato nel dettaglio, per quanto sia possibile a chi come me non è uno specialista dell’autore in questione, le oscillazioni e le incertezze, di metodo e di merito, dell’autore nei confronti della materia che impiegava. Segno, per me, che egli la impiegava in modo irriflesso, non critico, non consapevole (non consapevole rispetto ad altri usi relativamente più consapevoli, cioè quelli degli autori “non di intrattenimento” più o meno suoi contemporanei, come Joyce o Musil per esempio). Dopo di che tu non sei d’accordo. Benissimo, ma non ne puoi indurre che abbia detto o fatto cose che non ho detto e non ho fatto.
@ Francesco Dimitri. E’ per me molto interessante quel che tu dici, per due motivi. Uno: sei l’unico a dire esplicitamente che della legittimazione mia (non della mia personale, ma di quello che ai tuoi occhi incarno) non te ne frega niente, che su gente come me ci sputi sopra e vorresti che morissi (metaforicamente) il più presto possibile. Posizione onesta, chiara e frontale. Ma assai minoritaria, mi concederai, nella “tua” parte. In genere, invece, si assiste a questo curioso contorcimento (di cui Wu Ming 4 è un perfetto esempio, così come Evangelisti nel corso della polemica precedente): se la critica “ufficiale” ignora certi fenomeni questo vuol dire che tali fenomeni abbisognano di letture estranee a quel circuito bolso irrancidito e castale (letture dal basso, laterali, da fuori e via metaforizzando); però se un segmento di quel circuito (per es. la mitica rivista di studi tolkieniani della sperduta università americana) accetta di prendere in considerazione quei fenomeni, allora quei fenomeni si legittimano anche perché se ne occupa l’accademia. Insomma, i critici vanno bene solo quando ci danno ragione: che, mi si concederà, è una posizione un po’ comoda. (Perché, per esempio, ci si incazza tanto se si dice che noi, che perversamente ci ostiniamo a non entusiasmarci per i maghetti, abbiamo sempre meno spazio in libreria, come ha fatto Stancanelli nel pezzo citato all’inizio del thread? Perché si vuole, sempre e comunque, la botte piena dello sdoganamento da parte del mercato globale e la moglie ubriaca del riconoscimento e del rispetto dei barbogi accademici rancidi e frali di millenni di sconfitte? Abbiate pazienza, moriremo presto, siamo vecchi. Voi siete il futuro, siete sangue nuovo, barbarico ricco e gorgogliante! Buona fortuna, buona fortuna.)
Secondo punto importante dell’intervento di Dimitri, ancora più interessante: “Perseguo, orgogliosamente, una via che è più vicina alla magia che alla scienza […] Se io discutessi logicamente con Cortellessa, per il solo farlo, starei entrando nel suo mondo. Starei accettando il suo giudizio, starei cercando di fargli cambiare idea. E questo presupporrebbe interesse da parte mia. E il mio interesse implicherebbe che la sua posizione di legittimatore/de-legittimatore sia in qualche modo giustificata. E non lo è”. E’ il punto che mi fa essere incerto, sull’opportunità di continuare questa discussione (ma io sono notoriamente persona testarda: almeno quanto Dimitri). Se non condividiamo un piano comune, per es. la prevalenza di protocolli discorsivi che, se non scientifici (in merito alla scientificità delle analisi letterarie mi sono già espresso qui), sono più vicini all’impianto logico-razionale che a quello “magico”, è letteralmente impossibile che ci si intenda: quanto meno come ci si intende fra “avversari”. In questa discussione si usa un linguaggio, fatto di premesse e articolazioni di pensiero e conclusioni o pseudo-tali, che assomiglia da vicino all’uso “logico” da Dimitri disprezzato, ma forse all’interno della testa dei miei interlocutori (questa la mia riserva mentale, che confesso senza problemi) permane un punto a me irraggiungibile: quello che li fa salutare tra loro con “Heil Satan!”, per esempio. Io non so come decodificare “Heil Satan!”, detto da chi dice di non amare Casa Pound, per esempio; ma mi sforzo di andare avanti lo stesso.
@ Lara Manni e D’Andrea G.L.
Una regola mi pare abbastanza onesta, di questa forma di discussione, è che qui non vale il “lei non sa chi sono io!”. Non ho letto i vostri libri, così come voi legittimamente non sapete chi sia io: però possiamo contraddire (o “magicamente” approvare, chissà) le cose che ci diciamo qui e ora. O no? Dunque quando ho mostrato i galloni di studioso di Landolfi (o Alcor ha detto di essere una germanista) non l’ho fatto per vantarmi, ma per specificare che, date queste premesse, è (dovrebbe essere) inverosimile sostenere che io abbia pregiudiziali contro “il fantastico” (o che Alcor ignorasse cosa siano i “miti norreni”, una cui infarinatura ce l’ho persino io peraltro). Se, come Manni sostiene, nel suo lavoro lei tiene conto e di Landolfi e di Calvino, a me piacerebbe saperne di più; non mi basta che lo affermi. Una delle mie convinzioni, soggette a smentita come tutte le convinzioni si spera, è per es. proprio che sia inconciliabile una pratica del “fantastico”, a partire dal Novecento, con un atteggiamento da “fan”. Landolfi e Calvino, rispondendo (il secondo lo faceva esplicitamente, il primo non poteva farlo per motivi meramente cronologici) alla tesi di Tzvetan Todorov, dei primi anni Settanta, secondo la quale srabbe diventato impossibile il “fantastico” in un tempo in cui, diffusa a tutti i livelli la conoscenza della psicoanalisi, non sarebbe più possibile l'”esitazione” (fra una possibile spiegazione razionale e una spiegazione sovrannaturale, di un dato fenomeno) nella quale consiste, secondo Todorov, l’essenza stessa del “fantastico”. In diversi saggi ho provato a mostrare come Landolfi aggiri questo interdetto in (almeno) due modi: il primo è “mostrare il complesso psicanalitico per nasconderne un altro” (diagnosi fattagli proprio da Calvino, guarda caso), il secondo è usare “altre forme di esitazione”, non tanto fra spiegazione razionale e spiegazione sovrannaturale, ma per es. fra due sensi diversi del medesimo apologo (si pensi al racconto La Spada, del ’42) o fra due o più diverse ipotesi di pastiche intertestuali e parodici. Queste due strade per es. sono quelle che hanno preso due notevoli narratori “fantastici” postmoderni come, rispettivamente, Julio Cortàzar e Antonia Byatt.
La mia idea è che, senza questo tipo di stratagemmi, l’uso di materiali “fantastici” sia destinato ad essere irriflesso, consumistico, chiuso nella propria logica “magica”: e corrisponda ineluttabilmente, dunque, a quanto definisco “intrattenimento”. Posso aver torto, ma è quel che penso.
Ora, questo impianto fortemente concettuale (Calvino parlava non a caso di un “fantastico tutto mentale”) richiede a mio modo di vedere un’accorta e razionale gestione delle proprie doti di scrittura: ed esclude a priori e risolutamente una fruizione entusiasta, “magica”, da “fan” osannante.
Un’ultima postilla su questo termine. Se si designa una cosa con un nome a sé, è perché si individuano in essa delle caratteristiche che la differenziano rispetto ad altre. Se dunque si parla di fruizione da fan è perché la si contrappone a una fruizione letteraria da essa diversa. Io sto alle parole (è un mio vizio, lo so): se “fan” viene da “fanatic” è perché evidentemente si allude a un’adorazione del genere di quella che investì certi gruppi rock all’inizio degli anni Sessanta: acritica, scomposta, urlante. Che volutamente abbandona la postura composta ed educata degli ascoltatori di altri generi di musica. Se mi si dice che esistono interventi “di fan” (cito Manni) “accurati, motivati e ricchi di riferimenti storici e culturali. E, ah, persino di strumenti di analisi propriamente detti”, perché li si continua a designare con un termine equivoco, che storicamente vuol dire un’altra cosa? E’ lo stesso equivoco di fondo che è alla base della separazione che ci separa. Io non ho pregiudiziali contro un testo, ma se il testo mi si presenta – pregiudizialmente, appunto – sotto un brand (grafica di copertina, appartenenza a una collana o a un marchio editoriale, ecc.) che lo identifica (e so bene i motivi, commerciali, di questa scelta) come appartenente a un genere codificato secondo “regole d’ingaggio” che a me non interessano, fatalmente ne prenderò atto e preferirò leggere un testo che non si presenta con tali marche identitarie.
E’ l’identità che ci frega, sempre. Ma siccome lo sappiamo (o dovremmo saperlo), allora non si capisce perché non si abbia la forza di abbandonarla: quell’identità che non corrisponde alla nostra. Se davvero non ci appartiene, beninteso.
@D’Andrea G.L.: concordo col fatto che il pregiudizio di certa critica di sinistra è esteso a un intero genere, e infatti riguarda Tolkien in primis perché è uno dei capostipiti del genere in questione (per lo meno nella sua versione contemporanea).
@Francesco: non credo che si tratti di far cambiare idea a certi critici, concordo con te, ma di dibattere pubblicamente ai fini di “abbattere” una visione riduttiva e nefasta della letteratura (e dei lettori), questo sì. Questo occorre continuare a farlo. Altrimenti, come dice D’Andrea G.L., la destra post-moderna (in stile Casa Pound) finirà per guadagnare sempre più terreno.
ora se riesco a strappare a Cortellessa di leggersi Esbat, Wunderkind e Pan di Manni, GL e Dimitri, mi sa che l’avrò fatta grossa. E i tre su citati non si affannino a rispondere che non vogliono questo e che non gliene frega niente. Lo so che non ve ne frega niente, ma a me non dispiacerebbe che accadesse e me ne assumo la responsabilità. Tanto per vedere l’effetto che fa. 🙂
Mo basta però, eh
Prometto che poi sto zitta. Però devo un’ultima risposta a Cortellessa.
@Se, come Manni sostiene, nel suo lavoro lei tiene conto e di Landolfi e di Calvino, a me piacerebbe saperne di più; non mi basta che lo affermi.
