QUANDO I QUOTIDIANI MISERO IL PETTEGOLEZZO IN PRIMA PAGINA

Abbiamo tutti (o quasi) discusso della rubrica di Corrado Augias, del suo aver confuso una mail di phishing con una mail di Enel, qualcuno ne ha approfittato per la solita (e miserella) polemica generazionale, altri – e anche io fra questi – hanno manifestato la propria preoccupazione non solo per la disattenzione del desk, e di chi ha dato il visto alla pubblicazione, in non pochi ci siamo interrogati sullo stato di salute dei quotidiani, sul loro rincorrere i social, sulla mutazione del linguaggio e, vorrei aggiungere, dello scopo ultimo.
Ora, io non so cosa accadrà in futuro, ma so quando è cominciata ad avvenire la mutazione dei quotidiani. Lo so perché c’ero, e ne ho scritto. Era la tarda estate del 1992, ero in campagna con la figlia neonata e scrissi un articolo per Repubblica dove davo conto di uno strano fenomeno: la trasformazione dei quotidiani in rotocalchi. L’articolo era questo:
“C’era una volta (e neanche tanto tempo fa) una barriera che distingueva l’ informazione in austera e frivola, in quella destinata a restituire, attraverso la stampa quotidiana, una fotografia del reale e quella che all’obiettività preferiva il teleobiettivo, da puntare su abbracci clandestini e tintarelle scollacciate. Come se, in anni di ideologie forti, il giornalismo “serio” avesse ripudiato con decisione l’ originaria e comune venatura pettegola, delegata una volta per tutte agli specialisti del settore: quei rotocalchi popolari che, scelto un bersaglio (nella stragrande maggioranza dei casi proveniente dal mondo dello spettacolo, e laureato Vip proprio dall’attenzione dei quotidiani), ne scandagliavano il privato, spesso reinventandogli una personalità a forza di fotografie rubate e congetture maliziose. E là si chiudeva il cerchio, lasciando magari aperta la possibilità di suscitare curiosità in qualche intellettuale amante del kitsch: ma niente di più.
Oggi questo sistema di vasi comunicanti è stato ribaltato: e, con forza maggiore nell’estate appena trascorsa, i rotocalchi scandalistici sono divenuti serbatoi per le prime pagine dei quotidiani, dediti con improvvisa sollecitudine ai teletopless, agli adulteri coronati, agli amori fra regista- patrigno e figliastra-aspirante attrice. Cambia la richiesta da parte del pubblico o cambia la mentalità di chi fa informazione? Per Santi Urso, vicedirettore di quel Novella 2000 che si è rivelato il più saccheggiato fra i rotocalchi rosa, il fenomeno è sempre esistito: “Dobbiamo andare indietro di vent’anni per non trovare sui quotidiani la notizia privata: mi rifiuto di credere che se il caso Allen fosse scoppiato, poniamo, nel 1987, non avrebbe avuto le prime pagine. E’ vero, semmai, che l’ ultima estate è stata fitta di avvenimenti. In sole tre settimane abbiamo avuto il bacio di Brigitte Bardot con il collaboratore di Le Pen, il piede della Ferguson e il topless di Lilli Gruber: è come vincere alla lotteria tre volte di seguito. Del resto, il costume si è modificato insieme alla società: nella seconda guerra mondiale Life metteva in copertina i carri armati. Se oggi in copertina c’ è il topless, questo è sintomo di pace e di libertà. E non necessariamente di frivolezza. L’adulterio di Sarah, nel suo campo, ha una pertinenza paragonabile a Maastricht. Se non andasse in prima pagina, vorrebbe dire che è in atto una crisi gigantesca: una guerra, o qualcosa del genere. Ma ora come ora, se fossi il direttore di un quotidiano e dovessi pubblicare una foto di un somalo o una della Gruber, metterei senza esitare la Gruber. Anche la Gruber, magari: una foto così allontana l’ ansia”. Semmai, per Urso, i veri problemi sorgono quando a trattare certo materiale sono i non addetti ai lavori: “Quello che mi ha stupito in modo terrificante, e su cui mi piacerebbe interpellare l’ Umberto Eco della Fenomenologia di Mike Bongiorno è la storia dell’ alluce di Sarah Ferguson, su cui sono stati imbastiti fior di servizi. Ma non esiste nessun alluce: il suo partner le ha semplicemente baciato la pianta del piede. Non meno erotica, d’ accordo, ma di alluce non si parla: la foto è chiarissima”.
