LA CULTURA BUSSA ALLA PORTA: SUL DISPREZZO, SUL TRESSETTE

Qualcuno lo avrà forse intuito, ieri pomeriggio, ma c’erano alcune affermazioni del mio ospite con cui ero in profondo disaccordo: il disprezzo per gli scriventi, l’orrore per la parola “storie” e per il verbo “narrare”, l’idea che letteratura ed esercizio di stile coincidessero. Alt, fermi: è ovvio che non bisogna essere d’accordo con le persone con cui si dialoga. Anzi, dalla diversità di opinione possono venire idee nuove, e fornire a chi ascolta punti di vista più nitidi.
Detto questo, c’è un ricordo che affiora, tutte le volte che mi imbatto nel disprezzo, sottinteso o reso evidente. Era un pomeriggio di molti anni fa, quando la giovane donna timida e goffa e insicura che ero ottenne facilmente un’intervista a Giovanni Macchia (per il Secolo XIX, chissà dov’è finita: scomparsa con i miei archivi, com’è giusto) ed entrò in punta di piedi nella sua casa a rimirare l’immensità della biblioteca, notando con la crudeltà dei giovani la giacca spiegazzata e rimanendo poi schiacciata dalla sua cultura. E dalla sua gentilezza. E dalla sua disponibilità ad ascoltare le domande di una ragazzotta appunto timida, goffa e insicura, domande banali, domande che non meritava.
Allora, evoco di nuovo zio Ben, Beniamino Placido. 1984.  Sulla cultura, e sul tressette, e su come usare le parole. Pensate un po’, il sindaco di Roma era Vetere, le scale mobili non funzionavano ed Ernesto Galli della Loggia protestava, già ai tempi.
“Intanto, la cultura bisognerebbe definirla. Ora, le definizioni della parola cultura (in senso “antropologico”) sono non ricordo più se quattrocentocinquanta o settecento (non scherzo, siamo in quest’ordine di grandezze). Ma fossero anche mille, dovrebbero – per stare in piedi – obbedire a un precetto: definirsi contro, o a riscontro del loro opposto: l’ incultura. E’ una regoletta linguistica inesorabile. Non posso definire “cultura” (in senso “antropologico”) tutto: la cultura del parcheggio, la cultura del noleggio, la cultura del posteggio, senza indicare che cosa cultura non è, perché altrimenti quella parola “cultura” che tanto mi piace pronunciare, perde ogni significato: non definisce più niente.
Prendiamo l’ esempio più semplice (forse): quello del gioco delle carte. Certo che esiste una cultura del tressette. E’ costituita dalle regole e dai valori di cui tutti i giocatori partecipano. A cominciare dalla regola fondamentale di tornare al “colore” (o “palo”) dove il compagno ha chiamato (o “bussato”). Lo dice anche il Chitarrella nel suo aureo manuale: “Ubi buxatur, ibi tornatur”. Ma io non posso dire, onestamente, di appartenere alla cultura del tressette. Perché, pur giocandolo ogni domenica da anni con i miei familiari, continuo a commettere errori madornali. Non sono mai riuscito a penetrare davvero la logica raffinata che presiede alla combinazione delle sue regole. Tant’è vero che i miei familiari, che pure mi considerano e mi amano (specie da quando appaio in televisione), ad un certo punto sbottano: “ma chi ti ha dato la laurea?”. In tal modo esprimendosi, rivelano due cose: che una “cultura” del tressette c’ è, ma che io (peggio per me) non ne partecipo.
Supponiamo adesso che io, protervo, insista nel giocare a modo mio, senza rispettare le regole, e che convinca qualcun altro a fare come me. Troverei, prima o poi, un antropologo di buon cuore disposto a dichiarare che ho messo su una nuova “cultura”. Ma io so che la mia è la protervia dell’ incultura; che ho commesso un’ infrazione ai danni della cultura del tressette. Allo stesso modo, la “cultura” della mafia, della droga, della mazzetta sono, forse, forme di “cultura”, ma sono certamente – e innanzitutto – manifestazioni di incultura nei confronti di quella cultura che regola la nostra convivenza e che ci dice (ce lo dice, sì o no?) che non bisogna sparare a lupara, che la mazzetta non bisogna intascarla e che la droga è meglio non prenderla. Ancora un esempio pratico.
Nell’ultimo numero del mensile Pagina, Ernesto Galli della Loggia protesta all’indirizzo del sindaco di Roma Vetere (per il quale pure dichiara di aver votato) perché da diciotto mesi la scala mobile che serve il parcheggio sotterraneo di Villa Borghese non funziona. E dice che “di queste cose un sindaco dovrebbe occuparsi, invece che della cultura della città…”. Ora, io non so se quella scala mobile sia stata riparata (dopo diciotto mesi); non so se il signor sindaco di Roma (per il quale anch’io ho votato) non abbia organizzato qualche convegno, nel frattempo, sulla “cultura della città”. Ma so che Galli della Loggia ha perfettamente ragione. Una cultura della città (in senso urbanistico – antropologico – sociologico) esiste, non c’ è dubbio. A che ci sarebbe servito leggere a fare, da bambini, Notre Dame de Paris di Victor Hugo, se non avessimo capito questo? Le pietre parlano, le chiese parlano, le città parlano ai loro cittadini e con i loro cittadini. Ma non parlano con le parole. Parlano con il traffico che scorre ordinato, con i mezzi pubblici che funzionano, con le scale mobili che si muovono. La scala mobile tempestivamente riparata per servire il parcheggio di Villa Borghese è un fatto di “cultura”. Un eventuale convegno sulla “cultura del parcheggio” – organizzato in queste circostanze – sarebbe un fenomeno di incultura. Una volgarità. Un alibi. Insomma, la parola cultura si è troppo inflazionata. Ed è strano che il sindaco di Roma, che pure è comunista, e che potrebbe contrastare questa inflazione senza fermare la scala mobile, anzi smuovendola, non lo faccia. Spero che Enzo Golino non mi accusi più di aver fatto un passo indietro rispetto al concetto non libresco di cultura che avevamo conquistato. Non mi pare di aver fatto un passo indietro. Mi illudo di aver fatto un passo avanti. Sono semplicemente ritornato su certe letture della nostra infanzia letteraria per rifletterci sopra. Il concetto di cultura bussa alla porta e chiede di essere definito con rigore. “Ubi buxatur, ibi tornatur”. Questo almeno mi pare di averlo imparato, dalla cultura del tressette”.

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