LA LIBERTA' DI CLARA SERENI

Clara Sereni è morta ieri. Nel 2011 partecipò – e anche io – a un libro collettivo curato da Ritanna Armeni, che si chiamava Parola di donna. Scrisse un testo, Libertà, che riporto qui. Perché quelle parole sono ancora valide, sette anni dopo.
N.B. Da domani a fine agosto il blog non sarà aggiornato: è tempo di pausa, di lettura, di scrittura. A presto, commentarium.

Sono andata via di casa in un gelido gennaio del 1967, con quel che avevo addosso e nient’altro. Tranne un paio di eccezioni, i compagni e le compagne di liceo che ancora frequentavo mi considerarono da allora in poi una donna perduta, e interruppero ogni rapporto. Sapevano peraltro che già avevo rinunciato al fior di mia verginitate, oltretutto con un uomo che non avrei sposato. Anzi e peggio, lui era sposato, e il
divorzio ancora non c’era.
Mi pensai allora come donna nuova, donna libera: libera di, libera da. Del resto, quel che accadde negli anni successivi autorizzava la percezione. Per ragioni mediche prendevo la pillola da quando era stata disponibile in Italia, dunque anche sul mio corpo avevo una libertà di scelta che mai prima le donne avevano sperimentato, e di cui non c’era più da vergognarsi.
Feci a lungo, e letteralmente, la fame, ma da magrissima che ero cominciai ad arrotondarmi, e anche quello dipendeva dalla libertà: di respirare da sola, o, per esempio, di convogliare le mie scarse risorse su una pasta e un bignè nella meravigliosa pasticceria sotto casa. Zuccheri, proteine e carboidrati, tutto sommato un buon equilibrio per l’unico pasto quotidiano, e anche un modo per liberarsi dalla schiavitù del fornello (ne avevo uno solo e a rischio di perdite di gas, effettivamente).
Libera di guadagnare pochissimo per fare un lavoro che mi somigliasse. Libera di andarmene in giro di giorno e di notte, in un tempo senza droga e senza Aids in cui la violenza aveva contorni sfumati. Libera di andare a letto con qualcuno (con molti) per un sorriso, per la condivisione di una manifestazione, per un buon film da commentare a lungo. Senza incidenti di rilievo, Santa Pupa assistendomi.
A fronte di un’educazione come quella che avevo ricevuto, chiamare tutto questo libertà non sembrava esagerato. Mi ci volle almeno una decina d’anni per sbattere la faccia contro la constatazione che – bene che andasse – ero una donna emancipata. Niente di più. E ne sono occorsi molti di più (una trentina) per tirare una linea, con il risultato che la somma algebrica dei fattori produce la rivelazione seguente: le scelte
adulte che ho compiuto, il percorso che mi sono tracciata, ha avuto come nucleo forte, come ago della bussola, la famiglia. A chi mi avesse pronosticato una cosa così, in un passato neanche lontanissimo, avrei riso in faccia senza esitazioni.
Non ci piango sopra, non ho rimpianti né rimorsi: le scelte erano giuste o quanto meno opportune, nel momento in cui le ho compiute. E però non posso non chiedermi come diavolo sia potuto accadere che dipanando la matassa della vita il gomitolo prodotto sia stato quasi identico a quello di mia madre e delle madri, e se il filo rosso della libertà me lo sia completamente perso per la strada. Oltretutto, essendo consapevole dei miei privilegi: di estrazione sociale, di cultura, di identità pubblica.
Eppure: la famiglia.
Molte della mia generazione hanno consapevolmente scelto di non farli, i figli. E sono i figli che comportano un assetto familiare, la coppia e basta è questione diversa. Per parte mia, ho scelto di farlo per determinate ragioni e in un determinato momento, un figlio, e né prima né dopo avrei fatto altrettanto. Tant’è che quando mi sono ritrovata incinta per caso, a distanza di un paio di anni, ho scelto la libertà tranquilla dell’aborto, senza vivere la cosa come un dramma o una lacerazione o un lutto (e l’assenza di qualsivoglia senso di colpa o anche solo disagio è un pezzetto di libertà vera).
Qualche pezzetto di libertà mi sembra di riuscire tuttora a esercitarlo. Ma intanto il mondo cambia ed è difficile tenergli dietro. Ora il dibattito sulla libertà delle donne riguarda troppo spesso la libertà di vendere il proprio corpo: non solo le veline e le escort, ma anche il seno il naso le labbra il sedere rifatti o siliconati per adeguarsi al modello pubblicitario e allo sguardo sociale, e non solo maschile, che ne deriva. La libertà di consumare ed essere consumate. La libertà di far guerra alle altre donne perchè « quel che conta è il merito, signora mia, e non il genere ».
Il mondo cambia ed è difficile parlare di libertà con le ragazze di adesso, ormai non più figlie ma nipoti delle nonne del femminismo e dintorni. In anni passati ogni tentativo di comunicare con le donne più giovani si scontrava con una risposta sempre pressoché identica: ma quale tetto di vetro, ma quale differenza, il problema del lavoro che non si trova, della carriera che non si riesce a scalare è uguale per me a quello di mio fratello, del mio fidanzato, del mio amico. Risposta che ci disperava, e che cercavamo di controbattere con tabelle, statistiche, esperienza. Eppure, e di malavoglia, confesso che ormai penso anch’io che il problema sia di tutte e di tutti, anche se le donne pagano sempre una tassa supplementare. Un rapido sguardo dice di un agire politico in cui nessuno e nessuna che non vi abbia già messo da tempo interessate radici riesce a trovare un proprio luogo; di un paese il cui declino morale e culturale è più grave di quello demografico; di una violenza da cui ormai nessun aspetto delle nostre vite è al riparo; di movimenti che non riescono più, se non episodicamente, ad attraversare il corpo sociale e modificarlo; di un mondo, il nostro intero pianeta, che continuiamo a sfruttare come se nessuno e nessuna avesse mai imparato il senso del limite.
Difficile in questa situazione dire cosa e dove sia la libertà. Per ri-cominciare a pensarla, e quindi a costruirla, non ci sono ricette, tranne forse quella di Bartleby, lo scrivano che messo di fronte a brutture e compromessi, correità e collusioni, sommessamente e rivoluzionariamente diceva: « Preferisco di no ».
Assumersi a pieno la responsabilità di non stare al gioco. Può essere un inizio, se lo si comincia ad applicare quotidianamente e con convinzione. Meno facile di quel che possa apparire, i costi da pagare ci sono eccome. Come per ogni assunzione di libertà.

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