LA CRISI SIBERIANA: PERCHE' NON SI PARLA DI QUEI 38 GRADI

Qui si pongono vari problemi. Uno, gravissimo, è quello riportato da pochi giornali e alcuni siti, e ieri infine su Internazionale. E riguarda la Siberia, racconta Gabriele Crescente:
“A Verchojansk, in Jacuzia, sono stati registrati 38 gradi centigradi, 18 in più rispetto alla media di giugno. È il dato più alto da quando sono cominciati i rilevamenti, nel 1885. A conferma che non si è trattato di un errore di misurazione, il giorno dopo nella stessa località sono stati registrati 35,2 gradi.”
Il primo campanello d’allarme è di meno di un mese fa, però, quando “in seguito a un calo di pressione nella centrale termo-elettrica TEZ-3 presso Norilsk, 300 km oltre il Circolo polare, 20mila tonnellate di combustibile diesel e lubrificanti sono fuoriuscite da una cisterna: 15mila tonnellate si sono riversate nei corsi d’acqua vicini, 6.000 sono state assorbite dal terreno”.
Come informa, di nuovo, Internazionale:
“La Nornickel infatti ha affermato che il collasso della cisterna è stato causato da un cedimento del suolo dovuto allo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno che nelle regioni circumpolari resta ghiacciato per tutto l’anno. L’azienda è stata accusata di usare questo argomento per nascondere le sue responsabilità. Ma lo scioglimento del permafrost dovuto al cambiamento climatico, che nell’artico procede a un ritmo molto più elevato che nel resto del pianeta, è un fenomeno ben documentato che da anni preoccupa le autorità di tutti i paesi della regione, dove intere città sono minacciate dalla destabilizzazione del terreno”.
Le conseguenze dello scioglimento del permafrost sono scenario non solo della più classica scrittura fantascientifica, ma sono realmente drammatiche: da vari punti di vista, inclusi quelli pandemici, direi, dal momento che i cosiddetti virus-zombie sono quelli che risorgono dai corpi prigionieri nei ghiacci. Un giorno, in una piccola città della Siberia, la temperatura si alzò, il permafrost si trasformò in fango e il batterio dell’antrace, dormiente nei resti di una renna congelata, uccise un bambino e ne mandò all’ospedale altri cinquanta. Nello stesso luogo, nel 1890, il vaiolo si liberò dai ghiacci e uccise il 40% della popolazione.
Ora, questo è il problema numero uno.
Il problema numero due è ugualmente grave. Ho appreso questa notizia, ieri, da un messaggio privato su Twitter di Retedellereti, Inizialmente non capivo cosa mi chiedessero, ho anche risposto “non vorrete mica fare un appello?”, perché sono scoraggiata da appelli e petizioni che non costano nulla a chi appone la firma e nella grandissima parte dei casi nulla producono. Mi hanno risposto che avevano organizzato in tutta fretta un convegno on line il 18 giugno, e che quello che intanto chiedevano era che i media, giornali e televisione, parlassero a lungo e approfonditamente di quanto sta accadendo.
Richiesta più che legittima. Io, però, non sono un medium, o forse lo sono in modo minimo e individuale: e, sì, sarebbe importante che se ne parlasse sul serio, perché non è che dimenticandoci – a torto, a mio parere – dell’emergenza coronavirus possiamo dimenticare anche quella, preesistente e gravissima, legata al cambiamento climatico. Gironzolando su google, noto che a occuparsi dei famigerati 38 gradi siberiani sono stati, con brevi notizie, Corriere della Sera, Fatto quotidiano, Rainews e poi Meteoweb, fanpage, eccetera.
Jonathan Safran Foer diceva che la battaglia più difficile è convincere le persone che questa non è una guerra che si combatte lontano, ma è vicinissima. E questo è il terzo problema. Come si fa? Quali sono le parole per spiegare che questo non è un film, né climate fiction, né una notiziola di colore buona per un trafiletto? Al di là dei convegni on line, degli appelli e delle petizioni, cosa diamine è possibile fare?
Questa volta le risposte non le ho, perché i virtuosi comportamenti individuali (mangiare meno carne o non mangiarla affatto, limitare l’uso della dannata aria condizionata – e, no, non è una questione personale, ma la presa d’atto di una ossessione crescente negli anni, che non è affatto senza conseguenze). E poi?
Chi si occupa di parole dovrebbe intanto ripensare il linguaggio, le parole per dirlo, appunto. Chi si occupa di immagini dovrebbe fare altrettanto. Non è impossibile: il Guardian lo ha deciso a gennaio 2020, per dire.
Il Salone del Libro aveva scelto, per quella che è poi è diventata un’edizione extra (e da stasera notturna) il titolo “Altre forme di vita”. Era, è, un inizio. Però sbrighiamoci.

2 pensieri su “LA CRISI SIBERIANA: PERCHE' NON SI PARLA DI QUEI 38 GRADI

  1. Cara Loredana,
    ho visto la foto e nonostante sia un’ambientalista ho rimosso la notizia e il suo approfondimento.
    Nonostante sappia bene, come racconta Mark Lynas nel libro “Sei gradi” che lo scioglimento del permafrost è uno degli eventi più catastrofici che ci si possano presentare, perché nel terreno permanentemente ghiacciato sono seppelliti non si sa quali quantità di metano.
    Il metano nel permafrost può innescare quella che si chiama “retroazione positiva” ossia l’attivazione di meccanismi di aumento del clima del tutto incontrollabili e sicuramente catastrofici per la sopravvivenza della nostra vita sulla terra.
    Ma anche chi sia sensibile a volte si sente così impotente da tenere la testa molto al di sotto della sabbia.
    Dunque grazie per aver riportato alla coscienza, l’evidenza di un disastro annunciato.

  2. Banalmente (ma non troppo): “Chi semina vento…” – E’ semplicemente quel che sta accadendo. Poi, come accogliamo ciò che accade è un dettaglio che riguarda solo la specie umana… finché sarà in vita. Poi si risolverà anche questo problema. Amen.

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