Paolo Mosca, direttore del periodico rivale Eva Express, cita invece come determinante il caso Allen: “Perché, avendo come protagonista il regista- simbolo dell’ impegno, ha unito pubblico culturale e pubblico ‘ rosa’ , l’ intellettuale e il pettegolo; ognuno appagato da due diversi modi di trattare la notizia: quello del sociologo e il nostro, che avevamo, per altro, già anticipato sei mesi fa la rottura fra Allen e la Farrow. Bisogna poi considerare che l’ informazione italiana si sta inglesizzando, e che si va considerare che l’ informazione italiana si sta inglesizzando, e che si va dissolvendo la distinzione provinciale fra informazione di serie A e informazione di serie B. I telegiornali sono stati i primi ad adeguarsi e dare ampio spazio al cosiddetto ‘ rosa’ , anche se sarebbe più corretto parlare di notizie non di impegno politico, ma di rilevanza sociale. I tradimenti coniugali di Sarah e Diana hanno il loro risvolto di costume, denunciano che non esistono più aristocratici in grado di sostenere la seriosità della monarchia. Se anche i quotidiani si rendono conto di questo, è un fatto che serve a noi e a loro, e che fa guadagnare pubblico alla carta stampata rispetto alla televisione”. Che, per Mosca, è la causa prima del miscelarsi dei due pubblici: “Con il telecomando si passa tranquillamente dalla tribuna politica allo sport e al varietà. Il lettore non vuole più un canale  solo. Trasferisce la stessa filosofia, la stessa decodifica del reale, dal piccolo schermo ai giornali”. Sede naturale, per Urso, della chiacchiera: “Mi dia un’ altra definizione di giornalismo che non sia pettegolezzo. La differenza è che in questo mestiere si può scegliere tra raccogliere voci o veline. Ma davanti al pettegolezzo io mi alzo in piedi: non avremo, come i francesi, un Voltaire cui fare riferimento, ma chi lo taccia di scarsa dignità culturale è in errore. E non sa coglierne l’ ironia”.
Pochi giorni dopo, risposte Umberto Eco in persona. Con questo articolo:
Repubblica ha affrontato ieri un serio problema del giornalismo nazionale, sempre più intento a sbattere in prima pagina il pettegolezzo rosa. Non posso che esserne lieto, dato che da tempo sulla mia rubrica de L’Espresso dedico alcuni interventi a questo problema, e in particolare al fatto che la stampa quotidiana diventa sempre più succube della televisione, i cui eventi (anche i più frivoli e accidentali) determinano la cosiddetta agenda dei giornali. Alcune mie osservazioni severe sul ricorso televisivo al pettegolezzo, o all’esibizione trionfalistica di personaggi marginali, mi hanno addirittura provocato una tirata d’orecchi da parte di Beniamino Placido.
Ritenendomi quindi insospettabile di lassismo, vorrei tuttavia tentare una rivalutazione del fenomeno nel suo complesso, dato che il moralismo non paga, se non è accompagnato dalla riflessione storica e antropologica sulla dinamica del costume. Siamo l’unico paese in cui la stampa dà ampio spazio al pettegolezzo? Certo no, perché non siamo noi che abbiamo inventato i patemi di Lady Diana o l’ amante di Bush. Però in altri paesi (salvo casi che colpiscono a fondo l’ opinione pubblica, come quello di Woody Allen, che fatalmente merita almeno una volta la prima pagina, come l’ assassinio di Torvaianica o il dibattito Bruneri- Canella) esiste una netta divisione tra i giornali pettegoli della sera e i giornali “seri” della mattina. Il nudo di Lilli Gruber o l’esclusione di Chiambretti da Venezia raramente apparirebbero sulla prima pagina del Times e di Le Monde, e neppure sulla seconda o sulla terza. La settimana scorsa Liberation, che pure è un giornale spregiudicato, dedicava una foto all’espulsione di un’aspirante Miss Italia dal passato sessuale impreciso, ma era come uno stelloncino di varietà, nelle pagine interne, per alleggerire il peso di altri dibattiti.
