RILEGGERE IL CONTAGIO

«I delinquenti sono sempre quelli dell’appartamento di fronte, o dei casamenti vicini, con uno snobismo stupefacente. […] Al vertice dell’antropologia borgatara c’è forse la pulsione suicida di sparire dall’anagrafe, lasciando che il peggio accada senza il minimo tentativo di evitarlo: per superba immobilità, per constatazione atavica, per autolesionismo inconscio travestito da astuzia.»
E’ un brano da Il contagio, per me il romanzo più bello di Walter Siti. Nella giornata mondiale del libro suggerirei di leggerlo, di ragionare su quell’estensione del morbo, laddove il morbo significa vogliamo la stessa cosa, desideriamo somigliarci,  avvoltolarci nella stessa voracità, nella stessa rabbia, a qualunque classe sociale apparteniamo.
Leggetelo, anche per capire bene cosa è accaduto in questi tre giorni a proposito della polemica suscitata dall’Amaca di Michele Serra. Polemica nella quale, mi sembra, l’argomentazione viene deviata sul suo ruolo e sul suo status sociale, nel modo simile e contrario in cui Serra devia sul populismo.
Nel 2008, all’inizio della crisi, Siti aveva già intuito cosa stava per avvenire.
Tre anni prima, Luciano Canfora aveva scritto un articolo su cosa significa contagio:
“Nel 430 a.C., pochi giorni dopo l’ invasione spartana, l’ Attica fu all’ improvviso colpita da un contagio pestilenziale. Il più grande leader ateniese – Pericle – morì appunto di quel contagio, in quelle settimane. La guerra, da lui ritenuta inevitabile, e di cui aveva non solo previsto, ma accelerato lo scoppio, finì dunque, per lui, quando era appunto incominciata. Secondo Tucidide, storico e testimone di quei fatti, la perdita fu irreparabile. Tucidide sembra quasi voler dire, in un famoso passo della sua opera, che fu dunque la peste di Atene il primo fattore di vittoria per il nemico: proprio perché cancellò il solo leader che gli avrebbe potuto tener testa.
Ecco perché si formularono ipotesi e nacquero leggende sull’ origine del contagio. Ipotesi, sulla sua provenienza: l’ Etiopia, l’ Egitto, la Libia. Leggende, sul modo in cui il contagio aveva attecchito. La tesi che molti fecero propria fu che – come scrive Tucidide il quale prese egli stesso il contagio ma si salvò – «il nemico aveva avvelenato i pozzi». Si portavano in proposito pseudo-prove. La prima era che il contagio fosse esploso all’ improvviso; la seconda che si fosse manifestato dapprima al Pireo, dove non esistevano «fonti d’ acqua sorgiva» ma appunto un sistema di pozzi per l’ acqua.
L’ idea che il nemico venisse a fare «l’ untore», a mettere il veleno in quelle strutture (i pozzi) preziose e vulnerabilissime, non rimase un caso isolato. Una tale idea è tipica dell’ ossessione che discende dall’ odio e dalla certezza che il nemico adopera ogni mezzo, onde sentirsi legittimati a usare a propria volta ogni mezzo contro di lui. Non erano pregiudizi che nascevano dal nulla visto che un trattatista dell’ arte della guerra come Enea Tattico (non di molto successivo rispetto a Tucidide) raccomanda in un passo del suo trattato di «rendere l’ acqua non potabile». E Floro, lo storico del tempo di Adriano, afferma che Manio Aquilio, comandante romano in Asia, effettivamente fece avvelenare i pozzi nell’ anno 129 a.C. Ma Floro aggiunge che così macchiò l’ onore delle armi romane fino a quel momento immacolate. L’ accusa divenne col tempo topica e fu adottata contro nemici su cui si riteneva facile convogliare l’ odio”.
Esiste un problema di cui non vogliamo, mi sembra, renderci conto, e quel problema trascende la polemica: non abbiamo la minima idea di come analizzare quel che ci circonda, siamo immobili, affondati nella nostra rabbia e nel nostro odio. Preferiamo pensare che esista un nemico che ha avvelenato i pozzi, senza capire che siamo noi stessi a farlo, giorno dopo giorno. E, no, non mi interessa il gioco del torto e della ragione: rifletto sul modo, come spesso faccio, perché il modo conta. Forse è quasi tutto, in questo momento.

