LA MERLA, LE SCRITTRICI, BENJAMIN FRANKLIN

Oggi comincia la sesta edizione de I giorni della merla, il piccolo festival d’inverno che Lucia Tancredi e io abbiamo immaginato nel 2016, inizialmente come focolare davanti al quale raccontare storie e leggerle, e poi, man mano, come occasione di pensiero e riflessione. Per la prima volta, saremo solo online, come tutti. E se la mancanza continua a esserci, è anche vero che forse potremo raggiungere anche chi non sarebbe potuto essere a Macerata, sorseggiando i meravigliosi tè di CoseDiTè (io però li ho ordinati e li sorseggio a casa, con amore).
Riordinando gli appunti, mi sono resa conto che a intervenire saranno quattro donne (Vera Gheno, Valerie Perrin, Susanna Nicchiarelli, Elisa Cuter) e un uomo (Ivano Dionigi). Ho sorriso perché non è stato frutto di un calcolo a priori, mio o di Lucia. Semplicemente, le abbiamo “viste”.
In queste settimane sono usciti, e usciranno, molti romanzi di scrittrici: Teresa Ciabatti, Antonella Lattanzi, Giulia Caminito, Donatella Di Pietrantonio, Maria Grazia Calandrone, Carmen Pellegrino, Marilù Oliva, Silvia Avallone, Francesca Serafini, e di certo ne dimentico tante. E’ strano, è singolare, che anche in modo gentile si racconti il tutto come “fenomeno”, più che come letteratura. Strano, ma non nuovo.
Nel 2011, quando i blog erano giovani, Wu Ming 1 scrisse un lungo commento qui. E, nel riportarlo, mi rendo conto che sono passati dieci anni, e le cose non sono molto cambiate. Buon week end.
“Non ci suona mai strano che quando si parla di scrittori si facciano quasi sempre elenchi di autori maschi, mentre gli elenchi di autrici, nove volte su dieci, si fanno solo se si sta parlando di “scrittura femminile”. Fuori da quella cornice specifica, elencare solo autrici suona strano, e se qualcuno lo fa (come Alfonso Berardinelli in una puntata recente di Fahrenheit), gli viene subito chiesto: “Come mai ha elencato solo donne?” (Berardinelli ha risposto, più o meno: “Mi è venuto così. Se avessi elencato solo uomini, me l’avrebbe fatto notare?”)
Noi maschi abbiamo abitudini, espressioni del nostro carattere, rituali quotidiani che si sono sviluppati grazie alla disparità tra i generi. Per forza tendiamo a non vederla, e ce la devono far notare le donne. Noi siamo totalmente immersi nella disparità. Quindi la nostra percezione, in sé, vale poco o nulla. Quando un maschio mi dice che non gli sembra che in giro ci sia tutta questa discriminazione della donna, io gli rispondo: “Appunto: non ti sembra”. Tu dici che “non osservi” disparità. No, Giuseppe, tu (come me) la disparità non la vedi. E’ diverso. Noi non la vediamo, non ce ne accorgiamo nell’immediatezza, dobbiamo ogni volta “pensarci”, arrivarci con il ragionamento, sforzandoci di guardare da fuori la nostra posizione di predominio.
Tutto è sessuato: esiste eccome una scrittura maschile, un cinema maschile, un’arte maschile, solo che quella “mascolinità” è interpretata come la normalità, la natura delle cose, perché il punto di vista maschile sul mondo è quello dominante, è quello “di default”. Quindi tale “sessuazione” viene notata e fatta notare molto più di rado. Noi maschi nemmeno ce ne accorgiamo che il mondo è sessuato a nostra immagine e somiglianza, devono sempre farcelo notare coloro che ci vivono in modo …meno comodo. Invece lo sguardo delle donne (che, s’intenda, è uno sguardo plurale, molteplice; non vorrei essere frainteso e accusato di considerare le donne tutte uguali!) è considerato l’eccezione, “l’altro” punto di vista, da tenere in considerazione per “contentino”, e in ogni caso è la cornice minore, il sotto-insieme.
Per questo si parla di autrici prevalentemente in dibattiti a tema specifico (”il ruolo delle scrittrici” etc.), mentre si parla di autori maschi sempre. Appunto: noi siamo “l’impostazione di default”: accendi un qualunque terminale della macchina sociale, e parte la modalità maschile; per tener conto delle donne, un maschio deve sempre andare sulla barra degli strumenti, cliccare “Opzioni” e cambiare l’impostazione.
Quello che fa intuire la “sessuazione” di un’opera è soprattutto ciò che nell’opera viene rimosso. E’ dall’assenza, dalla mancanza, dall’esclusione di aspetti della vita fondamentali ma ritenuti automaticamente “pertinenti” al solo mondo femminile che si capisce quanto un autore maschio rimanga confinato nel proprio punto di vista o in che misura riesca a uscirne, o almeno problematizzarlo.
Faccio l’esempio dell’Autobiografia di Benjamin Franklin. Da sempre Franklin è visto, descritto e ammirato come l’epitome dell’inventore poliedrico, del “self made man”, del genio-a-tutto-tondo: scienziato, filosofo, politico, scrittore, editore, affarista, imprenditore, diplomatico, educatore… Un autentico prodigio. E l’autobiografia racconta questa parabola umana caratterizzata da versatilità, quasi-ubiquità, vulcanica verve e volontà di potenza creatrice. Il libro è uno dei grandi classici della letteratura (e dell’ideologia) americana.
Ora: Franklin ebbe tre figli e una plètora di nipoti.
Franklin ebbe sempre tutto il tempo che voleva per dedicarsi alle sue numerose imprese per un motivo molto semplice e banale. Talmente banale che nessuno ci pensa mai, e questo vale per *tutti* i Grandi Uomini della Storia (artisti, politici etc.)
Il motivo molto banale è che dei suoi figli se ne occupò esclusivamente la moglie. Come tante, innumerevoli mogli e compagne, quella donna si occupò dell’ambito domestico e parentale, lasciando libero l’uomo di “estroflettersi” verso il mondo e l’Imperitura Memoria.
E questo è il grande rimosso dell’opera che ho preso ad esempio. Questo mondo in ombra che permetteva lo svilupparsi del mondo baciato dal sole, nel libro di Franklin è presente solo in sporadici, vaghissimi incisi e parentesi, e sempre come pretesto per rafforzare ulteriormente l’immagine del Franklin “saggio uomo pubblico”. Un esempio?
“Nel 1736 persi uno dei miei figli, un bel fanciullo di quattro anni, a causa del vaiolo contratto nella maniera solita. Ho rimpianto a lungo amaramente e tuttora rimpiango di non averglielo fatto iniettare come vaccino. Ne parlo nell’interesse di quei genitori che trascurano questa operazione […]” etc. etc.
“Un bel fanciullo di quattro anni” è tutto ciò che veniamo a sapere di quel bambino. Suo figlio. Un fantasma. Un’ombra passeggera.
Ecco, questa per me è l’apoteosi della scrittura sessuata maschile.
E, attenzione, non è solo un problema del XVIII secolo: persiste ancora oggi, raramente messo in discussione.
In quanti, leggendo un libro scritto da un uomo, si accorgono della suddetta esclusione?
In quanti romanzi scritti da uomini si tiene conto dell’immensa mole di lavoro femminile sovente non riconosciuto come tale (lavoro domestico, mestiere di madre, di moglie etc) che, se non venisse svolto, eliminerebbe la possibilità di vedere i personaggi maschili scorrazzare sulle pagine, saltando da un’impresa all’altra?”

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