PERCHE’ IL FANTASTICO E’ UN CAMPO DI BATTAGLIA E IL PUNTO DI VISTA DI GHOSH (E MANZONI)

“È la contrapposizione netta fra “una” razionalità e un “irrazionalismo” ad essere errata: ce lo ricordava, fra i tanti, Primo Levi ne I sommersi e i salvati, stigmatizzando la nostra propensione verso le narrazioni storiche manichee. Ma non esiste “una” razionalità: come ogni cosa (a partire dalla soggettività e dalla natura), anche la razionalità è un campo di battaglia fra diversi razionalismi, alcuni dei quali strutturano quel campo avverso che chiamiamo ragione capitalistica o imperialistica. Non comprendere questo significa ricadere in certe teorie del disincanto, riedizione annacquata di un concetto weberiano già di per sé discutibile, che facendo coincidere ogni razionalità con una sola razionalità, fanno collassare tout court la razionalità col potere (a sua volta inteso come un monolito): col risultato di sdoganare in chiave “antagonista” ogni e qualsivoglia “irrazionalismo”.”

Leggere queste parole fa bene, soprattutto dopo la trentesima mail in cui si annunciano i romanzi dell’autunno con la dicitura “tratto da una storia vera”, come se questo sancisse la qualità del testo a prescindere. Il pensiero è di Girolamo De Michele, in un lungo articolo dal titolo Il fantastico è un campo di battaglia, che vi invito a leggere integralmente qui.

E se qualcuno crede ancora che insistere su questo punto sia una questione di trend editoriale o, peggio – molto peggio – di schieramento (omnia munda mundis, per essere in tema con quel che segue), legga ancora il brano che segue. Che chiama in causa Manzoni e Amitav Ghosh.

 

“Il lemma “guazzabuglio” ricorre tre sole volte nei Promessi Sposi: nel citato cap. X (aperto da una annotazione sulla debolezza dell’animo umano nei giovani, qual è Gertrude), dove dal descrivere le passioni del principe padre si allarga a quella di Gertrude e del suo esaminatore, generalizzando quel «così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano» che pare un sospiro dell’Autore; nel cap. XIV – «lasciando Renzo fare un guazzabuglio d’istanze e di rimproveri» –, dove rende lo straparlare e sragionare di Renzo offuscato dal vino; infine, in quella capitale pagina del cap. XXXIII – «Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso» – dov’è descritta quella che fu la vigna di Renzo abbandonata a se stessa per due anni, nella quale la natura si riprende il proprio spazio e si mostra, agli occhi di Manzoni, come un mostro polimorfo irriducibile ad ogni ordine e armonia. È la natura in sé, non antropizzata: non lo specchio dell’animo che è il paesaggio – dal ramo del lago di Como ai monti cui Lucia dà l’addio.

Se nella Lettera del ’23 “guazzabuglio” sembra essere il nome di quella figura della mitologia che è la “caccia selvaggia” – apparizione notturna di personaggi fantastici e animali che si rincorrono, foriera di sventura imminente –, e che Tasso, collocato non oltre, ma sul limite della normalizzazione del fantastico, nasconde con grande maestria nella descrizione della selva di Saron (Gerusalemme Liberata, XIII, 21); nei romanzo guazzabuglio fa segno, in ogni sua declinazione, al disordine spontaneo che deve essere governato dalla ragione: che si tratti della natura, del linguaggio, o delle passioni del cuore. Del gregge che necessita del pastore; o del vispo fanciullo del cap. XI, che governa un gregge di porcellini d’India (metafora dell’Autore che padroneggi ala sfuggente pluralità della trama e dei personaggi romanzeschi).

Nella descrizione della rovina di quel «poderetto che [Renzo] faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo», e che garantiva al buon massaio (quasi una prefigurazione dell’imprenditore di se stesso) una certa agiatezza a dispetto della crisi, Manzoni, che pure aveva orrore della schiavitù, si mostra un intellettuale europeo: per il quale la natura è materia inerte, che dev’essere governata e plasmata dalla razionalità occidentale. Che è ciò che Amitav Ghosh, nel suo pamphlet La maledizione della noce moscata, sbatte in faccia alla cultura occidentale con estrema durezza, rispetto al più “educato ma abbastanza duro” (così Wu Ming, nella bella conferenza in ricordo di Valerio Evangelisti) testo del 2016 La grande cecità: oltre alla riduzione in schiavitù delle popolazioni asiatiche e africane, allo sfruttamento capitalistico delle risorse naturali, al genocidio delle popolazioni indigene, gli europei hanno imposto la propria concezione moderna, razionalistica, della natura, su mondi e popoli che vedevano la natura – intesa sia come ambiente, sia come viventi non umani o più che umani – dotata di intenzione e coscienza, insomma animata, cioè dotata di anima. Sarà il caso di ricordare che Giordano Bruno l’ultimo grande pensatore, alle soglie della modernità, a sostenere il carattere animato della natura muore sul rogo in Campo de’ Fiori appena 21 anni prima dell’evento da cui prende le mosse il libro di Ghosh.

Perché gli europei fecero questo ai non europei? Perché, ci ricorda Ghosh, era il loro modo di fare. Perché sterminare indiscriminatamente era il loro modo di farsi la guerra, e come tale lo esportarono anche fuori dall’Europa. Lo aveva ricordato Montaigne, nel celebre (ma tutt’ora incompreso) capitolo sui selvaggi; e prima ancora lo aveva narrato Pulci, nel canto XXVII del Morgante maggiore, dove la descrizione del massacro di Saragozza, i cui abitanti sono sterminati «al fuoco e al taglio delle spade», sgozzati «alla franciosa» o arsi vivi – fino agli infanti arrostiti e mangiato a porchetta – dai soldati cristiani.

Si tratta allora non solo di liberare il fantastico dalle enclosures dei canoni letterari, ma di tornare a credere nel mondo magico e fantastico: di decolonizzare l’immaginario; di ri-affermare, facendo seguito a una celebre questione, che non solo i subalterni e le subalterne, ma che, «pur al cospetto di un’implacabile e apocalittica violenza», anche «i non umani possono e devono parlare».”

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