Su questo ha ragione. Personalmente, posso solo dirle che proprio su quelle “altre forme di esitazione” da lei citate tento di lavorare. ANCHE sulla doppia spiegazione razionale e sovrannaturale, ma SOPRATTUTTO sui due “sensi diversi del medesimo apologo”. Naturalmente, senza avere la presunzione di arrivare ai livelli di Cortàzar e Byatt. Su questo, certo, lei ha soltanto la mia parola, dal momento che i fatti sono nei miei testi. Dovrà fidarsi (e, sì, faccio come ha previsto Guglielmo, dissento sul consiglio di lettura: non sono intervenuta qui per autopromuovermi, anzi, ho evitato di farlo per giorni proprio perché non si pensasse questo).
@Una delle mie convinzioni, soggette a smentita come tutte le convinzioni si spera, è per es. proprio che sia inconciliabile una pratica del “fantastico”, a partire dal Novecento, con un atteggiamento da “fan”.
Temo che non ci intendiamo sull’atteggiamento da fan. E provo a spiegarle perché. Il fan è colui che ama, si appropria di ciò che ama e lo rielabora. Non da oggi, ma oggi soprattutto. Il fan, per esempio, scrive storie che vengono da altre storie. Con lo stesso principio secondo il quale si arriva da Rustichello da Pisa alle Città invisibili.
@Landolfi e Calvino, rispondendo (il secondo lo faceva esplicitamente, il primo non poteva farlo per motivi meramente cronologici) alla tesi di Tzvetan Todorov, dei primi anni Settanta, secondo la quale sarebbe diventato impossibile il “fantastico” in un tempo in cui, diffusa a tutti i livelli la conoscenza della psicoanalisi, non sarebbe più possibile l’”esitazione” (fra una possibile spiegazione razionale e una spiegazione sovrannaturale, di un dato fenomeno) nella quale consiste, secondo Todorov, l’essenza stessa del “fantastico”.
Mi perdoni, ma a me sembra che Todorov non sia la Bibbia. E mi sembra anche che sia stato accusato più di una volta di schematismo. Se non sbaglio, fu lo stesso Calvino a rimproverarglielo: “Per i lettori di Ariosto non si è mai posto il problema di credere e spiegare: per loro, come oggi, il piacere del fantastico si trova nello sviluppo di una logica le cui regole, i cui punti di partenza e le cui soluzioni riservano delle sorprese”.
@Se mi si dice che esistono interventi “di fan” (cito Manni) “accurati, motivati e ricchi di riferimenti storici e culturali. E, ah, persino di strumenti di analisi propriamente detti”, perché li si continua a designare con un termine equivoco, che storicamente vuol dire un’altra cosa?
Perché la storia cambia. E cambiano i significati delle parole. Fandom, il regno dei fan, oggi include persone e pratiche tutt’altro che osannanti. Se lei avesse tempo e voglia, potrei linkarle decine di discussioni di fan che smentiscono questo atteggiamento e questo pregiudizio. Ma credo che mi arrenderò. Buon Santo Stefano.
Sono io per primo ad aver contestato Todorov (autore, in generale, a me tutt’altro che simpatico). Infatti il mio scrittore preferito è Landolfi, che il teorema di Todorov escluderebbe.
Quanto ai fan, continuo a sostenere che si dia a questo termine un’estensione indebita. Se lei sostiene per es. che “Il fan, per esempio, scrive storie che vengono da altre storie. Con lo stesso principio secondo il quale si arriva da Rustichello da Pisa alle Città invisibili”, lei descrive molto semplicemente la letteratura. Infatti cita come esempio Le città invisibili, e Calvino del Milione non era un “fan”, era un interprete critico; e se ne è nutrito, proprio come un vampiro (faccetta), per scrivere il suo libro. Così come Ellis s’è nutrito di King, nonché di tutti gli autori snocciolati da Gorlier. Piaccia o meno ai fans di Ellis.
Perché insistere a chiamare fan chi non si comporta come tale? Perché forse quel lettore-che-sta-imparando-a-farsi-critico insiste a prediligere testi che si presume appartengano al fandom, ad esso rivolgendosi? E’ questo l’atteggiamento che autoesclude, che automaticamente riconosce sé nell’identico, che si bea di pacificanti certezze. Mentre la letteratura, almeno come la intendo io, è inesauribile voracità onnifagocitante, senso di perenne estraniamento, disautomaticizzante inquietudine dello strutturalmente incerto e indecidibile. Buon 2010 a tutti.
Sono felice che l’Hail Satan, abbia ridestato l’attenzione di Andrea perchè è proprio questo che dovrebbe fare uno scrittore. Usare i segni per spiazzare, colpire.
Muovere i neuroni, giusto? Lo prendo come un complimento.
Vedo invece anche che la modalità Berserk fa il suo bravo dovere e, di questo, invece mi dispiaccio.
Nello specifico.
@Andrea: Non sono qui per farmi pubblicità, non sono un Venditore, tanto meno di me stesso. E non sono qui neppure perchè cerco una “legittimazione” (a fare che, tra l’altro?). Sono qui perchè il monnezzone come sistema d’artiglieria critico mi ha fatto incazzare, ma sono anche convinto che dall’Accademia si possano trarre stimoli. Frega un tubo della legittimazione, detto in termini semplici. Non è l’accademia che legittima uno scrittore, è il lungo periodo – e sul lungo periodo sarò carne per vermi, poco mi importa.
Però mi piace quello che faccio. E per fare bene quello che faccio, scrivere, mi piace ricevere stimoli. Leggo Zizek e trovo stimoli per la mia forma di narrazione, punto. Leggo ciò che scrive il professor Ferrari di Trento e i suoi studi sono combustibile per la mia mente. Ma allo stesso tempo leggo con uguale passione ciò che i “fan” scrivono. E trovo altri stimoli, punti di vista, prospettive – che mi arricchiscono. Sono (cerco di essere) uno scrittore, non un critico. Mi nutro di stimoli e cerco di vomitarli in altra forma. Sperando che questa nuova forma sia, almeno, viva. Forma che a Todorov starebbe molto in culo, ma che un Meletinskij capirebbe molto bene – se permetti. Tanto per restare al freddo. Certo, possono anche essere stimoli “al negativo” nella forma di muro contro muro (quante volte gli scriventi si sono scontrati con i leggenti?), ma sempre stimoli sono.
Essere etichettati in due righe come immondizia, se permetti non è nemmeno muro contro muro è più simile al “Il est, pardon, Juif” tanto in voga all’epoca di Musil.
Non credo nell’arroccarsi sulle proprie posizioni, così come non credo che tu abbia le idee chiare su dove il fantastico italiano ed europeo stia andando a parare e me ne dispiaccio. Me ne dispiaccio perchè, come faceva notare Guglielmo, sebbene con una valanga di “se e ma (e parecchio da leggere, abbi pazienza)” se non altro sei qui. Però, occhio. Gli esempi che porti (e mi riallaccio anche al discorso sui “fan”) sono stantii.
Landolfi ha poco a che vedere con me e – immagino – con molti altri scriventi, se non alla lontana. Le radici sono altre, europee, americane. Radici che sono anche economiche. Perchè se noi trattiamo di Miti, l’ultimo Mito è proprio quello economico.
Mi pare di capire che tu non leggi i libri con copertine sgargianti. Peccato, ti perdi anche Zizek con le sue copertine rosa, esempio che mi sta a cuore. Peccato, perchè mi sembra un atteggiamento poco serio giudicare un libro della copertina (molto simile a quelli dei “fan” come tu li descrivi, tra l’altro).
Cercare di capire il fantastico (se davvero, anche se continuo ad avere dei dubbi, è tua intenzione farlo) significa anche cercare di capire questo.
Le radici, ormai, non sono più solo Calvino e Landolfi. Insomma il tuo citare Landolfi e il tuo saggio su, accoppiato al “monnezzone” generico sta a significare un’incoerenza formidabile. Che, permetti, oltre che far alzare il sopracciglio, spalanca abissi di dubbio e interrogativi.
In ultimo: il fantastico non è questione di intrattenimento. Non solo. Anche, fondamentale, ma non solo. C’è altro, per come la vedo io. Il nostro secolo, il XXI, ha bisogno di una narrazione che violenti il Reale per poterlo trasmettere. E questo lo fa solo il fantastico. Oppure è solipsismo della peggior specie che, penso, ti stia antipatico e pure parecchio.
E comunque, guarda, mi sforzo di andare avanti lo stesso. E’ il lungo periodo, no?
Hasta siempre Lucifero.
@WM4: eh, poi un giorno te ne racconto una divertente…
Vorrei tornare alle cose che ha detto Loredana, anzi ripete da tempo, nel thread e che, se non ho capito male, mi pare di poter riassumere così: signori che parlate, soprattutto in blog specializzati, di fantasy, di horror e di libri di genere quali che siano cercate di farlo nel miglior modo possibile, non battete moneta falsa, assumetevi le vostre responsabilità perché poi quella ‘moneta falsa’ può far considerare tutto ciò di cui parlate, libri che pure a volte sono oro colato, come farlocco e monnezzone.
Io condivido in pieno. E mi pare che di questo consiglio dovrebbero fare tesoro pure quelli che fanno di tutta un’erba un fascio e parlano a cuor leggero di fantasy e di Horror come di robaccia da bruciare: signori, in genere critici laureati, prima di buttare al fuoco i libri cercate almeno di capire quello che state bruciando.
Non mi pare però che Elena Stancanelli abbia fatto questo: i monnenzzoni di cui parla – a quanto ho capito
io – sono quelle montagne di libri che le grandi case editrici, avendo fiutato filoni auriferi (come il
fantasy), stampano a casaccio semplicemente per trarne profitto.
Niente di male per un imprenditore cercare di trarre profitto dalla propria impresa, ma l’impresa di stampare libri ha una sua responsabilità peculiare e molto specifica di cui bisognerebbe tenere conto, almeno è quello che, romanticamente e moralisticamente, penso.
La discussione però poi ha preso un’altra piega.
Siccome sono una lettrice sfusa e generalista non posso parlare a nome dei fans, la cui accezione un po’ mi sfugge e non mi è stata chiarita nemmeno dalla definizione di Lara Manni, perchè – certo – allora tutta la lettura nasce da questa accezione, come dice Cortellessa.