3 pensieri su “RILEGGERE IL CONTAGIO

  1. Ho letto distrattamente Serra per cui non riuscivo a capire lo scandalo. Poi mi sono resa conto che non capisco quasi mai lo scandalizzarsi. Quindi dev’essere proprio il modo in cui si affrontano le cose a fare la differenza. Quando si è molto arrabbiati, quando si odia non si riesce a sentire altro che il brontolio sordo che ci rimbomba dentro. Comunque nessuno è perfetto, diceva Billy Wilder, può essere che un intelligente commentatore dica qualcosa che non ci convince. Ma non per questo si tramuta nel nemico da abbattere.

  2. Ho letto della polemica sulla bacheca di Facebook di un’amica.
    Devo dire che per fortuna, una volta tanto, si è riusciti ad impostare la discussione su parametri “scientifici”. Si sono cioè cercati dei dati a conferma o meno della tesi di Serra.
    Non sempre vanno così le discussioni su facebook. Ma grazie ad alcune voci sagge ci si è resi conto che dire “Serra non ha ragione perché io sono stato bullizzato in un liceo dal figliolo del Cacini” da cui “Serra vive ormai nella torre d’avorio” era piazzarsi sullo stesso – a mio modo di vedere errato – piano del giornalista di Repubblica. Ossia: generalizzare una questione non generalizzabile.
    Dopo varie ricerche, si è visto che le denunce di ‘bullismo’ e di maleducazione contro i docenti non sono statisticamente catalogabili nella maniera proposta da Serra.
    Senza dimenticare la questione in sé, su cui si dovrebbero fare tanti distinguo (a partire da uno: parecchi di questi video sono di anni passati).

  3. Cara Loredana,
    ho partecipato anch’io sui social alla partigianeria sull’interpretazione delle parole di Michele Serra. E non interessa neanche me pensare:”ho ragione io, ha ragione lui”.
    La violenza a scuola che si esprima verso i professori o verso i pari, il bullismo insomma, è un argomento troppo importante per tutti noi, che siamo o meno insegnanti, genitori o ragazzi, e questo mi ha appassionato e sono contenta che se ne parli.
    Anch’io parlo e scrivo senza una competenza specifica e non lo rivendico come giusto. Ho ascoltato in podcast la trasmissione di “Tutta la città ne parla” e mi ha sollevato l’animo venire a sapere che le scuole si interrogano e si attrezzano per affrontare questo problema così decisivo anche per come vogliamo pensarci come società.
    Non potrebbe essere che così, visto che nonostante le condizioni sfavorevoli in cui opera, la scuola dovrebbe essere il presidio per aiutare un individuo a diventare cittadino se non addirittura persona umana.
    A quasi sessant’anni vengo da un’esperienza che tendo a pensare generazionale e non so più se ciò corrisponda a realtà:i miei genitori sprovvisti di cultura tradizionale, rispettavano incondizionatamente la cultura e i professori.
    Ma negli anni sessanta le classi svantaggiate erano ossequiose verso chi deteneva cultura e potere.
    Oggi ci si disintermedia, non si vuole ricevere mai e sottolineo mai, una minima critica e si è aggressivi e i genitori possono esserlo molto.
    Ma queste cose le sappiamo e non sono niente di nuovo.
    Un pensiero che mi ha attraversato è che i ragazzi come nel video di Lucca, vogliono far paura e forse la fanno anche ai loro genitori, ai professori, ai loro pari.
    E così la risposta banale e semplicistica sui social era:”sono mancati gli schiaffi, i calci o altro del genere”, dunque dobbiamo essere noi adulti a detenere il potere e fargli paura a questi ragazzi violenti, in uno scontro al rialzo”: una sconfitta annunciata che lascia indietro chi è difficile, chi ha un problema grave e crea problemi gravi agli altri.
    Ci sono gli specialisti della pedagogia, della sociologia, della psicologia che ci possono aiutare.
    Ho sentito delle esperienze che coinvolgono nella consapevolezza i pari, spesso ragazzi che non sono solo passivi, ma riprendono i video, ridono delle prodezze, non pensano di intervenire in favore di chi è in difficoltà.
    Ecco, una cosa la penso con forza, non chiamiamo vittima chi subisce violenza perché mi sembra di incasellarla in un ruolo di esclusiva debolezza.
    Ho ammirato il professore di Lucca che non reagisce, ma si tiene il registro ben stretto. Non sempre reagire è la forma giusta di risposta o non reagire sia segno di debolezza.
    Grazie dell’attenzione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto