Volete la verità? Mi interessa poco se gli ebook vendano più o meno. Mi interessa poco sapere se ha ragione il New York Times o Fortune. Mi interessa che si legga, e non si legge. Come sostiene ancora una volta Azar Nafisi (domani alle 19 la presento a Trani, se ci siete), il problema è che ci commuoviamo e indigniamo per coloro che rischiano la vita per leggere e istruirsi, come Malala, e non ci rendiamo conto che esiste un’altra forma di dittatura che si chiama indifferenza. Che si chiama ricerca di visibilità e celebrità. Che si chiama affondare le zampe nel presente senza capirlo o desiderare di approfondirlo. In altre parole, care e cari, che si legga su una tavoletta di cera o un papiro o su un telefonino, non importa: è importante leggere, leggere testi che ci permettano di approfondire la realtà, e non di subirla. E non si legge. Le polemichette da social network carta versus ebook sono insignificanti. Quel che conta è il segno meno davanti ai bilanci delle case editrici. I licenziamenti in arrivo dentro le medesime. Le librerie che chiudono. L’istruzione che viene scoraggiata. Su questo dovremmo fare polemiche. Il resto, è fuffa. Buon venerdì.
Io sono d’accordo che il punto è l’istruzione e la lettura, però sinceramente non capisco alcune cose. Intanto non tutti i libri sono uguali, dunque non è proprio importante che si legga a prescindere. Il che comporta che neanche tutte le case editrici sono uguali, dunque non capisco perché dolersi se alcune soffrono economicamente. Dal tuo punto di vista, intendo. Le librerie poi chiudono perché sono poco frequentate, e la responsabilità è dei lettori, quindi dovresti essere polemica con i lettori. Anche per il discorso delle case editrici. Però da queste parti ho sempre letto giuste critiche ad Amazon, ed inspiegabili critiche alle linee editoriali, spesso da parte dei tuoi lettori.
Scusami Stefano, ma non si capisce una parola del tuo commento. Forse sono stupida io, o forse sei sempre il solito dai mille nomi e faccine che ogni volta che si parla di crisi editoriali se ne esce con la stessa frase. O forse no. Comunque, non ho altro da aggiungere a questo e alle centinaia di post simili sul punto.
Con la smaterializzazione del libro (e con questo intendo la semplice possibilità che possa smaterializzarsi trasformandosi in semplice testo ubiquo) si smaterializza – mi sembra – l’ultimo oggetto sacro condiviso da tutte le culture (oggetto di desiderio, da brandire, venerare, amare, odiare, custodire o, perché no, bruciare).
Questo evento è di per sé un trauma e ha conseguenze che non sono in grado di calcolare. Ma che riguardano anche la sfera del sacro, ossia ciò in cui crediamo. Non ridurrei la (anche solo possibile) scomparsa dei libri a un fatto accidentale, tanto l’importante è leggere…
Detto in breve, loro non potranno più bruciare i libri (dubito che qualcuno sarà mai tanto stupido da cancellare le copie digitali, visto che sono infinite) e noi non dovremo più difenderli. Un’altra barriera tra noi e loro che casca. Un altro passo verso l’indifferenza?
Tu quando inviti a fare polemica sulle librerie che chiudono cosa hai in mente?
Se penso al mondo della musica mi viene in mente che oggi i cd o li compro su internet, direttamente sul sito della band, oppure al concerto, e non mi sembra male come cosa. Al concerto costano meno e la band ci ricava di più, e non sarebbe male se le persone cominciassero a frequentare di più i concerti di band di questo tipo. Forse la libreria ha fatto il suo tempo come luogo centrale in cui circolano i libri e ci saranno forme diverse di commercio pure per i libri. Oppure devono cambiare le librerie e diventare luoghi attraenti, cosa che un po’ sta avvenendo. Le librerie potrebbero diventare biblioteche private in accordo con alcune case editrici che potrebbero tenere esposto in lettura tutto il loro catalogo, invece che lottare per spazi striminziti per scampi di tempo. Organizzare appuntamenti fissi mensili con gli autori e le autrici, magari accompagnati a musica, cinema, mostre, quel che è.