Ora da noi questa distinzione tra stampa seria, che parla del Golfo, e stampa del pettegolezzo, che parla di indumenti intimi o della loro assenza, tende ad affievolirsi. Tuttavia si potrebbe osservare che questa intrusione del pettegolezzo nella vita politica, letteraria o addirittura ecclesiastica, non è un prodotto dei mass media, al contrario. Il pettegolezzo è una profonda esigenza sociale: nelle società primitive, come ancora nel più sperduto dei villaggi, tiene il posto della storiografia, fa sentire i membri del gruppo sociale mutuamente legati, crea interesse per l’ altro, e la comare che sussurra vita e miracoli dei suoi compaesani è altrettanto importante del prete, o del cantastorie. Nel passato non si temeva neppure di mescolare il pettegolezzo ad attività socialmente più rispettate. I poeti latini ne facevano argomento letterario, e Orazio oggi sarebbe considerato un dannato pettegolo mentre Catullo (che si perdeva anche a raccontarci che avrebbe voluto fare con la sua ragazza “novem continuas futuationes”) oggi potrebbe trovare un accesso discreto e controllato da Costanzo, ma Augias sarebbe imbarazzato nell’ ammetterlo a Babele. Sappiamo tutto degli amori di Anna d’ Austria e di Buckingham e persino delle subdole profferte di Richelieu, che non li ha inventati Dumas; esisteva un genere letterario che si occupava di queste cose e le Historiettes di Tallemant de Reaux sono una immensa raccolta di pettegolezzi secenteschi (nove volumi!) dove si raccolgono persino battute e scherzi che a noi non fanno più ridere, ma di cui all’epoca si era ghiottissimi. Samuel Pepys era un pettegolo forsennato e riteneva di interesse pubblico raccontare persino quando era andato di corpo, Cyrano de Bergerac spettegolava così malignamente che (essendo lui, al contrario della sua immagine rostandiana, omosessuale attivo al punto di essersi preso la sifilide) si prendeva gioco di un altro omosessuale dicendo che era così timido da nascondersi sempre dietro le spalle degli altri. Cosa saprebbe la Storia delle mogli di Enrico VIII senza le storie di corte? Il pettegolezzo si intrecciava così strettamente alla vita politica da determinarla: si sapeva che la tal dichiarazione di guerra era dovuta al consiglio della tale amante, una battuta acida del re distruggeva una prosapia, la società romana spettegolava sui bastardi del papa, Cavour era bene informato delle debolezze di Napoleone III prima di mandargli la Castiglione…
C’ era però una differenza rispetto a noi: in questo turbinio di pettegolezzi, di cui la storiografia ha fatto tesoro, esisteva quasi sempre una marcata divisione sociale del pettegolezzo. I contadini erano al corrente dei pettegolezzi di villaggio, le dame della buona società solo dei pettegolezzi sessuali e letterari (a meno che non fossero politicamente attive come la Chevreuse), gli uomini di alto rango sapevano tutto, e quante amanti avesse il monarca, e quanti uomini stesse raccogliendo per l’armata. Quello che caratterizza, e in un certo senso assolverebbe, la nostra società democratica è che i pettegolezzi (visto che sono ineliminabili) sono alla portata di tutti, tanto quanto le notizie economiche, scientifiche e politiche. Anche chi ha fatto solo le elementari viene messo al corrente, al tempo stesso, della crisi balcanica, degli amori di Sarah Ferguson, dei litigi tra Berlusconi e i suoi calciatori, del duello Bush-Clinton e della differenza tra Jennifer e Gennifer. E’ vero che qualcuno preferisce leggere solo i giornali sportivi, ma era anche vero che molti romani hanno preferito gli orsi a Terenzio. Però quei romani sapevano poco degli “arcana imperii”, e al massimo spettegolavano (a voce spiegata durante i trionfi) sulle propensioni sessuali di Cesare, ma sino all’ultimo momento non sapevano quante possibilità si salire al potere avessero Galba o Antonino Pio. Oggi tutti hanno gli stessi diritti a sapere tutto.
