INTERLUDIO FANTASTICO: PERSEGUIRE UNA LINEA, TROVARE UNA LINGUA

“L’ispirazione sgorga da determinati luoghi, che in determinati istanti sono soglie attraverso cui scorgiamo l’invisibile, un substrato più profondo celato sotto le sembianze dell’ordinario. Lo scrittore è come un tramite, uno strumento che risuona e attraverso il quale la voce delle forze naturali acquisisce una verbalizzazione”.
“Mi muovo su una base filologica, ma ho perseguito una mia linea. Da un lato ho ripreso la tradizione delle streghe meridionali: fino al 700 la zona del bosco di Aus era considerata un luogo di streghe, che nei borghi rurali avevano un ruolo preciso. Attorno alla strega del paese, infatti, ruotava parte della vita sociale: era amata perché tutti andavano da lei per parlare con i morti, farsi proteggere, ottenere predizioni e fatture, ma era temutissima perché ambivalente. Da lei poteva provenire aiuto o rovina: dipende come volgeva lo sguardo, se benevolo o malevolo. Partendo dallo scenario di un’enclave meridionale, avevo già a disposizione il tipo di strega che mi serviva. La strega è poi un archetipo forte perché incarna il potere femminile, collegandosi a radici antropologiche: dai Women’s Studies americani è emerso che le donne meridionali sembrano non avere ruolo, ma in realtà hanno un ruolo persino superiore a quello maschile perché rinunciano alla prerogativa di essere libere, trovandosi incardinate all’interno di un sistema di rapporti gerarchici, in favore del potere, che è assoluto sulla famiglia. Dall’altro lato c’è la vera strega dovuta a La storia notturna di Carlo Ginzburg, un vaso positivo di Pandora dal quale proveniva persino l’idea dei Benandanti nella trilogia. È un saggio assolutamente magico, un generatore di storie, una miniera di spunti. Ho poi declinato la mia strega in maniera particolare, ho inventato con logica delle deviazioni rispetto alla figura classica. Non è solo una rivisitazione e nel mio piccolo ho aggiunto dei sassolini al costrutto, al grande castello edificato sul suo mito”.
Nel bosco di Aus, che ho cominciato nell’autunno 2009, si riallaccia alla trilogia nello stile di frasi brevi e contenute, seppur più aperte. È un’economia espressiva: non uso molti aggettivi e ho abolito le virgolette, scelta di campo fatta sulla scorta di autori come Cormac McCarthy o José Saramago, che hanno abbattuto le convenzioni desuete, soprattutto in punteggiatura. Le virgolette sono l’oggettivizzazione del discorso diretto, ma il criterio di realismo viene a cadere alla fine del secolo scorso, dove tutto è interpretazione, interpolazione. Con l’avvento del virtuale di massa ogni cosa non è la cosa in sé bensì come la rappresentiamo. Viviamo in una realtà totalmente manipolata, quindi totalmente immaginaria. Il narrare ininterrotto, paragonabile al flusso delle informazioni internettiane, è soggettivo. C’è però una differenza con la trilogia, che era un romanzo d’avventura. Nel bosco di Aus ha una struttura a suspence, a matrioska: ogni tassello ha degli echi interni, dentro ogni verità se ne racchiude un’altra. Nulla è ciò che sembra perché ogni persona, ambiente o evento ha una cifra doppia: tutto ciò che è bianco può trasformasi in nero. È un libro misteriosissimo, in cui dalla seconda metà in poi vi sono continui colpi di scena”.
Ho riportato tre stralci da questa intervista a Chiara Palazzolo per fare chiarezza su un punto. Ieri, su Facebook, rispondevo a Elvira Seminara che si chiedeva perché in Italia la letteratura fantastica non sia molto diffusa, nonostante l’enorme patrimonio culturale magico. Nella risposta, ricordavo molto brevemente come Chiara avesse lavorato esattamente su quel patrimonio, con l’attenzione della studiosa e la vocazione sperimentale della scrittrice che sulla lingua ha fondato il proprio lavoro. Sono stati molti i commenti che citavano altri autori che ambientano le loro storie in luoghi d’Italia e attingendo al patrimonio culturale del luogo. Ora, io non li ho letti tutti, ma rimedierò. Vorrei solo precisare che non basta il fondale, né la conoscenza delle leggende locali. Quella conoscenza va non solo studiata, ma reinterpretata dal profondo: Eraldo Baldini, per fare un solo nome, lo ha fatto fin dai tempi di Mal’aria. Ma Eraldo Baldini è un antropologo, e Chiara era una filologa. In altri termini, occorre un lavoro di studio e restituzione non piccolo, e non la sola ambientazione spazio-temporale. E occorre, occorrerebbe a ogni scrittore, un lavoro sulla lingua e la consapevolezza di quel che stiamo facendo davvero quando scriviamo. A chiosa, posto qui parte dell’intervista a Carlo Ginzburg uscita domenica su Robinson.