Sulle case editrici io ho una prospettiva diversa, che accoglie la crisi come fatto naturale e anzi salutare. Leggo resoconti di lavoratori dell’editoria sfruttati e mal pagati, quando va bene, gente che si lascia sfruttare per tenere in piedi il carrozzone. E in ogni caso la maggior parte dei libri pubblicati fa semplicemente pena. E non capisco come fai a parlare di modello di sviluppo alternativo per le autostrade e volere più libri venduti purchessia. Non lo capisco in generale, non solo riferito a te, e comunque non c’è alcun intento polemico, mentre c’è partecipazione, seppure ti possa sembrare pessima.
Ogni volta che sento parlare di non lettori, penso d’essere annoverata anch’io nel mucchio perchè non compero quasi mai libri. Non li compero per ragioni economiche ma leggo, leggo tanto e per poterlo fare mi rivolgo alle biblioteche che, grazie al cielo, nella mia città non mancano. Sono loro a comperare i “miei” libri e quando esce qualche buon titolo, occorre mettersi in lista e aspettare pazientemente il proprio turno di lettura… segno, questo, che l’interesse per la lettura c’è, è vivo.
@Stefano: il tuo discorso non farebbe una grinza se non fosse per una contraddizione che sfocia in una mancanza: il tuo auspicio di rinnovamento delle librerie presupporrebbe comunque l’esistenza di case editrici (parli infatti di “case editrici che potrebbero tenere esposto in lettura tutto il loro catalogo”, per esempio) ma prima auspichi un rapporto diretto tra scrittore, pubblicazione e acquisto (facendo l’esempio dei concerti di alcune band indipendenti) e poi affondi sulle case editrici stesse, ree di sfruttare e mal pagare “gente che si lascia sfruttare per tenere in piedi il carrozzone”. Tutto vero, ma… cui prodest? Che il sistema-editoria vada migliorato, siamo tutti d’accordo, tuttavia siamo sicuri che l’attuale tendenza a eliminare qualsivoglia intermediario sia la migliore per diffondere un prodotto così particolare come la cultura (e in particolare i libri)? E siamo ancor più sicuri che affidarsi a un distributore unico mondiale praticamente monopolista (Amazon) sia l’alternativa migliore all’attuale sistema distributivo barcollante? O che basti la diffusione diretta (cioè il self-publishing) per rendere effettivamente disponibile e redditizia un’opera culturale? Io sono appassionato di cinema, molti film di qualità ma di scarsa diffusione li ho potuti vedere solo grazie all’impegno in perdita di gestori di sale d’essai appassionati o di sale gestite da enti o società pubbliche (sempre in perdita) o ancora grazie ai tour che infaticabili realizzatori organizzavano grazie all’appoggio di associazioni di volontariato che si impegnavano a trovare una sala disposta a fare una proiezione, a pagare le spese di viaggio e a pagare al regista un bonus che dipendeva dal numero di biglietti venduti in sala a prezzo politico (sottratti i costi di affitto della sala, naturalmente): tutto molto affascinante, ma non ci campi di certo! Certo, ci sono fior di eccezioni (vogliamo parlare dell’esperienza dei Wu Ming, per esempio?), tuttavia credo che anche loro traggano i maggiori proventi dalla parte editoriale, cioè dalla vendita “tradizionale” di libri (@Wu Ming: smentitemi se sto scrivendo stupidaggini, per favore); e comunque se possono fare i loro tour, molto lo devono all’appoggio di librerie, centri sociali, associazioni che organizzano incontri spesso in regime di volontariato. Tutto molto molto bello, ma col solo volontariato/volontarismo non si mangia, purtroppo. E quindi non si può produrre cultura in maniera capillare e sistematica.
Concludendo: va bene auspicare rinnovamento, ma quale modello di sviluppo alternativo proponi? E come rispondiamo all’indubitabile attacco che da ogni parte arriva contro la diffusione della cultura e contro la diffusione dei presupposti per la fruizione della stessa (leggi: affossamento dell’istruzione di base, tra l’altro indispensabile non solo per saper leggere un libro ma anche per saper navigare in internet e per un uso più consapevole e critico dei social, oltre che per un approccio più approfondito e meno ingenuo alla nostra vita di tutti i giorni e alla partecipazione democratica)?