Eppure è questa cancellazione della divisione sociale del pettegolezzo che costituisce il pericolo dei nostri mass media. Così come agli inizi della televisione i sociologi ci avevano raccontato che, per molti spettatori impreparati, non c’ era differenza di genere nel corso della serata, e si prendeva sia il telegiornale che il telefilm come rapporti di pari veridicità sulla stessa realtà, oggi non solo gli indotti ma persino i dotti non riescono più a districare la notizia pettegola dalla notizia che fa tremare il mondo. E qui si inserisce il dibattito sulla responsabilità dei mass media, ovvero della loro etica. Il fatto che certe attività siano vecchie quanto l’ uomo non ci esime dal rivederne la dinamica, alla luce del nostro costume. E’ verissimo che nelle guerre del passato la soldataglia, non appena ammazzava un nemico, si attardava a spogliarlo e talora a tagliargli un dito per rubargli un anello, a costo di compromettere la continuazione dell’ azione militare; ma oggi chi facesse così sarebbe passato per le armi. E’ vero che la civilissima Tangentopoli fa sorridere rispetto a costumi più arcaici, in cui si comperavano pubblicamente le cariche e gli appalti; ma oggi l’ opinione pubblica reagisce scandalizzata. E’ vero che le favorite del re facevano pubblicamente politica, ma oggi noi lo riteniamo un capo d’accusa. E’ vero che i criminali venivano messi alla gogna dopo un processo sommario, ma oggi la nostra sensibilità soffre del mostro sbattuto in prima pagina, e piangiamo se un sospetto, poi rivelatosi innocente, è stato esposto al pubblico ludibrio. E’ vero che si comperavano i biglietti per assistere alle esecuzioni capitali e ci si portavano anche i bambini; ma oggi ci pare insopportabile che si mostri un uomo mentre muore sulla sedia elettrica, ben più asettica della mannaia. Insomma, abbiamo l’ eterna propensione al pettegolezzo, ma abbiamo anche elaborato diversi principi etici, a cui rendiamo sempre e pubblicamente omaggio: e quindi occorre trarne le conclusioni. Un tempo si gettavano gli escrementi dalla finestra sulla strada, e invitati al palazzo, prima di essere accolti dall’ospite, si espettorava educatamente sui muri dell’ anticamera; ma oggi i giornali sarebbero i primi a denunciare queste pratiche come incivili e anti-igieniche. E dunque occorre essere coerenti coi principi che professiamo. Non si taglia la mano ai ladri, non si pubblica il nome del minorenne arrestato, non si fanno battute sulle caratteristiche etniche, e dunque non si può più essere selvaggi come Orazio: ovvero, si può scrivere in un racconto satirico, ma non sulla prima pagina del giornale, che cosa raccontano gli attaccabottoni incontrati per caso sulla Via Sacra.
Distinguere tra discorsi seri e discorsi frivoli, tra notizia d’ interesse generale e pettegolezzo irrilevante, diventa un dovere etico dei mezzi di massa, al di là di ogni calcolo di “audience”. Può darsi che a un certo punto uno scandalo apparentemente minore, come quello della collana di Maria Antonietta, possa diventare sintomo e forse concausa del crollo di un regime. Sono i casi in cui il pettegolezzo entra nella storia, e saper riconoscere per tempo (e non con troppo e frettoloso anticipo) questi casi, è grande arte e responsabilità giornalistica. Ma guai affidare il servizio a Cagliostro”.
Ventinove anni dopo, sarebbe bene tornare a riflettere su quelle due parole: dovere etico.

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