Quello che ho sempre pensato è che un fan ha una competenza maggiore della mia quando legge un libro del genere di cui è fan, il che lo rende un lettore senza dubbio più critico di me rispetto a certi autori. E dunque è proprio nel concetto di fan che mi sembra ci sia una smentita della preoccupazione di Cortellessa che vede orde di barbari attaccare il fortino della illuminata (e illuminista?) società letteraria.
D’altra parte fans nel senso che do io a questo termine ce ne sono sempre stati. Erano indubitabilmente fans, sempre per come la vedo io, i lettori di Dickens che aspettavano i fascicoli bisettimanali de La bottega dell’antiqurio, persino dall’altra parte dell’Atlantico e si chiedevano ansiosi che fine avesse fatto Nelly (leggo questa cosa in un libro di Giorgio Boatti), e d’altra parte Dickens – e credo qualsiasi altro scrittore che sia degno di questo nome – stabilisce con i suoi lettori un rapporto di complicità all’interno di un insieme di riferimenti condivisi. Il fatto che questi lettori siano una massa o siano un élite non cambia i termini della questione rispetto almeno a questo specifico punto. Anzi è proprio all’interno di questo identico – sempre secondo me, lettrice sfusa – che può verificarsi lo straniamento.
E questo è quello che fa, magnificamente, Ellis, ma lo fa anche King e qualsiasi altro autore che scriva onestamente per i suoi lettori.
Valeria, sull’accezione di fan hai indubbiamente ragione. Il fan è un lettore critico, non un lettore che sta diventando critico.
Invece, per tornare al punto d’origine: la discussione nasce proprio dall’aver scelto -da parte di Stancanelli – fra le pile di libri “a casaccio”, proprio quelli fantastici.
Sta diventando un trattato, questo post. 🙂
Scusate, mi si è attaccato involontariamente un pezzo del commento di Cortellessa in coda al mio (sto usando una tastiera un po’ precaria e con un occhio solo). Il mio commento ovviamente finisce prima. Lo riposto qui sotto, tanto per evitare casini. Se poi Loredana Lipperini vuole cassare quello precedente, decida lei… Comunque è questo:
Cortellessa, purtroppo la postfazione a “L’anello che non tiene” non dimostra “nel dettaglio, per quanto sia possibile a chi come me non è uno specialista dell’autore in questione, le oscillazioni e le incertezze, di metodo e di merito, dell’autore nei confronti della materia che impiegava”. Se così fosse quel testo sarebbe entrato ben più nel merito delle affermazioni fatte, e forse potremmo davvero discutere di Tolkien.
Tolkien scriveva per intrattenere e non solo per quello, ovviamente, come tutti noi che facciamo mestiere della narrazione. Si narra ad altri perché si vuole condividere una storia, condividerne quello che per noi le dà significanza, suscitare pensieri ed emozioni (o “muovere sinapsi”), trovando le parole giuste e mettendole in gioco nell’ambito di una comunità allargata, cioè mettendo in gioco una parte di noi. Non c’è narrazione che non intrattenga, che non chieda attenzione, che non voglia essere ascoltata, nel momento stesso in cui viene condivisa. Fin da quando un uomo di Neanderthal si mise a raccontare una scena di caccia alla tribù raccolta intorno al fuoco narrare è sempre anche intrattenere, insieme ovviamente a molto altro.
Detto questo, non è questione di disaccordo sulla consapevolezza o inconsapevolezza di Tolkien. Per quello basta leggere bene Tolkien, e se solo in questi ultimi trent’anni qualche critico l’avesse fatto senza pregiudizio e senza doversene vergognare, non esisterebbe nessun “caso” Tolkien in Italia e i reduci dei Campi Hobbit parlerebbero del professore con i loro quattro amichetti, non nei paratesti di ogni sua pubblicazione italiana (made in Bompiani).
Le tematiche che affronta Tolkien nella sua opera sono universali, come spesso sono le tematiche della narrativa epica. Di rilfesso nelle sue storie è possibile ovviamente cogliere anche giudizi e riflessioni implicite sulla sua epoca, la prima metà del Novecento, che non hanno niente da invidiare agli autori suoi contemporanei appartenenti all’insieme dei “non intrattenitori”.
La differenza forse con questi ultimi è che Tolkien credeva che i miti contenessero o potessero contenere un nocciolo di verità sulla natura e la storia umana (e divina, visto che lui era religioso). Credeva cioè nella forza dell’epica e della narrativa non solo come interpretazione o lettura del mondo, ma anche come affermazione. I nazisti credevano la stessa cosa, certo, e tecnicizzarono i miti nordici (per dirla con Kerenij e Jesi) almeno quanto Tolkien li mise in contraddizione creativa con il cristianesimo e un’idealità del tutto irrecuperabile dal suprematismo germanico. Quel recupero infatti è stato possibile solo per omissione e mistificazione (nonché, in senso lato, per diserzione della critica dal suo mestiere). Si sa che i nazisti scipparono in primis elementi di immaginario, modalità e miti al movimento operaio e al marxismo: questo non significa che i miti propulsivi del marxismo fossero sbagliati o necessariamente ingenui; di certo non lo erano le analisi da cui scaturivano. Senza quel carburante non ci sarebbe stato alcun movimento… Non è corretto accusare Tolkien dell’uso improprio che quattro ammiratori di Julius Evola hanno fatto del suo lavoro.
L’inchiesta di Del Corso e Pecere – come ho scritto nel mio primo commento – è bella e ben fatta e ne condivido l’intento, è vero: ristabilire un equilibrio, liberare Tolkien dalle aderenze appiccicose che si è ritrovato addosso, ma soprattutto, per quanto mi riguarda, agevolare un approccio critico serio a quello che a mio avviso è uno degli autori importanti del XX secolo.
Nessun altro autore ha provato singolarmente a produrre un opus narrativo che attraverso tre tipologie letterarie – la poesia, il legendarium e il romanzo – andasse a creare la storia di un intero mondo. Storia intesa come cosmogonia, mitologia, cronologia di eventi, storia politica, culturale e linguistica. E’ un’impresa unica nella letteratura, condotta da un solo uomo (forse due, mettendoci dentro anche il figlio). L’interesse che ha suscitato in milioni di lettori e il dibattito che (all’estero) dura da decenni dovrebbe suggerire qualcosa alle orecchie di chiunque si interessi di letteratura, a meno che non creda che il successo sia necessariamente fonte di demerito e svalutazione.
Concludo staccando dalla parete alle mie spalle le freccette che mi sono state lanciate a proposito di una supposta ambivalenza nei confronti dell’accademia e della critica. Ci sono casi in cui la critica non si accorge di certe cose e non fa il suo mestiere (Tolkien è uno di questi casi, ne ho detto ad nauseam) e quindi i non critici professionisti (come ad esempio il sottoscritto) devono fare anche il mestiere altrui. Credo di averlo dimostrato proprio in questa discussione. Quando l’accademia e la critica si accorgono di ciò che si muove sotto il cielo perché non dovremmo rallegrarcene? E’ una posizione comoda o di buon senso? Ai posteri l’ardua sentenza.
Ma immagino che l’allusione di Cortellessa fosse al dibattito sul New Italian Epic, nato in un contesto…ACCADEMICO, ovvero durante un ciclo di conferenze nelle università nordamericane e proseguito coinvolgendo ricercatori di letteratura in Italia e all’estero, recentemente ripreso in un articolo su Repubblica da quel noto punkrocker di Asor Rosa. Dibattito che ha suscitato la reazione positiva di molti colleghi scrittori e quella stizzita di diversi critici di professione. Tant’è, non si può essere tutti d’accordo. Ma certo si continua a dicutere con chi è disposto a farlo. Perché al mondo non ci sono soltanto i critici italiani e nemmeno soltanto le riviste delle oscure università americane (per la cronaca nel caso dei Tolkien Studies si tratta della West Virginia University).
@Cortellessa: vero, la mia posizione è minoritaria, dalla ‘mia’ parte. Questo perchè, tra gli altri motivi, non genera stipendi.
Checchè se ne dica, ‘noi’ siamo tutto fuorchè popolari, in Italia, oggi. Siete voi, quelli che popolano pagine di giornali e libri di testo (libri obbligatori, non come i nostri, che li compri solo se li vuoi). Voi. E io non voglio prendere il vostro posto, non voglio diventare obbligatorio.
Io voglio abbattervi.
E lasciare caos, libertà e piacere nelle posizioni che avete occupato.
Abbattervi come gruppo, non come persone, chiaro – ma tra gente civile (che, è vero, scarseggia), questo non dovremmo stare a ripeterlo ogni volta.
Per ora siamo lontani, ma sai cosa? Dacci tempo. Io lo dico senza sarcasmo: sangue barbarico, mi piace.
@WM4: forse tu e GL avete ragione. Devo ragionarci.
Io non volevo commentare, all’inizio, poi ho scritto un lunghissimo commento in cui dicevo la mia, ma l’ho perso.
In definitiva mi da non poco fastidio una cosa: cioè che qualcuno si permette di dire che il fantastico è monnezzone, che solo la letteratura vera può parlare di problematiche sociali, politiche o che altro e che i libri fantastici (fantasy, horror, sf e quant’altro) NON possono farlo. Questo qualcuno fa questa affermazione senza nemmeno conoscere ciò di cui parla.
E lo fa con uno stile pomposo, usando paroloni da edizioni accademiche (quando tuttolibri mi pare un inserto di quotidiano) che mi sembrano fuori luogo.
Dire che solo la povera letteratura vera possa permettersi “la liberazione del pensiero di chi legge”, mi scusi, ma mi sembra terribilmente in malafede (o incrediubilmente ingenuo).
Io prima di criticare un romanzo, lo leggo.
