IL TEMPO DELLE CONTROCULTURE: PICCOLO MEMORIALE

In questi giorni sto consultando gli archivi in cerca di vecchi articoli scritti per Repubblica nella seconda metà degli anni Novanta. Ricordavo di essermi occupata a lungo di quella che veniva chiamata, ai tempi, controcultura, e che nei fatti era composta da una galassia di possibilità e scoperte che andava dai videogiochi ai rave, dai graffiti ai centri sociali, dalle posse a Internet. Erano gli anni in cui molti scrittori erano vicinissimi a quel mondo: ricordo un “Cannibal rave” a Venezia Poesia nel 1997, con inaugurazione di Umberto Eco e finale con i cosiddetti autori pulp che facevano il verso a se stessi nel “Cannibal Rave”, condotto con i dj della Fonderia Italghisa di Reggio Emilia (protagonista di un romanzo di Giuseppe Caliceti) e con, tra i vocalist, Niccolò Ammaniti, Rossana Campo, Stefano Raspini, Isabella Santacroce.
Per esempio, nel 1996, scrivevo questo:

“Bisogna ricordare Re Nudo: ma non per fargli assumere il ruolo, ormai insopportabile, di madeleine o di Nutella dell’ underground. Ma per capire come non sia assolutamente vero che l’ attenzione della controcultura alla comunicazione è un fenomeno recentissimo: è vero, invece, che quell’attenzione è diventata centrale. E che ha fatto cambiare pelle alla controcultura stessa. Dunque, Re Nudo – che Majid Valcarenghi proverà a rilanciare dal prossimo mese di ottobre – divenne nei primi anni Settanta “la” rivista della controcultura senza schiacciare le altre pubblicazioni, che anzi propagandava insieme ai dibattiti, ai luoghi, ai prodotti che andavano sotto l’ etichetta di “alternativo”. Bollava invece con l’ appellativo “la Triplice” non i tre sindacati confederali, ma i tre gruppi extraparlamentari che avevano ideato il termine. Nonché i loro giornali, che a loro volta si proponevano come alternativi alla stampa “ufficiale”. Per farla breve, esistevano almeno tre circuiti d’ informazione assolutamente non comunicanti fra loro. Veniamo al presente. Con due esempi fra i molti possibili: per un esponente di punta del cosiddetto neo-underground, Luther Blissett, non esistono distinzioni tra stampa borghese e stampa alternativa. Meglio: esistono differenze sul modo di informare e non sul veicolo. Perché se Luther ha una propria rivista, non disdegna affatto la grande stampa. Facendola implodere, magari, immettendosi dentro di essa come un virus: ma, in definitiva, usandola nel momento stesso in cui la combatte. Ancora: all’epoca di Re Nudo esistevano, come già detto, i luoghi della controcultura. I bar, le trattorie, i cinema, i teatri dove gestori e frequentatori erano accomunati dallo stesso credo, dagli stessi saperi e dallo stesso prefisso, “contro”. Oggi esistono, e sono diventati una realtà più che consolidata, i centri sociali: dove non sempre frequentatori e collettivi di gestione condividono i medesimi interessi. Anzi: la politica, o la pratica controculturale, riguardano strettamente i secondi. I primi, i cosiddetti users, varcano le soglie dei centri non per partecipare ma per consumare. Consumare rapporti sociali o musica, come in un qualsiasi ritrovo. Magari compiendo la trasgressione, spesso inconsapevole, di assistere ad un concerto dove non si pagherà la Siae, di bere una birra venduta senza licenza, di usare una droga leggera. Ma senza che dietro ci sia quella che vent’anni e passa orsono si chiamava motivazione, o disobbedienza civile. E’ notevole, e fa riflettere. E la riflessione ruota attorno all’ inevitabile domanda: esiste ancora l’ underground? E se la risposta è sì, va ancora inteso come l’ esatto rovescio della medaglia istituzionale, come il sottosuolo che si oppone a quello che c’ è sopra? L’ editore Castelvecchi fornisce un’ indicazione che coincide con il conio di una parola un po’ bastarda ma efficace: overground. Ovvero ciò che si vede, che esce allo scoperto, mescolandosi a ciò che ha trovato. Si chiama infatti Italia overground (pagg. 304, lire 20.000) la prima mappa della controcultura contemporanea curata da Sandrone Dazieri e pubblicata in questi giorni dallo stesso Castelvecchi: cinquecento nomi e indirizzi di luoghi, media, persone che frequentano o propongono saperi e linguaggi che un tempo si sarebbero definiti “altri”. E che oggi si diffondono insieme a tutto il resto, pur mantenendo una diversità rispetto a ciò che viaggia nello stesso flusso informativo. Perché, come dice Dazieri, non esiste più concorrenza tra ufficiale e alternativo. Esistono le contiguità, le contaminazioni: i locali alla moda rubano il look ai centri sociali, le corazzate editoriali si appropriano di autori e tematiche lanciati dalle case editrici di movimento, Bill Gates e il Subcomandante Marcos si intersecano su Internet. E William Burroughs pubblicizza le scarpe da ginnastica. Non è l’ apocalisse e non è neanche il migliore dei mondi possibili. Ma è molto, dopo il grande freddo, o il lungo sonno, seguiti alla fulminea frantumazione, nel 1979, dell’ underground “classico”.”

Tutto questo avveniva pre-social, certamente. Eoni sono passati, non anni. Ma ripercorrere quel tempo per capire aiuterebbe moltissimo a chi, oggi, ragiona esclusivamente per stereotipi assottigliati fino all’evanescenza.

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