Questa volta parlo di un libro. Non lo faccio molto spesso, perché è diventato difficile parlare di libri in un mondo che accoglie con sospetto ogni parola che sui libri si pronuncia, come se quella parola avesse sempre e sempre un sottotesto, e non ci fosse mai sincerità e passione, ma solo chissà quale calcolo, o quelli che mia madre chiamava “gli impicci”.
Questa volta parlo di un libro perché per la prima volta ho deciso di candidare un libro al Premio Strega, e il libro è “Di chi è questo cuore” di Mauro Covacich. Dico subito che devo fare un mea culpa: all’inizio, molto tempo fa, non avevo capito fino in fondo la scrittura di Covacich. Nel caso specifico, non avevo capito “Prima di sparire”, che è un romanzo di oltre dieci anni fa, e che come altri che sarebbero venuti dopo trasformava la vita reale in letteratura, e lo faceva con uno sguardo così spietato su se stesso e sugli altri che mi era venuta voglia di dire fermati, così è troppo. L’ho riletto non molto tempo fa, e l’ho trovato bellissimo.
Poi è uscito “Vi perdono”, che al tempo si pensava fosse di Angela Del Fabbro, ma qualcosa faceva intuire che ci fosse altro, una storia che pulsava sotto la storia, e tempo dopo in “A nome tuo” Covacich raccontava che sì, Angela era lui, e ancora una volta dispiegava al lettore il meccanismo, che è il meccanismo della sua scrittura, che libro dopo libro si affina, si perfeziona, e infine ti chiedi dove sia il confine tra vita e parola letteraria, e se quel confine debba poi esserci. Penso a “La sposa”, che partiva da un fatto vero, la morte di Pippa Bacca, anzi il momento in cui Pippa sale sull’automobile e comincia a morire, lasciando a chi legge però la possibilità di pensare che essendo un libro tutto possa essere fermato, perché finché si scrive si è simili a Dio e dunque si possono salvare esistenze e aggiustare mondi spezzati.
“Di chi è questo cuore”, che arriva dopo quella ricognizione fra luoghi e crescita che è “La città interiore”, comincia con qualcosa che non si spezza, ma si incrina. Un cuore, appunto, che è poi quello di chi narra, che incappa in un infortunio, lieve ma in grado di innescare un mutamento. Non puoi più correre come prima, devi immaginare una vita, se non completamente diversa, che giri più lentamente. E’ uno di quei momenti spartiacque in cui ti imbatti, e può essere piccolo o grande, può essere un lutto, un trasloco, la fine di un amore, o semplicemente il giorno in cui ti guardi allo specchio e cominci a riconoscere il tempo che scivola via, ed è anche il momento in cui, almeno per alcuni, ti poni in ascolto, affini lo sguardo, e quello che con quello sguardo raccogli diventa scrittura. E questo fa Covacich: guarda vicino, alle persone che ama, e che pure diventano personaggi, perché riesce a cogliere l’essenza di quel che sono davvero in un gesto, nel modo di raccogliersi i capelli con una matita, nella luce che piove sul viso durante un pranzo, nel salvataggio di un criceto bagnato, persino. E guarda al mondo dei penultimi, ai senzatetto e ai lavavetri, persino agli alberi che vengono mutilati perché i condomini possano avere più luce.
Guarda alle donne, anche. Lo fa cogliendo i segnali di un ulteriore cambiamento, mentre, a dispetto delle raccomandazioni mediche, corre lungo gli argini del fiume dietro una ragazza che esercita il proprio dominio sul corpo, lo leviga e lo muta secondo il suo volere, ed è cosa che accade sempre più, questo votarsi a un’ascesi della carne che assottiglia e allunga e rende quei corpi forti e sottili, e magari non è un caso che siano voci di donne smaterializzate, donne che non ci sono più, a parlare nelle pagine del libro (le voci di Anne Frank e di Etty Hillesum). Lo fa, infine, mettendo in gioco il corpo dello scrittore, come ha sempre fatto: e dunque la mente, perché, come ha scritto tempo fa, “La mente è la rete in cui il mio avampiede, il mio cuore, il mio glicogeno, i miei desideri, la mia memoria, tutto me stesso dialoga con tutto me stesso e con ciò che dall’esterno modifica o può modificare me stesso”.
Non è autofiction, o non nei confini in cui chiudiamo oggi l’autofiction: ti racconto il mio dolore, la mia gioia, la mia famiglia, la mia malattia, il mio amore perduto, il mio lutto, mia madre, mio padre. E’ il processo inverso: è trasformare la vita mentre scorre, e senza eventi clamorosi, senza irreparabilità, in narrazione. E’ sapere, come diceva Philip Roth, che “scrivere è avere torto tutto il tempo”, ed è per questo che non si può fare altro che scrivere, ed è per questo che infine lo scrittore e il lettore si incontrano a dirsi che se la vita non è proprio così lo è, di certo, la letteratura.