LA LETTERATURA E' UNA QUESTIONE DI FRASI

Vale davvero la pena leggere l’intervento di Ian McEwan (nella traduzione di Marzia Porta è apparso su Repubblica) su Margaret Thatcher. Anche per il riferimento a quel contingente di scrittori italiani che si ribellarono (era il 1988) all’idea che letteratura e politica dovessero andare di pari passo. Già, ma chi erano? In “Joseph Anton” di Salman Rushdie si trova un riferimento a quella conferenza organizzata dalla Wheatland Foundation: Rushdie racconta di una tavola rotonda con Amis e McEwan e scrive: “di quella sessione inglese gli italiani lamentarono che si fosse parlato troppo di politica, quando la letteratura era invece una questione di frasi”. Chi erano gli italiani? Rushdie cita il solo Tabucchi, a dire il vero, ma non fra i lamentatori. Ma forse non è così importante saperlo: guarda caso, quella lamentazione perdura ancora oggi, in forme diverse.
Godetevi McEwan.

“Maggie! Maggie! Maggie! Via! Via! Via!”. Questa richiesta, un tempo scandita a mo’ di slogan dalla sinistra, è stata completamente e definitivamente soddisfatta. In occasione di innumerevoli manifestazioni, negli anni Novanta, era stata l’espressione di una singolare ambivalenza – dove l’intimità di un nome proprio si abbinava al rabbioso rifiuto di tutto ciò che questo rappresentava.
“Maggie Thatcher” – due veementi trochei accostati al delicato ritmo giambico del
welfare state della Gran Bretagna del dopoguerra. Per coloro tra noi che rimanevano sgomenti di fronte al suo sbrigativo disprezzo per quel rassicurante mondo dominato dallo Stato, odiarla non bastava. Amavamo odiarla. Ci aveva costretto a decidere cosa fosse realmente importante.
Con il senno di poi, una tale testimonianza di dissenso appare spesso dovuta a un inconfessato sessismo. Le femministe l’avevano ripudiata, perché malgrado fosse una donna non era una “sorella”. Eppure, ciò che univa tra loro gli oppositori del programma di Margaret Thatcher era il sospetto che la figlia del droghiere fosse determinata a monetizzare il valore umano.E che non avesse cuore né molta considerazione per gli impulsi che legano tra loro gli individui all’interno di una società. Tuttavia, se i lettori del
Guardian oggi potessero viaggiare a ritroso nel tempo e riemergere verso fine degli anni Settanta, scoprirebbero con una certa irritazione che la programmazione televisiva dell’indomani era considerata un segreto di Stato, e che in quanto tale non poteva essere rivelata alla stampa. Ad eccezione del Radio Times, al quale era stata concessa una licenza esclusiva (non sorprende che vendesse sette milioni di copie a settimana). Aggiungere una prolunga al telefono di casa era considerato illegale, e per farlo occorreva aspettare sei settimane: il tempo necessario all’arrivo di un ingegnere. Sul mercato esisteva un unico modello di segreteria telefonica approvato dallo Stato. Gli uffici della compagnia elettrica potevano essere un luogo decisamente ostile. La Thatcher spazzò via quei monopoli di Stato in nome della nuova “privatizzazione”, e trasformò la vita di tutti i giorni in un modo che oggi ci appare scontato.
Abbiamo pagato quella trasformazione con l’avvento di un mondo meno disposto a compromessi, più competitivo e di certo più attentamente consapevole del fascino del denaro. Adesso, dopo la stretta creditizia, possiamo tirare le somme di ciò che abbiamo perso e ciò che abbiamo guadagnato dalla deregulation della City del 1986, ma è improbabile che si possa mai tornare indietro.
Sembra strano pensare che all’epoca della Thatcher il romanzo britannico godette di un periodo di rinascita relativamente vivace. È raro che un governo possa affermare di aver dato impulso alle arti, ma la Thatcher, sempre piuttosto impaziente nei confronti dell’esistenza rielaborata, spinse gli scrittori su un terreno nuovo. Forse il romanzo prospera nelle avversità, e il senso generale di sgomento suscitato dal nuovo mondo che lei ci mostrava portò molti scrittori a unirsi alle fila dell’opposizione. La loro posizione era posta spesso in termini molto generali, più morali che politici. La Thatcher ebbe l’effetto di imporre una più profonda presa di coscienza delle priorità, espressa talvolta sotto forma di una varietà di distopie.
Ci affascinava.
A una conferenza internazionale che si tenne a Lisbona verso la fine degli anni Ottanta, i rappresentanti della fazione britannica — tra cui Salman Rushdie, Martin Amis, Malcolm Bradbury e io — fecero nelle loro presentazioni un costante riferimento alla Thatcher. Nel rispondere a chi ci chiedeva di riferire dello “stato delle cose” nel nostro Paese, quasi non riuscivamo a prescindere da lei. Alla fine il contingente italiano, predominantemente esistenzialista o postmoderno, si rivoltò contro di noi. Con somma gioia degli organizzatori, la situazione sfociò in una lite incandescente e totale. La letteratura non ha nulla a che vedere con la politica, dicevano gli scrittori italiani. Allargate la vostra prospettiva. Guardate oltre la Thatcher!