@ Luca
con il mio esempio musicale non ho parlato di rapporto diretto tra autore e pubblico. Tutte le band di cui parlo hanno un’etichetta. Rispetto a prima i costi di produzione possono essere o meno affidati alla band, come anche il lavoro manageriale. Ma in questo modo c’è maggiore controllo e libertà. Con l’esempio del concerto intendevo dire solo che il ricavo sui cd venduti al concerto finisce tutto nelle casse della band. Poi bisogna vedere se i costi di produzione sono stati spartiti o meno per capire l’entità del profitto, ma questo è un altro discorso. Ma c’è comunque bisogno di studi di registrazione, e ci sono i costi di stampa, con eventuale spesa per il lavoro grafico. Per non parlare della realizzazione dei video musicali. Una band che non abbia un’etichetta può ugualmente farsi il disco con la stessa qualità con cui lo farebbe con un’etichetta, perché comunque paghi dei professionisti per registrarlo, se vuoi farlo con una certa qualità; ma in genere con l’etichetta acquisti visibilità, hai un potenziale pubblico già disponibile ad ascoltarti, hai contatti per la promozione dei dischi e possibilità di entrare in contatto con le agenzie che ti procurano le serate, perché la maggior parte dei locali si affida a persone terze per scegliere chi far suonare e chi no. Fare tutto ciò da soli è per molti impossibile. E fra le etichette c’è ovviamente differenza (e una buona etichetta è in grado di tirare fuori il meglio da una band, così come una cattiva può essere anche in grado di bloccarla, come spesso fanno le major, che mettono sotto contratto band emergenti a pioggia, e poi sulle poche che emergono ci guadagnano e le altre rimangono imbrigliate e devono sottostare agli accordi di esclusiva: per cui non ci penso un minuto a pensare che aziende del genere devono sparire). Gli intemediari ci sono: etichetta, ufficio stampa, agenzie booking, promoter, radio, webzine, riviste ecc. Quindi non penso che non servano intermediari, e poi, ma neanche l’ho scritto a dire il vero, che ci si debba affidare a un distributore unico o che la strada sia il self-publishing (fare da sé è un modo come alri). Semplicemente se una casa editrice fallisce per me, come dovrebbe essere logico per tutti, non è un problema. Le aziende nascono, crescono e muoiono, e vengono sostituite. Il che non vuol dire che non debbano esserci.
Questo non lo propongo come modello di sviluppo alternativo. Semplicemente non c’è posto per tutti, inteso come possibilità di guadagnare. Se non piaci a tanta gente non puoi vivere solo di questo, come è ovvio. Ma come è ovvio che questo non è un problema, e non è il risultato della crisi. La crisi del disco ha forse comportato una crisi musicale? No, ci sono ottime e infinite band meritevoli, così come la gente ascolta molta più musica oggi di prima, e molta di più ne produce. Come è logico, i profitti si sono assottigliati. E qualcuno può vederci un problema nel senso che c’è anche molta più musica mediocre in giro, però non vedo cosa farci, né con quale argomento potrei andare a chiedere ai mediocri di smettere di suonare.
@ Luca Perilli
possiamo vederla come un’apocalisse… oppure integrarci. Ovvero: viviamo un’apocalisse, una trasformazione che non mi pare solo strutturale, ma anche antropologica (sparisce il libro cartaceo, ma soprattutto cambiano radicalmente le abitudini legate alla lettura, il modo stesso di leggere, ecc. ), e al tempo stesso siamo costretti a integrarci, ad adattarci alle nuove circostanze. Come dici, chi vuole provare a fare della scrittura un mestiere lo fa ancora grazie alla vendita del buon vecchio libro, che però vende sempre meno, e in questo paese di semianalfabeti di ritorno (absit iniuria, parlano i dati) ha un respiro sempre più corto. Certo il libro si vende grazie agli intermediari, che, come ricorda Stefano, possono essere di vario genere e grado, dalla major che ti compra gli spazi pubblicitari, al centro sociale che ti organizza la presentazione. Il nostro mestiere cambierà parecchio, perché a parte gli scrittori di massa, che in Italia sono quasi esclusivamente gli scrittori “televisivi” (cioè che vengono dalla tv o che sono in qualche modo connessi alla tv), gli altri faranno sempre più fatica a guadagnarsi un reddito con il mestiere di prima. Può darsi che la scrittura/lettura finisca per integrarsi con altre forme di fruizione culturale e comunicativa, chissà (ma non penso alla tv, in questo caso). E’ una delle direzioni possibili, che non pochi colleghi sperimentano e che tentiamo anche noi (reading-concerto, trekking letterario, scrittura open source, ecc…). Questo basterà a salvare il mestiere della scrittura? Non lo so. So che molto probabilmente, appunto, diventerà una cosa diversa. Di questo, ovviamente, è inutile tanto rammaricarsi quanto gioire. Qui siamo e non possiamo fare altro che cercare una direzione nella bailamme.
