INTERLUDIO DELL'ANGELO. ESSERE CARLO PALERMO, E CHIEDERSI PERCHE', CHIEDERSELO ANCORA, CHIEDERSELO SEMPRE.

Perché ci torno sempre, a quegli anni? Perché mi inchiodo tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, in quella che è solo una crepa, ma gli spifferi che si insinuano in quella crepa sono gelidi, è come in un racconto di Lovecraft, dove una semplice apertura si apre sulle geometrie impossibili che fanno impazzire gli umani.
Dunque, un sabato mattina, due giorni fa, Rai Storia trasmette un’inchiesta sulla strage di Pizzolungo. Qualcosa di molto lontano, 33 anni sono una vita in effetti. Eppure è qualcosa di non dimenticabile. Perché avviene per caso. Un’automobile ne sorpassa un’altra. In quel momento esplode l’autobomba destinata a chi sorpassa (la vettura che ha a bordo il giudice Carlo Palermo). Polverizza l’altra, quella di Barbara Rizzo e dei suoi bambini, i gemellini Salvatore e Giuseppe Asta. Più tardi, la sorella maggiore, bambina anche lei, sopravvissuta per puro caso, per uno di quei litigi in famiglia (mi fate fare tardi, voi piccoli, con i vostri litigi, vado a scuola con una vicina) passerà sul luogo che ha inghiottito la madre e i fratelli. Lo racconterà in un libro, Margherita, Sola con te in futuro aprile:
“c’è una buca enorme sull’asfalto, sembra sia esploso un vulcano. Sul muro bianco della villa davanti a noi c’è una macchia rossa. Non faccio neanche in tempo a vederla bene. “Papà, è sangue nostro questo?.””
Carlo Palermo. Che oggi ha in mano le indagini su Graziella De Palo. Carlo Palermo, che  prima di essere trasferito in Sicilia, indagava sul traffico d’armi in Medio Oriente e sul ruolo dei servizi segreti affiliati alla P2, in particolare su Giuseppe Santovito, che è lo stratega oscuro nella storia di Graziella. L’indagine venne tolta a Carlo Palermo per un esposto presentato da Bettino Craxi (lo stesso che apporrà il segreto di Stato sul caso Toni-De Palo). Il giudice decide di farsi trasferire alla procura di Trapani, dove le sue indagini si erano incrociate con quelle di Giangiacomo Ciaccio Montalto, ucciso nel 1983, tre settimane dopo aver raccontato a Palermo quel che sapeva sul traffico di armi e droga. A cinquanta giorni dal suo arrivo, il 2 aprile 1985, l’automobile guidata da Barbara Rizzo Asta supera la sua.
Carlo Palermo. Nel novembre del 1985 sta tornando a Roma, per lavorare al Ministero di Grazia e Giustizia. Sta male, come è ovvio che sia. Come accade ai sopravvissuti, come accade a chi non riesce  a dissolvere la cortina di vapore che lo stringe.
” il vuoto del mio nuovo lavoro, al Ministero di Grazia e Giu­stizia, accentuò sempre di più – invece che ridurla – la mia sensibilità per gli episodi vissuti. Poi, in qualche modo che per me suonò come un fatto impreve­dibile, mi accorsi che, anche dopo aver cessato di svolgere le funzioni giudiziarie, tante cose continuavano ad avvenire, intorno a me, con significati che si esprimevano solo in ragione di una contiguità con quanto mi era precedentemente accaduto. E così continuarono minacce, solo apparentemente senza senso; così continuarono conflittualità; anzi altre ne nacquero con impreve­dibile durezza.
Cercai nello studio una distrazione. Ma non la trovai.
In pochi anni errai da ufficio a ufficio, alla ricerca di qualcosa che non riuscivo a ritrovare. E cioè un mezzo per esprimere, in qual­che modo, in qualsiasi modo, il mio bisogno di continuare a svolgere una attività che presentasse un significato rispetto a quello che avevo precedentemente fatto. Ed, insieme, il mio bisogno, di pagare un de­bito. Quel debito che avevo maturato lì, in Sicilia, a Trapani, a Pizzolungo, nell’attentato subito il 2 aprile 1985, e che, lì, non ero stato in grado di saldare. Lasciai la magistratura nel 1990. E ciò fu la conseguenza, ultima, di qual­cosa che, con la strage e quanto ne era seguito, si era già prodotto dentro di me.
Ancora oggi, forse più che in passato, mi rendo conto di quanto sia difficile trovare quel che continuo a cercare e che nessuno ha mai nemmeno tentato… di iniziare a cercare.
Mi rendo anche conto che tante cose nelle quali mi ero imbattuto – forse in un modo sbagliato, o forse troppo in anticipo – , tante cose che avevo sfiorato, o anche solo pensato, sono frammenti della realtà di ieri e frammenti della realtà di oggi.
Tante cose che, con l’entusiasmo di un trentenne, avevo letto, stu­diato o intuito solo su carte processuali, oggi le vivo e le rivivo con la più realistica consapevolezza dei limiti che incontra l’autonomia del giudice quando sulla sua strada si imbatte nei centri del potere.
Fatti che si ripetono, episodi che solo dopo lunghissimi anni si chiariscono, nomi che ricompaiono. Fantasmi del passato e realtà pre­senti. Tra questi, ormai, si svolge la mia vita. Con difficoltà. Quella difficoltà di sentirsi troppo spesso impotente di fronte ad un sistema che ha le sue protezioni, le sue difese; un sistema che, se provi a sfiorarlo, prima ti isola, poi ti respinge, infine ti attacca, senza mezze misure. Spesso in modo indiretto. Attraverso fili sottili che non è facile scorgere. Ma che comunque, nello stesso tempo, lasciano sempre qualche traccia: talora ti frenano; altre volte ti stimolano a scoprirne altre; ti incitano, co­me in una partita a scacchi, a cambiare le mosse, a cercare nuove strade nella ricerca della verità e della giustizia.
Determinati fatti che ad anni di distanza hanno dato conferma a quelle indagini che non mi fu consentito di ultimare, l’as­sassinio di altri magistrati, i sempre più aspri conflitti tra potere po­litico e magistratura, nonostante il tempo trascorso e la mia, ormai, estraneità all’ordine giudiziario, mi bruciano dentro, riportandomi im­magini e sensazioni che avrei voluto, forse, un tempo, dimenticare, ma che ormai, evidentemente, costituiscono parte integrante di me”
Lo scrive su Facebook, Carlo Palermo. Inizia nel 2011, sono lunghe note su quanto è avvenuto, che passano inosservate. Le parole qui sopra riportate vengono dalla prima nota. Che si conclude così:
“Il 2 aprile 1985, a Pizzolungo.
Otto giorni prima che, in una sontuosa aula di un noto palazzo romano del Senato, avvenisse la discussione sulla mia denuncia contro il presidente del Consiglio in carica, Bettino Craxi, da taluno quasi “innominato” o “intangibile”, nelle conversazioni tratte dai resoconti ufficiali della discussione di quei giorni, vissuti da me in un lettino d’ospedale e da altri innocenti, che si erano trovati occasionalmente sulla mia strada, in una tomba.
Perché scegliere quel 2 aprile, proprio mentre a Roma la Commissione inquirente doveva decidere sulla richiesta di archiviazione della mia denuncia contro Craxi, e contemporaneamente, nel procedimento disciplinare pendente contro di me su esplicita richiesta del presidente del Consiglio? Perché scegliere cosí in fretta quel giorno?
La vita dell’uomo non vale almeno un perché?”

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