IL SENSO DELLA FINE: MARIANNA CRASTO E LAURA PUGNO

Sono in corsa, dunque per oggi posto la rubrica uscita a maggio per Linus. Sempre di fantastico si parla, eh.

Come cambia la fine del mondo, o meglio, come cambia il modo di raccontarla? Mi capita fra le mani un bell’esordio, Il senso della fine di Marianna Crasto (lo pubblica effequ), e per associazione mi torna in mente il romanzo con cui Laura Pugno si dedicò alla prosa, Sirene. Il libro è del 2007 e nel frattempo, alla fine del 2022, Pugno è tornata alle creature marine con Melusina, che è invece uscito per Hacca con le straordinarie illustrazioni di Elisa Seitzinger, e ancora una volta racconta di ibridi e di mutazioni, recuperando e rivisitando il mito.
Torno intanto a Sirene, perché a mia memoria è uno degli esempi più riusciti di post-apocalittico italiano: oggi è forse più facile, visto che la catastrofe è già presente, ma allora all’emergenza climatica si pensava con distrazione, e quando la si raccontava non si riusciva che raramente a uscire dal didascalico. Il mondo di Sirene era votato ad una morte terribile (il cancro nero, che brucia la pelle e con l’approssimarsi della fine la rende candida come i petali di un fiore). Ma prima dell’apocalisse quel mondo – il nostro – viene visitato da esseri mitologici come le sirene, i quali vengono catturati, sottomessi e destinati ai piaceri carnali della nutrizione e dell’accoppiamento. Anche se sono, nei fatti, gli unici a poter sopravvivere.
Pugno è stata fra le prime a “trattare il mito a mani nude”, come raccontava, in tempi di grande diffidenza italiana verso la possibilità di deviare dalle porte strettissime del realismo. Lo aveva fatto procedendo alla straniazione dal mito stesso, ambientando la storia in una specie di California con forte presenza orientale, e riducendo le sirene stesse a feticci viventi e a bestie di allevamento. Che mantenevano però il loro potere e il loro fascino. In un saggio scritto con Maurizio Bettini e dedicato proprio al mito delle sirene, Luigi Spina scrive che le medesime “sono la voce che rimane sola a regolare le sfere del cosmo, la voce che ricorda la vita – il fascino di ciò che si desidera, nel regno della morte, la voce di quel momento in cui qualcosa che c’era può non esserci più, o c’è in altra forma: la voce delle metamorfosi, appunto”.
Nel romanzo di Pugno le sirene cantano, ma l’uomo non può sentirle. Anche perché compaiono quando il futuro sta per scomparire. L’umanità è già stata messa in crisi, poi decimata, infine condannata all’estinzione dal cancro nero dovuto al disastro ecologico: è il tema dei temi, in questo momento. Una data di scadenza che, fino a non molto tempo fa, si immaginava legata solo all’atomica.
Marianna Crasto, invece, dà alla scadenza stessa un tempo preciso: un anno. Un bel giorno di febbraio, il 29 per essere precisi, l’annuncio viene dato da un giornalista televisivo dalle belle cravatte. Un anno e non di più per portare al suo apice il surriscaldamento terrestre: “nel giro di pochi mesi ci sarebbe stato caldo, poi ancora più caldo, e poi non ce l’avrebbe fatta più: parlava della Terra come se fosse stanca”. Il mondo sarebbe andato a svanire così, con un soffio di aria bollente e una luce bianchissima. La cronaca della fine viene affidata, però, a una creatura lontanissima dal mito: è una commessa del centro commerciale Magna Grecia, in una delle periferie napoletane: la voce narrante non solo ne conosce ogni dettaglio, posti macchina del parcheggio inclusi, ma lo considera una certezza, il punto fermo cui ancorarsi per non pensare a che, sì, alla fine si morirà tutti. Dunque lo esplora con Google Maps, ripercorrendo con il mouse la strada che ogni mattina la porta sul luogo di lavoro, proprio perché la conoscenza e l’orientamento non si perdano con lo scorrere dei giorni. Il Magna Grecia non può morire, sembra essere l’idea: non finché esiste Viale Paestum, la galleria di negozi che costeggia le casse, o Viale Oplontis, la galleria parallela, o le colonne doriche in gesso, o i timpani “affollati di generiche divinità e pampini”.
Va tutto bene se è possibile scandire le giornate, prepararsi pasti che variano appena a ogni giorno della settimana (insalata di farro o di lenticchie, panino con la bresaola), rispettare il rito degli spogliatoi e dell’apertura delle casse del supermercato. Andrebbe tutto bene, anzi, se non ci fosse il commesso di uno dei negozi, DolceKasa, che cerca in tutti i modi di creare un legame con la protagonista, o almeno di convincerla a guardare insieme L’uomo dei sogni, la trasmissione televisiva dove gli esseri umani si riversano a raccontare i loro mondi onirici. Il corteggiamento resta il nodo centrale mentre dagli schermi si apprende del mondo che crolla. L’evacuazione di Venezia, per esempio, con gli edifici quasi completamente immersi nell’acqua. In Colombia scavano fosse comuni grandi come tre campi da calcio per seppellire i suicidi.
Il ragazzo di DolceKasa insiste, e insisterà per tutto il romanzo, per guardare insieme l’orrore e aspettare la fine: Non voglio avere paura di guardare la tv, la sera. Allora magari vieni da me e ci guardiamo un film, no? E se succede qualcosa almeno siamo insieme e se invece succede quando non siamo insieme nel frattempo avremo addomesticato la reazione, non credi?”. La ragazza resiste, è meglio rimanere così, nella casa dove ha accumulato il maggior numero possibile di confezioni di tè al punto di farne tavolinetti, mentre i genitori hanno deciso di trascorrere quell’ultimo anno in crociera, con le musiche allegre, i balli, il buon cibo e i bermuda, perché che altro resta da fare, in fondo? “Che senso ha stare dietro una cassa se tanto poi moriamo?”.
Ecco, il romanzo è proprio la ricerca del senso, che però infine non è nell’ostinazione delle ripetizioni, nel Magna Grecia, nel giornalista televisivo, soprannominato Tito Stagno perché, a modo suo, ha dato la notizia di un altro, l’ultimo, passo dell’umanità. Perché infine tutto, anche dolcemente, si sfalda. Il vivaio attivo dal 1963 che chiude. L’assalto al supermercato. I terremoti, sempre più frequenti e più forti. L’Antartide senza neve, come un biscotto. E poi il caldo anche a Natale, fino al vento torrido della fine. Ma il senso è nella nascita di una complicata, insensata storia d’amore, che è destinata a finire, come tutto, eppure, anche respinta con protervia e con rabbia, riesce a fiorire proprio quando sembrava che non fosse possibile. “Vivono tutti, solo tu hai voluto smettere”, dice il ragazzo di DolceKasa che non ha un nome, come non ce l’ha la protagonista. Perché si può vivere, abbracciarsi, desiderare, persino sperare anche quando il mondo si affloscia su se stesso, e questo, in una distopia che resta tale fino all’ultima frase, è già un senso, anzi, è addirittura già speranza.
E alla fine ho capito perché mi è tornato in mente Sirene di Laura Pugno: perché la musica che accompagna la percezione della fine è una canzone di Jimmy Soul,If you wanna be happy” nel finale del film Sirene, e la musica va mentre Cher, Winona Ryder e Christina Ricci ballano e apparecchiano la tavola, e magari ha ragione il ragazzo di DolceKasa, e ci sarà pure la possibilità di ballare ancora.

 

 

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