Non avevano torto, ma non potevano immaginare quanto la Thatcher fosse ipnotica — così potente, affermata, popolare, onnisciente, irritante e, dal nostro punto di vista, quanto avesse torto. Sospettavamo forse che la realtà avesse partorito un personaggio al di fuori dalla nostra portata creativa.
Non tutti gli scrittori le erano contro. Philip Larkin si recò in visita a Downing Street, dove il primo ministro gli citò con tono di approvazione uno dei suoi versi, “La tua mente si offriva spalancata come un cassetto di coltelli”. Le versioni di quell’episodio differiscono. La Thatcher potrebbe aver citato il verso in maniera non del tutto corretta. Naturalmente, dal momento che le citazioni sono la più sentita forma di lode, Larkin ne fu commosso.
Si potrebbe ipotizzare che un consigliere avesse proposto alla Thatcher una selezione
dei migliori versi di Larkin, o che lei avesse chiesto che gliene fossero mostrati alcuni. Tuttavia, la scelta fatta coglie appieno il personaggio. Per cominciare, la Thatcher possedeva una memoria prodigiosa e non avrebbe avuto alcun problema a memorizzare in poco tempo un passaggio di qualsiasi lunghezza. Quello di Larkin evocava la mente sleale (di un avversario, di un collega di gabinetto) vulnerabilmente esposta al suo sguardo di acciaio. Siamo grati ai diari di Alan Clark, che offrono un’accurata descrizione
della sensazione che doveva provare chi veniva convocato al 10 di Downing Street per essere sottoposto a un simile scrutinio. Una volta, quando il compianto Christopher Hitchens — che scriveva di politica per il New Statesman — corresse il primo ministro su un fatto specifico, lei a sua volta corresse prontamente Hitchens. Lei aveva ragione, lui torto. A Hitchens fu detto, di fronte ai suoi colleghi giornalisti, di portarsi esattamente di fronte a lei, affinché potesse colpirlo leggermente con la sua copia dell’ordine del giorno. Con gli anni, dopo essere stata ripetuta innumerevoli volte, si affermò una versione dei fatti secondo la quale la Thatcher avrebbe chiesto a Hitchens di chinarsi, e lo avrebbe sculacciato con la sua copia dell’ordine del giorno.
La verità è meno significativa della modifica che con il tempo vi è stata apportata. L’ossessione nazionale nei confronti della Thatcher ha sempre contenuto un elemento di erotismo. Dall’invenzione del termine “sado-monetarismo” al modo in cui i suoi potenti ministri sembravano sdilinquirsi di fronte a lei, al costante insistere, da parte dei suoi detrattori, sulla sua femminilità, o mancanza di femminilità, la Thatcher esercitava una presa glaciale sull’immaginario (maschile) masochistico della nazione. Una presa ulteriormente accentuata dal sospetto che tale potere non fosse esercitato in maniera consapevole.
L’interpretazione con cui Meryl Streep ha portato sullo schermo una donna dal passo trascinato, provata e isolata dalla morte del marito Denis potrebbe aver edulcorato i ricordi, o averli definiti nella mente di una generazione più giovane. Il funerale, che sarà di fatto un funerale di Stato, ci farà rivivere le nostre stravaganti fissazioni. Gli oppositori e i sostenitori di Margaret Thatcher non concorderanno mai sul valore del suo retaggio, ma quanto all’importanza che da lei rivestito, alla presa ipnotica che esercitava su di noi, sono destinati in parte a convenire.

8 pensieri su “LA LETTERATURA E' UNA QUESTIONE DI FRASI

  1. Per fortuna quegli scrittori britannici non si sono fatti impressionare dai lamentosi colleghi italiani post-qualcosa: questo ha permesso loro di trattare con la stessa durezza Tony Blair (vedi Irvine Welsh), senza farsi affascinare dalle sue promesse non mantenute. Lo stesso di potrebbe dire delle fiction televisive (vedi “Ashes to ashes”, che riusciva a tenere insieme thatcherismo e blairismo). Da noi la voga post- ha avuto come effetto l’indifferenza verso gli anni Ottanta (che sono proseguiti fino ad oggi), ma anche l’isolamento dei pochi (non come numero relativo, ma rispetto alla produzione libraria e televisiva) che quegli anni li hanno criticati. È soprattutto grazie a loro, gli ignavi, che è così facile per potenti uffici stampa, terze pagine a gettone e programmi di disinformazione di massa, prendere di mira che è stato capace di guardare un pelino al di là del proprio ombellico.