“La nostra storia è intessuta di magia, e dovremmo esserne consapevoli fin da quando è stato reso noto il racconto di un giovane bovaro friulano, Menichino da Latisana, processato nel 1591, che sosteneva di uscire in spirito con gli altri benandanti per combattere contro le streghe nel prato dei morti, colmo di rose. Viaggiare fra i mondi, abbandonare il corpo, volare, seguire demoni e divinità, o combatterli, sono elementi culturali, non solo letterari: e ci appartengono profondamente, come ha dimostrato un grande storico, Carlo Ginzburg, sia nel suo primo libro (I benandanti, appunto) sia in quel capolavoro che è Storia notturna, Una decifrazione del sabba, di recente ripubblicato da Adelphi con una nuova postfazione. Fu Ginzburg ad accostare il racconto dell’umile bovaro alle pratiche magiche degli sciamani siberiani, e il meccanismo che lo portò, ventisettenne, su quella pista, è ancora oggetto di riflessione da parte sua (riflessione che apparirà in un saggio intitolato Viaggiare in spirito, dal Friuli alla Siberia, incluso in un volume di prossima pubblicazione):
“Mi interesso molto – racconta – ai meccanismi della lettura, e ho ragionato sul me stesso di allora e di ora. Che cosa agiva in me quando, nel momento in cui mi sono imbattuto nell’interrogatorio di Menichino, ho subito pensato agli sciamani siberiani? La risposta è in quella che per me è stata una lettura fondamentale, Il mondo magico di Ernesto de Martino, che si apre con una lunghissima citazione da un altro libro, Il complesso psicomentale dei Tungus, scritto nel 1935 dall’etnografo russo Sergei Shirokogorov (il suo era un relativismo radicale: per lui, quello che gli studiosi occidentali chiamano scienza è folclore, quello che chiamano folclore è scienza). Al centro della sua ricerca c’è lo sdoppiamento, il reincontrarsi in spirito degli sciamani che è speculare a quello dei benandanti. Shirokogorov credeva nella realtà dei poteri magici, così come ci credeva De Martino. Io no”.
Ma ci credevano i benandanti e le donne che dicevano di andare di notte al seguito della Signora del gioco, di una divinità femminile. Diana?
Quella è l’interpretazione di chierici e inquisitori. Lo storico, a mio parere, deve seguire un’altra strada, ossia partire da quei passi dei processi in cui le risposte degli imputati, donne e uomini, non coincidevano con le aspettative degli inquisitori. E la distanza culturale tra gli uni e gli altri era profondissima. In Storia notturna racconto di una predica in cui, intorno alla metà del Quattrocento, il vescovo di Bressanone, il grande filosofo Niccolò Cusano, riconosce Diana nelle confessioni di due vecchie della Val di Fassa, che parlavano di una “buona signora”, che chiamavano Richella, madre della ricchezza e della buona sorte. Cusano cercò di convincerle che avevano solo sognato, ma non ci riuscì. La loro era un’estasi, un sogno ripetuto e modellato culturalmente, molto lontano dalla nostra idea di sogno”.
Come accadeva anche alle mistiche e alle sante, che pure spesso erano in grado di volare durante l’estasi?
Uno storico ungherese, Gábor Klaniczay, ha messo a confronto processi di stregoneria e processi di canonizzazione. Se fossi un inquisitore risponderei: il diavolo scimmiotta l’operato di Dio.
Ma come è possibile che un patrimonio come quello della nostra cultura contadina non si sia travasato, come è avvenuto in altri paesi, in una produzione sistematica di letteratura fantastica?
La risposta va cercata sul lato letterario. Gli sviluppi letterari di questi temi hanno trovato in Italia la stessa resistenza che venne opposta, molto spesso, al romanticismo.
A differenza di quanto avvenuto in Scozia, dove i sogni e i viaggi delle fate sono molto simili a quelli delle nostre streghe?
Quella tra fate buone e streghe cattive è una distinzione formulata da chierici e inquisitori. Tanti anni fa mi imbattei in un processo modenese del ‘500, dove si trovava, trascritta in latino, la frase pronunciata da un testimone: Qui scit sanare scit destruere, chi sa guarire sa distruggere. Gli storici non devono partire, come spesso hanno fatto, dalla categoria del male, ma dall’ambiguità che è al centro dei poteri magici.
Che è la chiave dell’opera di Tolkien, in effetti. Accedere all’altro mondo significa anche assistere o partecipare alle processioni o alle cavalcate notturne dei morti?
In area germanica la cavalcata notturna ha una caratteristica guerresca e maschile, e alla testa c’è un demone notturno, Hellequin, che diventerà Arlecchino. In Friuli la processione dei morti è parte dell’esperienza delle donne benandanti, mentre i benandanti maschi combattono per la fertilità, armati di rami di finocchio, contro streghe e stregoni. Sono tutte figure di mediazione con l’aldilà, capaci di andare e tornare dall’altro mondo. E questa, come ho scritto nelle ultime righe di Storia notturna, è la matrice di tutti i racconti possibili”.

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