@Wu Ming 4: grazie della risposta, che peraltro condivido frequentando abitualmente Giap e le vostre presentazioni “fisiche”.
@Stefano: grazie molto delle tue precisazioni, in effetti avevo mal interpretato il tuo esempio iniziale.
Mi permetto di controrisponderti facendoti notare, ancora una volta, che la tua posizione non farebbe una piega se non si parlasse di un prodotto che tocca un qualcosa che dovrebbe esulare dalla logica di mercato: mentre la musica non è indispensabile per comunicare (anche se aiuta tantissimo, soprattutto in situazioni di forte differenza culturale o etnica), la scrittura è ancora fondamentale all’accesso e alla partecipazione alla nostra “societas”; è un po’ come il pane per l’organismo: senza di esso, morirebbe. Disabituarsi alla lettura sistematica, “lunga”, equivale ad autoescludersi dalla comprensione delle nostre vite personali e sociali. Quindi: ci sta che autori non amati scompaiano commercialmente e che Case Editrici mal gestite o fautrici di “cattive pratiche” chiudano. Ma resta intatto sia il problema della diffusione dell’alfabetizzazione, che (per conseguenza) quello delle opere letterarie (mono o cross-genere, mono o cross-supportate). Il modello-Amazon realizza l’eliminazione degli intermediari aspirando a divenire esso stesso intermediario unico e universale; l’iperdiffusione dei Social aspira a semplificare all’estremo le comunicazioni eliminando ogni complessità semantica e strutturale (in Francia si sono accorti che alla esponenziale diffusione della messaggistica informatica -chat, sms, tweet, stati e messaggi di facebook- corrisponde un pauroso impoverimento della lingua francese e un’autentica ecatombe dell’ortografia, della grammatica e della sintassi. Per fronteggiare questo fenomeno hanno reintrodotto a scuola il dettato obbligatorio, il componimento e le analisi grammaticale, logica e strutturale del periodo…). Il ritorno a una cultura diffusa dell’immagine a detrimento di quella scritta, sempre più dominio di pochi, ci fa prefigurare versioni aggiornate di epoche che credevamo morte e sepolte (anche se quasi tutte le distopie dell’ultimo secolo lo avevano ampiamente preconizzato).
Su questo credo che divergiamo nelle nostre opinioni: tu hai una fiducia di fondo nei meccanismi economici, “di mercato”; io invece ne sono diffidente e credo che solo Enti esterni a quella logica possono garantire la sopravvivenza di una cultura accessibile ai più e non solo d’élite (o di nicchia, come va di moda dire oggi, sempre per sottolineare la valenza economicista del fenomeno): “campar di scrittura” si insinua tra mercato e logica alternativa necessaria, forse per questo è così difficile prendere posizione e, materialmente, guadagnarci anche solo il giusto.
Io sono convinto che oggi ci siano più lettori. Tanti, tanti, tanti di più. Ma che, per un motivo o per un altro, non siano lettori tracciabili.
Esistono nuove fonti di materiale da lettura: oltre alle biblioteche fisiche, abbiamo quelle virtuali con il loro patrimonio in libri di pubblico dominio, abbiamo le news online, abbiamo i siti pirata. Che queste nuove fonti esistano è sotto gli occhi di tutti; purtroppo l’esistenza dei lettori è più difficile da dimostrare; ma ho il forte sospetto che esistano. Insomma, uscendo (una buona volta) dalle librerie, sembra che non si parli d’altro che di libri; a parte i soliti anobii e goodreads, persino su facebook esistono innumerevoli gruppi di lettori e di lettura. Per non parlare delle miriadi di reading di classici o esordienti organizzati da piccole associazioni culturali.