  2. Mi sembra che su questo piano dobbiamo invece essere debitori alla letteratura inglese contemporanea di aver unito letteratura e politica, ove le due cose per me sono inscindibili perchè, per dirla con Gadamer, un’opera che sia tale vive e nasce in un contesto storico-politico.
    A guardare in casa nostra solo i Wu Ming e altri autori riconducibili al NIE stanno finalmente colmando questo vuoto.

  3. High Windows – Philip Larkin
    When I see a couple of kids
    And guess he’s fucking her and she’s
    Taking pills or wearing a diaphragm,
    I know this is paradise
    Everyone old has dreamed of all their lives –
    Bonds and gestures pushed to one side
    Like an outdated combine harvester,
    And everyone young going down the long slide
    To happiness, endlessly. I wonder if
    Anyone looked at me, forty years back,
    And thought, That’ll be the life;
    No God any more, or sweating in the dark
    About hell and that, or having to hide
    What you think of the priest. He
    And his lot will all go down the long slide
    Like free bloody birds. And immediately
    Rather than words comes the thought of high windows:
    The sun-comprehending glass,
    And beyond it, the deep blue air, that shows
    Nothing, and is nowhere, and is endless.

  4. ci aspetta un periodo storico in cui da queste parti nasceranno come funghi i ken loach nostrani a fare da controcanto alle Fornero e similari che prospereranno sostenute da quei maghetti della finanza intervistati da parigi dove pontificano su nebulose di numeri che travolgeranno anche loro.Recentemente sono rimasto sorpreso da leggere un’intervista a Noel Gallagher sul corriere di qualche settimana fa:”
    “Sotto la Thatcher, che ci ha governati con un pugno di ferro, è stata fatta grande arte. Designer e musicisti straordinari. È nata l’acid house, molto colorata e progressista. Oggi invece nessuno ha niente da dire. Scrivere una canzone? No, grazie. Lo dirò su Twitter. È una situazione triste quando c’è più gente che inoltra tweet di quella che compra dischi». E ancora, secondo quanto riportato dal tabloid, il musicista avrebbe detto che all’epoca della Thatcher «c’era un’etica del lavoro. Se eri disoccupato, l’ossessione era di trovare lavoro. Ora, questi ragazzi cresciuti mentre governava il Labour Party e qualunque cosa sia questa Coalizione pensano ‘non se ne parla, non mi interessa, io voglio andare in tv’. C’era una mentalità diversa, allora». La smentita di Noel è apparsa domenica sera sul blog del suo sito ufficiale noelgallagher.com. Il musicista spiega: «Ho letto l’articolo e devo dire che è davvero fuorviante; ogni grande arte, moda, cultura giovanile della working class è emersa nonostante quella donna e le sue vedute di destra distorte, e non grazie a lei». Per non lasciare adito a dubbi Gallagher ha poi concluso: «Inoltre, a titolo informativo, nel giorno in cui morirà festeggeremo come fosse il 1989. Lo dico così, perché voi lo sappiate».
    http://www.youtube.com/watch?v=g6sttMelJHI

  5. Nel merito di quello che dice McEwan non entro, non mi sento titolato per parlare di letteratura con sufficiente cognizione di causa. Mi concedo però un’osservazione di carattere generale: se è vero che la letteratura non deve per forza trarre ispirazione dalla politica, non è meno vero che non farlo per partito preso diffonde attorno un forte odore di pavidità e forse di servilismo, appena velati da un atteggiamento che oscilla tra lo snob e una atarassia tanto rivendicata quanto presunta. Di sicuro c’è conformismo, così come ce n’è in tanta “letteratura” rigidamente aderente a canoni politici antagonisti, e tanto osannata a sinistra. Resta il fatto che la crisi sociale e politica innescata dall’egemonia Thatcheriana ha prodotto una generazione di artisti che poi hanno saputo affrancarsi dall’ossessione originaria e diventare adulti; qui da noi, al sesto anno di crisi e al diciannovesimo di berlusconismo, non si vede all’orizzonte che qualche personaggio minore. Sarà che siamo un paese anche anagraficamente vecchio, sarà che siamo un paese bloccato, sarà che abbiamo perso la strada, non lo so. Ma questo è.

  6. Quando dico che “la crisi sociale e politica innescata dall’egemonia Thatcheriana ha prodotto una generazione di artisti” intendo dire che l’ha prodotta per reazione, ovviamente. Non credo che la lady fosse particolarmente interessata alla promozione delle arti liberali, e soprattutto non a diventare il loro zimbello. Scusate la precisazione, ma leggendo meglio l’affermazione di Noel Gallagher nel commento di Diamonds mi è parsa necessaria.

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