LA MANCANZA CHE E' UN ASSEDIO: STORIE DAL CRATERE DIMENTICATO

A Monte Cavallo si arriva per una strada bella e tortuosa. Monte Cavallo è un piccolo borgo del cratere, nel maceratese. Ci si va perché è piacevole guardare il mondo da lassù, e anche per mangiare delizie al Nido dell’Aquila, che ha riaperto quasi subito, a proprie spese, nei container. A Monte Cavallo c’è un sindaco che si chiama Pietro Cecoli, e che adesso è stato indagato dalla solerte Procura di Macerata. Motivo presto detto: nei primi mesi dopo il sisma è stato deportato, come gli altri, ad Alba Adriatica, poi a Civitanova, facendo avanti e indietro tutti i giorni. Poi, per restare vicino ai cittadini, ha posizionato un container vicino alla sua casa inagibile. Però in montagna fa freddo (ehi, cari governatori, sapevate che in montagna fa freddo? E che dopo l’estate viene l’autunno, e dopo l’autunno viene l’inverno?), quindi ha dormito per qualche giorno nella sua casa.
«So di avere contravvenuto all’ordinanza di inagibilità che ho firmato io stesso, ma nel container è difficile restare nei periodi più rigidi dell’inverno, con le temperature sotto zero e la neve. Così abbiamo deciso di abitare per qualche tempo nella nostra casa, seppure dichiarata inagibile. Non posso negarlo, è vero, ma non penso di avere fatto del male a qualcuno. Ho vissuto nell’abitazione inagibile, piuttosto che morire di freddo».
Nel cratere nulla si muove, e in diversi cominciano anche a immaginare a chi faccia comodo lo spopolamento. Alle agromafie, scrive Ugo Bellesi su Cronache Maceratesi, per esempio.
Nel cratere, però, si resiste, come scrive Mario Di Vito nel suo Dopo, scaricabile gratuitamente da Lo stato delle cose. Nonostante tutto, e nonostante, come al solito, si pensi ad altro, ad altro, ad altro. Epilogo:
Questa non è una canzone d’amore (Epilogo)
“Come va?”
“Non lo so”
“Fa freddo oggi, per essere marzo, non trova?”
“Non lo so”
“Vuole un caffè?”
“Non lo so”.
Parlo con un vecchio seduto dentro un bar ad Acquasanta Terme. È marzo, dal terremoto è passato un anno e mezzo. Berretto calato sugli occhi, sguardo fisso tendente al basso, barba bianca, pantaloni beige a coste e un giaccone viola imbottito grande almeno due taglie più del necessario, questo signore non dà l’idea di voler essere il mio nuovo miglior amico.
È un burbero, e risponde “Non lo so” a tutte le domande che provo a fargli. Non vuole che qualcuno gli attacchi il bottone.
Faccio un cenno di rinuncia con la testa, lascio gli spicci per pagare il caffè sul bancone, saluto il barista e faccio per uscire.
“Già vai via?”, mi richiama il burbero.
Sorride adesso. Sorrido anche io. Ogni cronista sa che chi ha qualcosa da dire non vede l’ora di dirla. Per noi vanagloriosi cacciatori di storie, certe persone sono preziose come l’acqua durante una traversata del deserto.
Sono stato fortunato.
Forse.
Così il burbero mi racconta che lui non se n’è mai andato, che è restato in paese anche quando le scosse si erano fatte devastanti, quando la neve ha ricoperto tutto, quando nessuno al posto suo l’avrebbe fatto. Mi racconta che la gente è scappata, poi è timidamente tornata. Qualcuno. Altri no. Dice che tanto a lui gli è rimasto poco da vivere – non sembrerebbe, ma tant’è -, e che però gli dispiace per chi resterà. Dice che passa le giornate al bar, legge il giornale, fa quattro chiacchiere – “ma solo con chi non fa domande stupide” -, passeggia un po’ e poi torna a casa.
“Ma casa tua non è stata danneggiata?”, gli domando.
“Sì, va be’, e allora?”, mi risponde tornando al suo iniziale tono burbero. Ho fatto una domanda stupida, probabilmente.
“Ma non ti hanno detto niente”, insisto io, con la sensazione di star rischiando brutto.
Lui sospira e accenna a un sogghigno. “Sì, ma tanto non fa niente. Non succede niente qui. Non si sa niente. Tanto vale…”
La vita nel cratere è questa. Non si sa niente. Quella che una volta era vita adesso è un ricordo che continua a sbiadire.
Passano le stagioni, i governi, i commissari, i giornalisti. Passano i potenti e i notabili, i capi di stato stranieri. Passano i turisti, i curiosi, i viandanti.
Passa il desiderio di farcela. Passa la speranza. Passa tutto. È tutto passato e niente futuro, qui.
Le forze sembrano mancare, i sospiri sono sempre meno profondi, negli occhi dei terremotati c’è ormai quasi solo rinuncia.
Qui tutti appaiono come soldati sperduti nel campo di battaglia, di quelli che si aggirano disperati maledicendo il giorno in cui è cominciata la guerra. Fuori ci sono i generali, troppo preoccupati di dover vincere la guerra per tenere conto delle perdite.
Quello che si vede è desolante, quello che si ascolta è disperazione pura.
È tutto tremendamente difficile. Appunto, emergono solo le singole storie, che però troppo in fretta diventano da cronaca, oggetto della speculazione di questo o di quel politico, e le cose sembrano destinate ad andare sempre peggio.
Eppure.
Eppure le persone resistono. A tutto. C’è un tratto di eroismo nella vicenda di un popolo intero che è stato cacciato di casa dal terremoto e che però prima o poi tornerà. L’apnea della distanza, «la mancanza che è un assedio», la terra che trema, la natura che travolge, la burocrazia che avvolge, le parole parole parole, il lutto e lo sconforto. Soli contro tutti, qui nessuno ha intenzione di mollare.
Perché il senso è sempre lo stesso.
Resistere. Sperando che serva a qualcosa.
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”, così stabilisce imperativamente la Costituzione, che impediscono appunto il passaggio dalla eguaglianza formale fra tutti i cittadini a quella sostanziale. Ecco un acquisto fondamentale del costituzionalismo e della democrazia moderna: non può esserci pieno sviluppo e tutela dei diritti umani senza liberazione dal bisogno, dallo sfruttamento, dalla povertà”.
Dal saluto di Liliana Segre per Action Aid, presentazione di Demopatia

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