Prima di criticare un film, lo guardo, anche se il regista magari mi sta sulle scatole.
intanto vi ringrazio per avermi fatto passar un paio d’ore a leggere di roba che che non mi interessa. i maghetti che complottano contro i draghetti non mi hanno mai entusiamato, per farla in breve. poi se ne sono lette di cotte e di crude, da aldo nove paragonato a tolkien, da una parte, che fa scappare da ridere, al fantastico che è l’unica narrazione che violenta il reale, dall’altra. ovviamente, ma credo lo sappiate tutti, intervenuti e osservanti, la realtà, se così possiamo chiamarla, sta nel mezzo. cortellessa, campione davvero di arrampicata sugli specchi 2009, in questo contesto, arriva a negare che chi ha inventato un alfabeto, un linguaggio e un mondo non possa esser considerato letteratura. vittima di quel preconcetto che vuole tolkien autore di destra, e quindi bla bla bla. se seguissimo questa pista, e fossimo di sinistra, addio pound e addio celine e addio anche eliot. per fortuna ne possiamo fare a meno. (anche essendo di sinistra) però, mi pare di intuire, l’indignazione iniziale di cortellessa credo vertesse sull’occupazione delle vetrine da parte di un certa industria culturale, regnante, sia chiaro, che pagando o non pagando rende il negozietto dietro alla stazione termini (che ricordi!) una cosa da tramandare ai posteri, col suo libraio critico che ti suggeriva i libri e che era l’unico ad avere qualcosa di raro di lovecraft.(la chiave d’argento di randolf carter, cercavo, io). un invasione di maghetti complottanti draghetti, o di totti travestito da ligabue incappucciato da littizzetto, cambia poco, che ti assalgono quando entri in una libreria che hanno un potere e una direzione, come ritiene cortellessa, che ha anche il mio appoggio su questo, diseducativa. la realtà che sta nel mezzo, per chiudere, e che è anche un paradosso, è che nel trambusto di tutto il monnezzone, se non c’è un film o un fan che ti sbatte in faccia lindqvist, capace che magari non lo leggi. e, letteratura alta o letteratura popolare, lindqvist andrebbe perlomeno letto, secondo me. così come tolkien, che non fa impazzire neanche me (anche se il gioco di ruolo del signore degli anelli è davvero meraviglioso, se hai un master con le palle) non puo’ non essere considerato letteratura nel senso più alto del termine. cortellessa, un passo indietro, citi joyce che ha tolto tre virgole e non caghi tolkien che ha “inventato” una lingua ed è l’autore più venduto del secolo, per dirla col popolo. suvvia. e anche g.l. che mi è davvero simpatico, sul finale si è un po’ lasciato andare. il fantastico, come immagino sappiate tutti, annovera anche borges, per dire uno che non parlava né di maghi nè di vampiri, e forse è il collante che puo’ mettervi tutti d’accordo. c’è del buono anche nella letteratura fantasy, per carità di dio, ma, parere mio, non è di certo nelle pilette di twilight o di harry potter. quella è roba per idrocefali seriali, oppure da studio di sociologia applicato alla mediocrità del presente. si vuole fare uno studio sull’instupidimento degli adolecenti di oggi? si faccia. ma non è che diventano intelligenti di colpo, e non è neanche colpa loro. ho capito che la pizza la fanno anche gli americani, ma la vera pizza è un’altra cosa. si trova roba buona nel fantastico, per carità, affogata da un” marketting” asfissiante magari, ma da che mondo è mondo la lettratura si è sempre fatta da altre parti. (eccezioni di genere a parte, vedi borges o lovecraft o tolkien o calvino, per rimanere nel genere fantastico/metafisico) siamo in un’altra epoca? puo’ essere, sarebbe da stupidi dispensarsi portatori di verità. ma il linguaggio è stato violentato anche in poesia, g.l., non solo nel fantastico, e cortellessa, con la sua accalorata arrampicata sugli specchi, alla fine difende un mondo che è anche il mio: è che non lo trovi nelle librerie, di solito. come tutte le cose migliori, non stanno sugli scaffali, ma stanno in rete. termino ringraziando perché davvero è stato uno spasso leggervi, bella contesa. buona serata.
Facendo una scivolata a gamba tesa: conosco un fan di quelli superfanatic di Kafka, Manganelli, Gadda, Borges e Cioran. Legge, e cita solo loro. Tutto passa dalle loro parole. Le usa come clave contro tutti, in modo acritico, dottrinale, fanatico, appunto. Non lo ammetterà mai ma quella, per lui, è letteratura di intrattenimento, assolutamente consolatoria. (non a caso le riviste e i quotidiano di destra a partire da Il Domenicale per finire a Libero, li citano di buon grado questi autori. Sanno che non fanno più male a nessuno).
In confronto il fandom della letteratura fantastica è frequentato da accigliati e pacati barbogi professori.
😉
Ansuini.
Uno che scrive che Harry Potter è roba per idrocefali seriali davvero non ha capito nulla di quello che si è tentato di dire in oltre centosessanta commenti.
Inoltre, avviso personale.
Uno che scrive “marketting” deve sapere che in questo caso la titolare mette mano alla pistola.
Ansuini, lei mi dà l’idea di guardarci come formiche attraverso una cupola.
Non si affanni a spiegarci a noi stessi, però: apparteniamo a realtà reciprocamente aliene.
lo siete, lo siamo, valeria. purtroppo non vi conosco di persona, mi sono trovato a leggere la discussione e forse la prospettiva è proprio quella che lei indica. che male c’è? mi spiace avervi offeso, se l’ho fatto, però mi sembra di aver criticato in egual misura, e di aver anche ringraziato. mi spiace che loredana prenda mano alla pistola perché mi lamento del marketing ossessivo riservato a un certo tipo di libri che va per la maggiore, mi pare però che il servizio offero dalle librerie agli editori corrisponda alla metafora di marchetta. mostro la merce che tira di più, così chi entra ne è subito attratto. non volevo essere offensivo. riguardo alla qualità della narrativa della rowling mi permetto di dire che puo’ vendere anche 2.000.000 di copie, se voglio farmi avvincere mi guardo lost, e risparmio la vista. (purtroppo un libro l’ho letto, e devo dire che mi divertono di più i film, nel genere) la letteratura, che non è una cosa passiva ma richiede anche uno sforzo del lettore, secondo me, la riservo ad altri autori. magari tolkien, per non passare da quello con la puzza sotto il naso. per colpa di quella storia della sinapsi che si accendono. i libri della rowling li trovo passivi, mi è concesso? come la tv. cordialità.
Loredana, chiedo scusa, forse ho calcato la mano sugli adolescenti, magari lei ripone fiducia in loro. su questo alzo le mani in anticipo,sono abbastanza rassegnato sull’argomento. però trovo che vent’anni di cultura televisiva abbiano ottenuto perfettamente il loro effetto, con le dovute eccezioni. parlo sempre del generale, ovviamente. qualche sedicenne sveglio l’ho incontrato anche io. non mi arrabbio neanche più se riempiono di lucchetti ponte milvio. mi pare una logica conseguenza. capisco però che si possa non esser d’accordo con me e che ho dato per scontato questo fatto.
Alessa’, io nun so’ quanti anni c’hai, ma te ricordi quanti cojoni c’ereno a li nostri tempi? Quanno sciavevamo sedisci anni? Na marea.
E la tivvù, taa ricordi la tivvù? Li sceneggiati? Du palle! Mo’ sciavemo Loste, nun so se me spiego. Averescelo avuto a vent’anni…
Eppoi: dire che Joyce toglie tre virgole e non inventa una lingua, dai, è proprio da snobboni. Sopratutto dopo la veglia per Finnegan.
E già che è notte, parlando di inventori di lingue e di manipolatori di miti: com’è che nessuno mi cita mai Horcynus Orca?
(tre di notte. Ha senso lavorare fino a quest’ora, in questi giorni di festa? Siamo noi il vero lumpenproletariat!) 🙁
ah già, era pieno de cojoni pure quanno eravamo ragazzini noi, per carità, c’erano i ragazzi della terza c e kiss me licia, ma cojoni come quelli de oggi, perdoname, pare ch’hanno fatto na selezione naturale pe sceje i più scemi! ma nun è tutta corpa loro, te ripeto, a noi er drive in era appena iniziato, dopo ‘n bombardamento de trent’anni forse pure noi oggi leggevamo moccia e annavamo a attaccà i lucchetti a ponte mirvio, che te devo dì. nun me pare però che se facevamo er ciuffo rosso come mirko dei bee hive. e poi ao, è n’opinione! a voi ve sembreno sveji? c’è speranza? speriamo. io so er primo a dì che la ggenerazzione nova è capace de fa dieci cose insieme, ma purtroppo nun sa annà in profondità. lo diceva baricco in un ber saggetto che è passato inosservato, morto interessante a parer mio. lo dissi anche qui na vorta, ne parlai co wuming ar tempo della niu italian epic. ma adesso stamo a annà fori dar topic, e io lavoro fino alle sette de domani mattina e nun vojo da fastidio a li commentatori seri. volevo solo da ‘n parere. se serve la traduzione ditemelo. bonanotte a voi.
Alessa’, n’antro forzato notturno!
Mon semblable, mon frère!
ahah. mannaggia. comunque, per fare i seri, la mia era una provocazione, quella di joyce dico, neanche tanto velatamente rivolta a cortellessa. una riduzione del suo lavoro sul linguaggio al “hai tolto tre virgole”. grossa come dire di tolkien che è come la rowling. (mi perdonerà Loredana che invece pare l’apprezzi) insomma, dai. se ne sono dette un po’ troppe, alcune interessanti, altre per favore.
Alessandro: Borges l’ho citato tre volte. In pratica lo faccio tutti i giorni, anche quando mi rado.
J.K. Rowling ha scritto sette libri, leggili, fatti ‘sto regalo. Poi, vai in una qualunque struttura sanitaria e fatti due chiacchiere con un idrocefalo. Le provocazioni hanno rotto il cazzo, n’est pas?
I tuoi commenti mi fanno riflettere, e molto. Penso si tratti dell’effetto di “anta” anni di dominazione Accademica Col Sorrisetto: il buttare tutto sul ridere. Il Grottesco come categoria interpretativa del mondo. Che porta ai Moccia. E alle mutandine disegnate a Strasburgo…
Sugli adolescenti. Ce ne sono due tipi. Gli adolescenti per età, e quelli per markerting. I primi sono vittime degli scompensi ormonali, i secondi di un sistema economico che ci vuole tutti grotteschi, goffi, eccitati, terzisti, sboccati, e spaventati ogni 3,4 secondi. In altre parole: manipolabili.
Può mostrarlo questo la narrativa mainstream? No.
Può mostrarlo la narrativa fantastica: oh, yes.
Propongo questo post come vincitore del premio Post dell’anno 2009. La premiazione dovrebbe avvenire in uno scantinato della Feltrinelli nella “galleria Alberto Sordi”, preferibilmente tra monnezzoni e puttanoni. Colà, si dovrebbe rappresentare la voracità onnivora della letteratura alle prese con cospicuo buffet. Ok, stavo solo scherzando – ma non sul post! è vero, è un trattato, una vera e propria Inquiry ed è bellissimo! – ma non riesco proprio a trattenermi dal rilasciare quali peti alcune opinioni personali et refragabili:
1) Lunar Park non è sto gran libro. Anzi, una discreta cazzata. Ellis perde palesemente voglia, ispirazione, passione più o meno quando comincia a tirar fuori la creatura pelosa. Bello fino al momento dei segni di artiglio sull’intonaco del palazzo, ma già lì, si capisce che ne aveva abbastanza e avrebbe voluto suicidarsi ma l’editore era alle calcagna con la deadline e altro. Ergo, trovo un po’ debolucce tutti i discorsi sull’autofiction che partono da Lunar Park (trovo un po’ deboluccia tutta la retorica sull’autofiction in generale, trovo un po’ deboluccia tutto sto Zeitgeist da Normalisti e Borgatari) e trovo un po’ deboluccio portare sugli scudi Lunar Park e scannarsi se in esso scorra il sangue di King o di DeLillo. Per quanto mi riguarda, vi scorre il sangue di Ellis, e era pieno di tracce sospette.
2) Tolkien. Al mio amico (no ironia) Andrea. Paradossalmente, quello che tu dici su J.R.R.T. è un’ulteriore augmentazione del mito. La strategia di Pecere e Del Corso, se non ricordo male – lessi distrattamente il loro saggio – era de-politicizzare Tolkien, col che volevano anche demitizzarlo essendo per loro due la politica un mito. Tutta la politica. Tu invece sostiene che egli è politicamente impresentabile, ambiguo, paranazistoide, affiliato a miti adolescentemente subito e mal elaborati, insomma, gli dai del Wagner. Dandogli del Wagner, tu dai a Tolkien quel che molti tolkeniani – e wagneriani – cercano. L’urlo belluino di Brunilde sul picco roccioso mentre disobbedisce al padre Wotan. Uso una parola fuori dal senso benjaminiano e fuori da ogni senso – per ignoranza di altri sensi pregressi, sia chiaro – tu, inconsapevole Andrea e wagneriano Andrea, col tuo discorso finisci comunque per preservare di Tolkien l’Ambiguo proprio la sua maggiore gemma: l’aura. Il senso di mistero, di unheimlich, te ne rendi conto? Insomma, per come la vedo io, cioè da mancato fan di Tolkien – dare a Tolkien dell’irriflesso – nota, irriflesso, parente stretto di quell’Irrazionale amato da noi pazzi di destra! – è il più alto elogio che si possa muovergli!
3) C’era anche una terza cosa. Ah, buon natale e buon anno nuovo. E poi, complimenti ai fan, veramente, non ho mai avuto pregiudizi verso di loro né verso maghetti e streghette, anzi, mi piacciono persino i vampiri. Ma davvero, raramente si son viste fandom così “assured” e sobrie, forse il Fantasy non sarà la letteratura eterna che sogna l’adolescente che scrive poesie, però mi pare abbia un suo valore formativo e terapeutico. Di certo di fantasmi ce ne sono a iosa, nelle menti scosse da tutte ste sinapsi (magari ci fossero, le sinapsi, la mia ha più che altro spifferi gelidi) e entrare in una Feltrinelli in cui le pile di Fantasy raggiungono la cima del secondo piano mi fa solo pensare che siamo una razza imprevedibile e creativa, e che Dylan Thomas o E.E.Cummings – citazione da fan irriflesso! – non ne sarebbero troppo offesi.
Di nuovo auguri a tutti!
Tolkien non sarebbe male: il problema sono i suoi lettori.
Non ne ho mai conosciuto uno che non fosse convinto della sua superiorità morale, del suo radicale anticonformismo, della sua profonda conoscenza di tutti i misteri: tutte cose che, naturalmente, è disposto a spiegarti, a lungo.
In compenso senso del mistero a zero assoluto: saputelleria andante e basta. I miti ‘norreni’ (che fa più fico che ‘nordici’) ripuliti e bowdlerizzati, adatti ai giovani (quelli bruttini, di solito) ed alle persone perbene (con l’edizione critica in tinello).
In realtà poche persone sono così totalmente prive di fantasia dei lettori di fantasy, cioè una letteratura il cui compito è la trasformazione dell’irrazionale in un parco a tema in regola con gli standard di sicurezza.
Non sarà colpa di Tolkien ma…
(poi, chiaro, adesso un po’ meno ma ancora una decina d’anni fa il fatto che gli ammiratori di Tolkien – solo in Italia – fossero nazifascisti era, appunto, un fatto: la situazione è cambiata solo dopo il successo dei film di Peter Jackson…)
A proposito: un capolavoro di fantasy che ho letto di recente e mi è piaciuto immensamente: il ciclo del Nuovo Sole, di Gene Wolfe (vi bastino i titoli: L’Ombra del Torturatore’, ‘L’Artiglio del Conciliatore’, ‘La Spada del Littore’ e ‘La Cittadella dell’Autarca’).
Il trucco ovviamente è che non si tratta di fantasy bensì di fantascienza…
Nota brevissima:
Giordano, fantastico e fan non sono questione riservata agli adolescenti. Mi pare che si sia detto e ripetuto. Così come si è detto e ripetuto che il fantasy non abbia semplicemente valore terapeutico ma letterario. Non tutto quel che viene pubblicato, naturalmente. Ma molta parte, sì.
Sascha, prova a sostituire il soggetto. Invece di Tolkien metti, che so, Arbasino (con tutto il rispetto). “Non ne ho mai conosciuto uno che…eccetera”. :).
Seriamente: ma come si fa a dare una definizione dei lettori di fantastico di questo tipo? (In realtà poche persone sono così totalmente prive di fantasia dei lettori di fantasy, cioè una letteratura il cui compito è la trasformazione dell’irrazionale in un parco a tema in regola con gli standard di sicurezza). E come si fa a definire così la letteratura fantastica?Cosa hai letto, gentilmente, in questo ambito? E, permettimi, l’immagine del lettore fantasy bruttarello e compulsivo potrebbe essere riportata pari pari sul lettore italiano di Dave Eggers: con un tantino di supponenza in più.
Ansuini: bello trovare passivi libri che non si sono letti, se non il primo di sette. Molto serio.
Quanto al saggetto di Baricco: I barbari, se ti riferisci a quello, non è affatto passato inosservato, tanto meno qui. Peccato che non dice affatto quello che sostieni tu: che siamo invasi dai deficienti.
Quanto alla pistola: era per la parola “marketting”, due T. Neologismo detestabile. Usato anche per Saviano, pensa un po’.
Cara Loredana, a me della presunta “superiorità morale, radicale anticonformismo, profonda conoscenza di tutti i misteri” da parte di Arbasino non frega un fico secco. Sono anzi aspetti, della sua opera o meglio del suo personaggio, che decisamente da lui mi allontanano. Però chi ha scritto L’Anonimo lombardo e Fratelli d’Italia (libri debitori in particolare nei confronti di Musil, guarda caso, come ad abundantiam ma assai onestamente dichiarato dall’autore in Certi romanzi) è senza alcun dubbio uno scrittore molto importante. Spiacente dover ribadire simili ovvietà (e spiacente pure se qualcuno dirà che tali ovvietà siano postulati “razzistici”; sarebbe banale misura di profilassi nei confronti delle più sesquipedali cazzate, come Joyce che cambierebbe “tre virgole”, che prima di riempirsi la bocca coi testi in questione li si avesse, che so?, letti).
Andrea, non ci siamo capiti affatto. Io ho profondissima stima nei confronti di Arbasino.
Stavo parafrasando la generalizzazione fatta da Sascha a proposito dei lettori di Tolkien. E la tua reazione mi conferma che ho fatto bene.
Il senso era: cosa diresti se io definissi i lettori di Arbasino come tu definisci i lettori di Tolkien? Chiaro ora? 🙂 (faccetta)
@ Tedoldi
Ciao Giordano. Su Tolkien hai ragione. Gli do molta importanza, più di quanta si sia in genere disposti ad annettergli. Perché secondo me ce l’ha. Dannosa, beninteso: come è evidente qui e altrove.
No. Mantengo la mia opinione: i lettori di fantasy hanno la tendenza di considerarsi una specie di aristocrazia e, in gran parte, non leggono altro. Credo dipenda dal fatto che, come ho suggerito, la fantasy (che si appropria del termine per ridurlo a una ristretta serie di stilemi) è una pulizia etnica della fantasia.
Anni fa tentai di far leggere a un lettore di fantasy L’Altra Parte, di Kubin, un romanzo fantastico se mai ce ne furono. Non riuscì a finirlo e me lo restituì con le parole di Eichmann riguardo a Lolita: ‘un libro sgradevole’…
Lei stessa lamenta, altrove, la povertà dei siti online di ‘genere’: quando uno si concentra ossessivamente su uno specifico set di tropi e topoi a discapito di tutti gli altri il risultato è una specie di automutilazione emotiva che non può che riflettersi sui contenuti…
Quanto ai lettori di Arbasino, un autore che non ha paura di passare per snob: il fastidio dei nostri giorni, dal punto di vista letterario, è la sostituzione di uno snobismo verticale ‘alto/basso’ con numerosi snobismi orizzontali, tante piccole isole di fissati che sgomitano e si disprezzano a vicenda. L’Arbasino, ai suoi tempi (adesso, vabbe’, ha i suoi anni), sapeva coprire tutto l’arco dalle vette agli abissi senza rifiutare a priori nulla – ma senza farsi piacere tutto a forza perchè se no ti accusano di essere snob…
No, Loredana, non è molto chiaro. Tu dici che tacciare i lettori di Tolkien di cercare in lui “superiorità morale, radicale anticonformismo, profonda conoscenza di tutti i misteri” equivarrebbe a tacciare di ciò i lettori di Arbasino. Ebbene, tanto non ho pregiudizi fra un “genere” e l’altro che non ho problemi ad affermare che i lettori che cercano queste scemenze in Arbasino (per esempio “Il Foglio” che gli ha dedicato credo dieci pagine, all’uscita del Meridiano) sono altrettanto passivi conformisti e consumisti di quelli che le cercano in Tolkien. Riguardo ad aspetti diversi di Tolkien, gli aspetti che secondo me fanno la grandezza di un autore, non ho letto il saggio consigliato da Wu Ming 4 (anche se non mi dispone granché alla lettura il titolo Scrittore del secolo: perfetto titolo da “fan” e per “fans”) ma qui si è per esempio sostenuto – lo hai fatto anche tu – che J.R.R. avrebbe “inventato una lingua”. Alla mia replica, che J.R.R. come molti altri scrittori di formazione e di mentalità goliardica (ho citato un autore non “di genere” ma che al “genere” assai indulge e non per caso, cioè Eco) ha bensì inventato e “filologicamente” descritto una lingua, ma non ha scritto la sua opera in quella lingua: a differenza di pochissimi autori della storia della letteratura, per es. Joyce (altra passione di Eco, per sua e nostra fortuna). Ma a questa obiezione non si è risposto in alcun modo.
Sascha, sono due problemi distinti.
Da una parte i maggiori siti informativi di fantasy fanno pessima informazione: l’ho scritto e lo ribadisco. E nella maggior parte dei casi, appunto, non aprono a testi confratelli. Lei cita Kubin, io ho citato Murakami, ma potremmo andare avanti a oltranza.
Questo è vero è grave.
Ma da qui a generalizzare ce ne corre. Dire “i lettori di fantasy” è come dire “i lettori di mainstream”. Non ha senso.
Così come è molto poco sensato dire che fantasy equivalga a pulizia etnica della fantasia. Significa, perdono, non conoscere che alcuni frammenti della lettura fantastica.
Ursula K.Le Guin, per fare un solo nome (mi risparmi la lista) è pulizia etnica della fantasia? Davvero, siamo nell’insensato.
Quanto ad Arbasino: in quale lingua devo ripetere che ho usato il medesimo a solo scopo esemplificativo e paradossale? 🙂
Ps. Sulla lingua di Tolkien: senza l’invenzione dell’elfico non ci sarebbe stato ISDA, che, anche se non è stato scritto in elfico, si fonda proprio su un linguaggio che sta svanendo. Un linguaggio, e dunque un mondo.
@ Sascha
Ha centrato i termini del problema. La comunità dei “fans” si definisce e si determina in quanto, da “fanatica” di un genere, non si azzarda a evaderne per osare leggere i testi “alti” che, per temi o struttura o altro (perfetto l’esempio da lei scelto, libro “fantastico” e libro… fantastico se ce n’è uno), sembrerebbero essere perfetti per attrarli, così trascinandoli fuori dai limiti che si sono imposti. Se, come hanno scritto “valeria” e Lara Manni, si leggono tanto autori fantasy che King e Joyce, ebbene la conclusione è semplicemente che non si è “fans”.
Una postillina cui sono patologicamente sensibile: non è affatto vero che Arbasino non sia snob. E’ invero la quintessenza dello snob – non a caso “Il Foglio” strravede per lui – cioè, ripeto, dell’atteggiamento dell’aristocratico che si compiace a trovare tevvibilmente chic l’atteggiamento sbracato del sottoproletario, il suo aspetto tevvibilmente casual, il suo linguaggio tevvibilmente incolto. E’ quanto Arbasino (oltre a molto altro, s’intende, sul piano letterario ben più attraente) trasmette ai suoi principali allievi delle generazioni seguenti: Tondelli, Busi e Siti. Non è un caso ovviamente che siano tutti autori omosessuali: in loro, chi più chi meno, lo snobismo produce la variante della sensibilità che Susan Sontag descrisse, già negli anni Sessanta, col termine “camp”.
Potrei chiedere a Lara Manni (nomino lei in quanto ha parlato lei per prima dell’esistenza di interventi critici di un certo spessore da parte dei fan quindi presumo riesca ad aiutarmi meglio di altri in quanto ha affermato di conoscerne, ma è domanda rivolta a chiunque) di indicarmi una decina di siti di fan italiani (fatta esclusione di Gamberi Fantasy, che già conosco) dove avvengono puntualmente e costantemente interventi critici di qualità sul fantasy? Se possibile con nomi e link a qualche recensione o saggio? E ovviamente fatta esclusione dei soliti quattro nomi (Tolkien, Rowling, King, Mieville) e con uno sguardo alla produzione fantasy più recente, diciamo dell’ultimo decennio.
E, ancora, privi del solito approccio lunga sinossi + aneddoti + qualche dato tecnico ed encomio finale ma che osino analisi critiche dettagliate e approfondite?
Chiedo questo (non petita, lo so, ma il clima la impone, credo) non per provocazione o malizia ma in quanto profondamente interessato a un qualche tipo di mappatura della critica da parte dei fan del fantastico.
Ringrazio fin d’ora.
Intervengo controvoglia, perchè negli ultimi commenti ho avuto la conferma di quello che invece è stato smentito più volte: io ho la sensazione, cioè, che si voglia rendere più profondo il fossato fra “noi” e “voi”.
Noi lettori e scrittori di fantasy idrocefali (quoto GL sulla volgarità dell’uso di questo termine), complici della pulizia etnica della fantasia, portatori di superiorità morale (quale?).
E il voi dei lettori e scrittori non di genere emarginati…da noi. Ci sarebbe da mettersi a ridere se la situazione non fosse disperante.
Anche perchè, lo dico ancora una volta, questa discussione parte da un assunto sbagliato: ovvero, che chi legge fantasy non legge altro. Che la comunità dei fan, come scrive Cortellessa, non si azzarda ad evadere per leggere testi di spessore.
Davanti a tanta certezza, non si sa bene suffragata da quali argomenti, mi rendo conto che il fossato fa comodo. Fa comodo come alibi: per quegli scrittori o lettori che trovano la giustificazione per una propria personale frustrazione. Eh, ma come faccio a farmi strada nel mondo se ci sono i monnezzoni? Eh, ma gli adolescenti sono idrocefali lucchettomani, come vuoi che capiscano la mia arte? Eh, il mondo va a rotoli: per forza, non leggono Kubin.
Comunque, rispondo per come posso a Saru Man: che so già di deludere, perchè il tipo di richiesta che mi fa presuppone un “canone” che non sempre viene messo in pratica dai fan (Cortellessa, io sono una fan: anche se non secondo la SUA idea, che, mi permetta, non corrisponde alla realtà, bensì alla sua adesione filologica al termine “fanatic”).
Segnalo, a costo di essere accusata di chissà quale cospirazione, i due blog di Dimitri e D’Andrea, dove le discussioni sul fantastico sono più che frequenti e interessanti:
http://francescodimitri.wordpress.com/
http://wunderkindtrilogy.blogspot.com/
Segnalo, anche se Saru Man lo conosce, Gamberi Fantasy. E vorrei invitare a fare un paragone fra gli argomenti e il linguaggio usati da Alessandro Ansuini e compagnia e questo post sul sense of wonder.
http://fantasy.gamberi.org/2009/12/22/il-senso-del-meraviglioso/
Inoltre, siti e blog in italiano:
http://bookandsorcery.iobloggo.com/
http://www.steamfantasy.it/blog/category/steampunk/
http://latorredivetro.altervista.org/
Inoltre, il gruppo di aNobii sul fantasy: ovviamente non tutte le discussioni sono di alto livello. Ci sono anche thread autopromozionali, notifiche degli autori che vanno a presentare il libro al mercatino di Natale e roba così. Ma ci sono anche fior di discussioni.
http://www.anobii.com/groups/015c19eae3bfcdff8b/
E poi vorrei fornire un piccolo esempio sul fandom.
Io ho cominciato a scrivere su Efp. Efp è un sito di fan fiction: autori di storie tratte da altre storie. Fan attivi (chi è che ha detto che la Rowling scrive libri “passivi” troverà che il suo fandom è fra i più numerosi).
Nel forum, i fan parlano di tecniche di scrittura. Certamente lo fanno in modo in molti casi ingenuo, visto che l’età è bassa, e siamo di media fra i 15 e i 20 anni. Però vi inviterei a dargli un’occhiata lo stesso. Non ci sarà l’analisi critica “dettagliata e approfondita”, ma almeno in alcuni casi ci sono riflessioni molto più interessanti, umili e pertinenti di un paio di commenti letti qui.
Questo il link:
http://freeforumzone.leonardo.it/forum.aspx?f=4642
Gentile Loredana, ti chiedo uno sforzo di pazienza e di rileggere il mio post dove parlo di “letteratura eterna che sogna l’adolescente che scrive poesie”. Forse non mi sono spiegato, ma
1) non trovo nulla di negativo nell’adolescente e nell’adolescenziale, mi sembra una condizione eterna, a suo modo, una malattia incurabile se vuoi
2) quell’adolescente “che scrive poesie” e “sogna la letteratura eterna” mi fa tenerezza, ma forse sono io, o forse cortellessa, e potrebbero, dico potrebbero essere i lettori/scrittori del fantasy, ma IO NON L’HO DETTO! Anzi, figurati che nella mia intenzione originaria, quando ho scritto il post, intendevo dare dell’adolescente a chi, vivendo adolescenzialmente, come gli è inevitabile, la lettura di Rilke, Mann, e Musil, è in un certo senso MENO MATURO (e qui entra la terapeuticità del fandom) dei qui presenti fautori del fantasy. Insomma, non facciamo dell’adolescenza quel concetto negativo e commerciale che farebbe piacere a certi editori o scrittori che vanno per le spicce. L’adolescenza è una cosa seria, non trovi?
3) Sul fatto che il fantasy sia o non sia letteratura, la trovo questione dirimente dal punto di vista mediatico e, per così dire, per guadagnare un certo rispetto. Dal punto di vista della comprensione del fantasy stesso, non mi sembra aiuti. Comunque sì, Loredana, certo che è letteratura! Lovecraft, Poe, Tolkien, le autobiografie di Crowley, Swedenborg, Strindberg, e la Rowling, e il Parsifal di Wagner, tutto questo è fantasy e è letteratura, è arte, è patrimonio della creatività e dell’immaginazione umana, mai avuto dubbi.
4) Voglio dire ancora una cosa a Andrea circa il fatto che Tolkien inventa una lingua ma non non scrive un’opera in quella lingua. E’ evidente, Andrea, che per Tolkien la filologia fu una cosa seria, una passione autentica. Filologo fu, per formazione, Nietzsche, e mai gli passò per la testa, pur coniando neotermini a iosa – il più famoso è l’ubermensch – e avendo effettivamente usato spesso nei suoi libri termini e giri di parole assolutamente originari, coniati da lui, mai gli passò per la testa di *parlare o scrivere dall’interno di una lingua nuova*. I suoi libri sono scritti in buon tedesco, ma hanno sbalzi linguistici laddove il buon tedesco non è più sufficiente. Ora, mi pare che a questo caso, per capirlo, bisogna avvicinare J.R.R.T. Scriveva in buon inglese, partiva dal buon inglese, ma NEL buon inglese irrompeva un mondo dissepolto, di cui dunque è legittimo, come in Nietzsche, vedere squarci nella tessitura del buon Inglese. Il mondo dissepolto della terra di mezzo, com’è evidente. Se tu invece gli muovi l’obiezione che lui NON PARLA LA LINGUA DELLA TERRA DI MEZZO, non ne è intriso o non ha costruito un’opera linguisticamente scritta in runico o elfico o vattelappesca, togli l’elemento storico-esistenziale nonché dannatamente realistico di un filologo che parla alla moglie e ai colleghi in buon inglese e, al contempo, nel suo lavoro, scopre e disseppelisce strati linguistici. Togli insomma il piano filologico tout court, e pretendi che Tolkien non sia un indagatore simulato di miti (simulato perché mentre li indaga li fa – non ne è fatto, come Joyce, ma perché questo dovrebbe essere un minus rispetto all’Irlandese?) ma un ennesimo glossolalico Autorone – a me piacciono, sia chiaro! Giù le mani da Joyce! – che però lui non è. Il lavoro sul mito, in altre parole, mi sembra perfettamente legittimo anche così come lo conduce J.R.R.T., descrivendo per così dire il movimento del mito a partire da una presunzione di esterna civilizzazione, borghese, normale quanto vuoi, l’inghilterrina dei college oxoniensi, quel milieu esaltato e flaccido lì. Ma vuoi mettere quanto è interessante vedere come un simile ambiente sprofonda nell’adolescenziale – di nuovo, giù le mani dall’adolescenziale! – e fiabesco e numinoso mondo di Middle Earth? Cioè, non capisci che di nuovo, pretendendo complessità, ottieni in realtà semplificazione?
E questo, mi sembra il grande limite degli obiettori al Fantasy. In nome della complessità, del multistrato, dell’estraniazione plurilinguistica e pluriconcettuale, non vedono di inseguire solo il semplice Capolavorone così come codificato dalla storia letteraria. E lì secondo me ha tutte le ragioni del mondo Loredana quando dice che anche nel mainstream si ripropongono perfettamente tutte le dinamiche deteriori dei presunti brufolosi che leggono monnezzoni.
Ottimi punti di partenza, grazie Lara, ora comincio a leggerli.
Allora, Giordano. L’argomento che Il signore degli anelli non è scritto in Elfico l’ho usato per rispondere a Lipperini e altri che, di contro a un’obiezione circa la scarsa profondità “plurilinguistica e pluriconcettuale” di J.R.R., sono insorti con l’argomento “ma come! ha persino inventato e descritto una lingua!”. Allorché io ho risposto, appunto, che è tipico dei goliardi nutriti a mito e filologia, quale era il professore di Oxford, inventarsi interi continenti, intere popolazioni e anche intere lingue; ma che questo non depone a favore dell’ipotesi di una loro presunta profondità linguistica o concettuale. E’ evidente che non pretendo che un autore originale scriva il suo “Capolavorone” in una lingua inventata; Musil, per citare il mio di feticcio, non s’è neppure sognato di fare una cosa del genere; anzi a mio modo di vedere l’unico che l’abbia fatta davvero è Joyce nel Finnegans Wake, opera sua estrema e che non tutti noi “fans” più o meno brufolosi dei “Capolavoroni” siamo neppure disposti ad accettare. Io per dire non l’ho mai letto tutto, anche perché sono ancora in attesa che Mondadori ponga a termine la pubblicazione, rimasta ferma al terzo volume Oscar, dell’edizione commentata a cura di Luigi Schenoni, il quale – attendendo i comodi del megaeditore evidentemente megapreoccupato dalle microvendite dei volumi precedenti – l’anno scorso è pure morto (e nessuno l’ha ricordato). Per inciso: quando Landolfi prende la parola, nel racconto che dà il titolo al suo primo libro, Dialogo dei massimi sistemi, comincia proprio con l’irridere questaconcezione, diciamo “massimalista”, della letteratura (ce l’aveva senz’altro coi poeti “transmentali” come Chlebnikov, e non con Joyce, ma le cose – acutissime – che sostiene lì sono anche la migliore critica possibile, a mio modo di vedere, al Finnegans Wake). Ecco, questo tipo di incertezze e relativismi sono quelle che distinguono noi “fans” dei Capolavoroni – che dunque “fans” non siamo, mi spiace deluderti – dai “fans” degli Anelli e dei Maghetti. Persino l’autore dei Capolavoroni per antonomasia magari, si è pronti ad ammettere o quanto meno a discutere, può aver esagerato – una volta (quandoque bonus Homerus ecc.). Ora, non c’è alcun dubbio che anche tra gli accademici studiosi di poemi eroicomici del XV secolo, o di romanzi epistolari del XVIII, o appunto di “miti norreni”, abbondino gli eterni adolescenti, più o meno metaforicamente brufolosi; ecco, per come l’ho conosciuto attraverso i suoi scritti, J.R.R. Tolkien era per l’appunto uno di loro. E chi lo venera si riconosce in questo suo fervore (L’autore del secolo!, strilla infatti). Né nego di aver attraversato a mia volta una fase assai brufolosa (solo metaforicamente, per fortuna) quando leggevo “solo”, o quasi, fantascienza (ti rinvio al commento del 22 dicembre delle 3.24, diomio da quando stiamo qui!, roba da “fans” appunto!); sicché certe dinamiche affettive, che ho definito “identitarie”, credo di conoscerle perfettamente in quanto le ho coltivate anch’io dall’interno. Ma posso rivendicare pure di averle superate, col tempo, passata l’adolescenza cronologica e quella mentale, o sentimentale. C’era una pianta, molto alta e assai invitante per i grappoli d’uva che splendevano sui suoi tralci; e come la volpe del mito (e della sua transvalutazione blògghica) per anni l’ho disprezzata perché costava fatica, con tutta evidenza, arrampicarcisi sopra; poi ho visto che c’erano delle scale, che si potevano usare, e gradino dopo gradino ci sono salito, sulla pianta. E poi ho visto che la pianta era ancora più alta di quanto apparisse da sotto; e ho capito che nessuna scala porta in cima, perché la cima non c’è o è dappertutto; e poi da lì mi sono accorto che tutt’intorno in realtà c’erano moltissime altre piante, e che non ce l’avrei mai fatta ad arrampicarmi sopra a tutte. Ma questo non ha comportato che segassi i piedi della scala, o peggio che dicessi che era ora di segare tutte le piante più alte del mio naso.
A me Joyce mi fa due palle così. Sincero.
Però leggo molto al di fuori del ‘genere’ (e in linea di massima il genere è come il razzismo, è una cosa di cui tutti accusano gli altri). E capisco come Joyce possa piacere. Tutti i gusti son gusti. Capisco come possa piacere Pulsatilla, capisco come possa piacere Joyce.
Quella dei lettori di genere che leggono solo genere è una balla. Fine.
Cioè detto, rivendico il diritto di leggere genere e solo genere, se a uno va. Come rivendico quello di giocare a pallone e non leggere mai. Credere che la lettura di per sè (sia di genere o altro) sia un atto salvifico, credere che serva a ‘elevare’ in qualche modo lo spirito, vuol dire avere una visione dell’essere umano povera, brutta e talmente determinata dal punto di vista storico da mettermi i brividi – riduce il pensiero a pensiero tipografico, la conoscenza del mondo alla mediazione della parola scritta. La scienza a scientismo, la magia a superstizione. Robaccia.
Conosco esperti di videogiochi che hanno una visione del mondo molto più interessante di amici che leggono fiumane di libri, di genere o d’altro che siano. Una delle persone più interessanti e in gamba che abbia mai conosciuto è un soldato che avrà letto tre libri, tutti prestati da me.
Io vado molto oltre il difendere il ‘genere’, qualsiasi cosa questa parola significhi. Io difendo la non-lettura. Io difendo il piacere in ogni forma. E difendo la conoscenza che viene dal sesso e dal cibo e dal sudore, oltre a (e allo stesso piano di) quella che viene dalla poltrona e dal sigaro.
E vado contro ogni mio interesse di scrittore, nel dirlo. La mia via è quella di leggere e scrivere. Questo mi piace, questo mi aiuta a costruire la realtà. La mia. Via. Altre sono diverse.
Solo finchè saremo tornati a questo principio, forse, a leggere in Italia si tornerà davvero.
Certo. Tutti i gusti son gusti. Infatti non si capisce davvero di cosa stiamo discutendo. Grazie a tutti per la (mal riposta) attenzione, e di nuovo buona fortuna e buon divertimento.
Cortellessa: non svilire quel che dico. Non ho detto (soltanto) che tutti i gusti son gusti. Ho negato l’esistenza di alcune categorie su cui il discorso si basa, che è diverso. Ma su una cosa mi pare siamo d’accordo fin dall’inizio – una base comune per discutere non c’è. La qual cosa, mi pare, non dispiace a nessuno dei due.
@Giordano, d’accordo, ora è più chiaro.
@Andrea. Torniamo sempre allo stesso punto: identifichi la condizione del fan o dell’appassionato con una condizione transitoria o comunque da superare per arrivare ad una condizione che si ritiene più elevata. Non credo che io o altri possano dire nulla che possa convincerti che non è così. Pazienza. A ognuno la sua pianta.
Peccato.
“Così come Ellis s’è nutrito di King, nonché di tutti gli autori snocciolati da Gorlier. Piaccia o meno ai fans di Ellis.”
Andrea questa affermazione è una vaccata.
Arrogarsi il diritto di sapere chi ha influenzato la scrittura di un autore è, semplicemente, arrogante.
Un autore potrebbe aver letto, e sicuramente l’ha fatto, opere fondamentali, ma non è detto che queste opere abbiano influenzato la sua scrittura.
Nel caso particolare di Ellis è stato chiaro, me l’ha ribadito anche dopo l’incontro.
Si può leggere senza nutrirsi e visto che, generalmente, un autore divora libri, il suo “nutrimento” lo seleziona attentamente.
Tempo fa Chuck Palahniuk mi disse: “Non capisco perchè continuano a dire che la mia opera è stata influenzata da Bret Easton Ellis…. (non dirò cosa disse di Ellis) Io ho iniziato a scrivere perchè lessi La ragazza dai capelli strani di Wallace.”
Avrei potuto ribadire, ma arrogarmi il diritto di saperlo meglio di lui mi sembrava una tantinello troppo.
Buongiorno. Dunque adesso non basta averne letto uno di libro della rowling per capire come scrive, mi devo leggere tutta la saga. declino gentilmente l’invito, che se poi non mi piace mi dite che devo leggermi tutti i libri di fantasy che avete citato. ripeto, non mi piace il genere. facciof atica con tutta la narratica a dire il vero, ma questo è un problema mio. avevo cercato di dire un’ovvietà, tipo la realtà sta nel mezzo, potevo tenermelo per me dite voi, che avete l’ansia di scavare un fossato, e forse avete ragione. G.L. spero che quest’intento pedagogico del fantasy che svelerebbe ai giovani quanto e come sono manipolati sortisca gli effetti che tu auspichi. mi permetto di dire che mi sembra una versione molto ottimista però. soprattutto se in antagonismo mi citi solo la letteratura mainstream. però se ci riesci applica il metodo anche agli adulti 😉
Loredana, mi scusi se mi permetto di chiamarla per nome, mi pare di aver scritto, seppure in romanesco, che riconosco anche io che i giovani sono capaci di fare dieci cose insieme, ma che forse faticano moltissimo ad andare in profondità. questa nuova qualità, a mio modesto avviso, li rende più permeabili al marketing asfissiante, nonostante siano in grado di fare diverse cose insieme, ripeto. magari mi sbaglio. in fondo il saggetto di baricco osservava come si comportano, non ragionava sul cosa potrebbe comportare questo. che in estrema sintesi è quello che ho appena espresso. la parola deficienti l’ho usata male, lo ammetto. mi divertiva calcare la mano in quel frangente. infine, mi spiace dire che l’ulisse l’ho letto, con nabokoviana cartina di dublino alla mano, così come ho letto il signore degli anelli perché mi sembrava ne valesse la pena, con tolkiniana cartina della terra di mezzo a mano. guarda a volte le coincidenze, si parla di due libri che richiedono un attenzione geografica. però ho visto che adesso la critica vorrebbe che dopo aver inventato una lingua tolkien avesse scritto anche tutto il libro in quella lingua. difficile, ci sono anche umani nel libro, magari non avrebbero capito l’elfico 😉
buona giornata a tutti.
Una precisazione sui miei consigli bibliografici, per chiunque (critico o non critico letterario) fosse eventualmente interessato.
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1) Tom Shippey, “J.R.R. Tolkien, autore del secolo” (senza articolo, please), Simonelli 2004.
Shippey è un fan di Tolkien, senz’altro. E’ perfino peggio: è suo discepolo in senso professionale, perché è professore di filologia e letteratura anglosassone e ha provato a tenere in vita il programma didattico ideato da Tolkien quando insegnava. Shippey ha frequentato le stesse scuole e le stesse università di Tolkien, ricoprendo le stesse cattedre. Nessuno più di lui è in grado di sviscerare dall’interno la narrativa e la saggistica di Tolkien, identificando i processi creativi che l’hanno prodotta. Il titolo che suona tanto roboante riassume semplicemente la tesi del libro: e cioè che Tolkien dovrebbe essere considerato un grande autore del XX secolo al pari dei suoi contemporanei che già vengono ritenuti tali. Il saggio argomenta questo. Ci sono molti riferimenti anche alla lingua usata da Tolkien, il buon inglese medio, nel quale vengono fatti filtrare termini insoliti, mai casuali e sempre foneticamente significativi, evocativi, dissepolti da strati liguistici profondi – come ricorda il generoso Tedoldi – e fatti collidere/convivere appunto con una lingua accessibile, popolare. In altre parole il saggio sostiene che nella narrativa di Tolkien il lavoro sulla lingua c’è, si sente (soprattutto se si legge a voce) ed è certosino, ma rimane sottopelle alla scrittura. Bisogna andarselo a cercare.
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2) H. Jenkins, “Cultura Convergente”, Apogeo 2007.
Jenkins è un fan di Star Trek. Ed è anche un docente al MIT di Boston. Il suo libro racconta molti episodi che di per sé bastano a smentire i luogo comune più volte ripetuto in questa sede a proposito della passività dei fan. La fan culture è anche comunità, partecipazione, azione collettiva non necessariamente settaria o escludente, ma al contrario che tramite l’interesse per un prodotto narrativo/culturale produce interazione con il mondo, oltre ovviamente a espandere l’interesse per la narrazione stessa. Al di là che si condividano o meno le tesi sostenute dall’autore, credo che sia una lettura consigliata rispetto all’accezione che ci si accanisce ad attribuire al termine “fan”. Leggere per credere.
Alessandro: tanto per intenderci. Non ho detto agli adolescenti. E non ho parlato di antagonismi. Ho un sacco di pregi: non quello di far tornare l’udito ai sordi. Metaforicamente parlando.
Riassumo, prendendo gli esempi dalla fantascienza, il ‘genere’ che mi è più familiare.
Mi sono regalato per Natale l’Antologia del Giornalismo italiano dei Meridiani e, nel terzo volume, ho trovato una chicca: una recensione di 1984 assolutamente entusiastica di Benedetto Croce, pubblicata sul Mondo nel 1949.
L’entusiasmo è soprattutto politico ma Croce del romanzo dice solo bene e l’ambientazione futurista non gli da il minimo fastidio, anzi la ritiene del tutto adeguata.
Don Benedetto non era un lettore facile: probabilmente se si fosse trovato fra le mani qualche capolavoro di Van Vogt, Heinlen o Lester Del Rey il suo giudizio non sarebbe stato benevolo. Ma l’ambientazione fantascientifica di Orwell non gli procura problemi come non gliene avevano procurato i romanzi di H.G.Wells.
E’ un fatto che, paragonati a 1984, Slan, Fanteria dello Spazio e l’Undicesimo Comandamento non fanno una gran figura.
La fantascienza di ‘genere’, quella pubblicata da Urania, è solo una sottosezione della più vasta categoria della letteratura speculativa ambientata nel futuro che nasce alla fine del Settecento e, quando nascono le riviste americane degli anni Venti e Trenta, ha già una lunga tradizione con migliaia di titoli in molte lingue diverse.
H.G.Wells non scriveva fantascienza nel senso di Astounding e Galaxy o Amazing Stories: scriveva romanzi ambientati nel futuro o ispirati a scoperte e teorie scientifiche che erano considerati letteratura e basta e nello stesso senso scrissero storie simili scrittori insospettabili come Conrad e Forster e Chesterton e Shaw e London e Huxley (tanto per rimanere nell’ambiente anglosassone: ma vorrei citare almeno Anatole France).
La fantascienza di ‘genere’ è la costruzione di un ghetto per autori minori ed un pubblico, almeno in principio, adolescenziale. Definire Wells un precursore di Asimov o Jack Williamson o Pohl è una specie d’insulto mascherato da complimento: Wells è di gran lunga superiore allo scrittore di SF medio, che al massimo può vantarsi d’essere un epigono. Basta leggere i romanzi d’anteguerra di un eccentrico come Olaf Stapledon per scoprire da dove gli autori ‘di genere’ hanno tirato fuori idee per almeno qualche decennio.
Insomma, la fantascienza comunemente intesa è un’imitazione che si fa passare per l’originale o, meglio, un sottogenere che usurpa l’intero genere. Più che altro serve per proteggere opere mediocri da una concorrenza imbarazzante: provate a leggere 1984 e poi di seguito Farenheit 451 o Straniero in Terra Straniera e ditemi.
(idem: provate a confrontare Georges Simenon con Agatha Christie o Raymond Chandler o Ellery Queen…)
On the other hand, il ghetto ha fatto sì che certi scrittori di enorme talento si siano consumati nei confini del genere, scrivendo comunque cose ben più interessanti, profonde e divertenti di scrittori mainstream e ‘seri’: mille volte meglio Alfred Bester e Fritz Leiber e John Brunner di [inserire nome di autore serio oggi dimenticato]. Come pure che certi tentativi fantascientifici di autori importanti non siano riuscitissimi: Gli Eredi, di Conrad e Ford Madox Ford, non è poi granchè (e impietosamente, 3012 di Sebastiano Vassalli è incredibilmente brutto).
Oggi se ci sono delle preclusioni sono quelle dei ‘fans’: nessuno ha fatto problemi nel considerare scrittori e basta autori nati col ‘genere’ come Ballard, Priest, Banks, Vonnegut o le proposte fantascientifiche di Margaret Atwood o Philip Roth (e che dire del più bel romanzo italiano di fantascienza, Lo Smeraldo, di Mario Soldati? e Morselli? e Avoledo?). Quando i fans prendono atto di questi romanzi (più o meno riusciti, ovvio) lo fanno nello spirito di chi ha vinto una battaglia per il riconoscimento o, adirittura, in quello di chi accetta la resa di un avversario. La verità è, come ho detto, che la narrativa di speculazione è più vasta e più antica di quella di ‘genere’, cioè di quella che può essere pubblicata su Astounding o Galaxy…
Mmmhhh, ho scritto tutto di getto e non so se sono stato chiarissimo ma adesso devo uscire e se ne riparlerà domani…