Argomentone lanciatomi via mail da Daniele . Vostro (se solo avessi un secondo per respirare, sarebbe anche mio).
Cara Loredana,
mi è recentemente capitato, per motivi di lavoro, di avere a che fare con un testo scritto da una giornalista femminista. L’autrice fa continuamente riferimento alle donne ministro chiamandole “ministre”. Essendo nuovo a questo genere di letteratura e dato che raramente mi è capitato di incontrare la parola, ho fatto un rapido giro su internet e mi sono accorto di non essere stato il primo a porsi il fatidico dubbio: è corretto dire “ministra”?
Per andare dritto al nocciolo della questione, e trovare una risposta che fosse il più possibile oggettiva (e quindi che esulasse dai diffusi commenti sulla maggiore o minore gradevolezza del suono della parola – che richiama ad alcuni quello di “minestra”), ho consultato la versione on line del dizionario De Mauro, secondo il quale il termine non solo esiste, ma ha ben tre significati, che cito testualmente:
1 BU spreg. o scherz., ministressa
2a LE sacerdotessa di un culto pagano, destinata al servizio del tempio di una divinità: l’armonia della bellezza e il vivo | spirar de’ vezzi nelle tre ministre (Foscolo)
2b LE entità astratta spec. personificata che si immagina reggere il governo degli avvenimenti umani o intervenire nelle vicende del mondo: la m. | de l’alto Sire infallibil giustizia (Dante).
2a LE sacerdotessa di un culto pagano, destinata al servizio del tempio di una divinità: l’armonia della bellezza e il vivo | spirar de’ vezzi nelle tre ministre (Foscolo)
2b LE entità astratta spec. personificata che si immagina reggere il governo degli avvenimenti umani o intervenire nelle vicende del mondo: la m. | de l’alto Sire infallibil giustizia (Dante).
Il lemma dunque esiste eccome, dato che ne vengono citati impieghi letterari ben consacrati. Questo basta a estenderne l’uso a qualcosa che in realtà non è compreso nei tre significati?
Ho provato a guardare la questione da una prospettiva differente, cercando anche di non lasciarmi “traviare” dal sesso a cui appartengo. Le femministe, e nella fattispecie l’autrice del libro, rivendicano forse una sorta di parità linguistica sulla base della quale per le donne dovrebbero esistere, come per gli uomini, titoli che non siano derivati da una matrice maschile con l’aggiunta di un suffisso (come in direttore/direttrice), ma che siano autonomi (direttora – termine che peraltro compare nello stesso libro). Il ragionamento, ammesso che questo sia veramente alla base delle scelte dell’autrice (o autora, a questo punto), non è privo di logica. Nella lingua si tende infatti spesso a ricreare, anche inconsapevolmente, dei meccanismi gerarchici saldamente strutturati nei simboli e negli archetipi della nostra cultura. Modificare la dose di maschile e femminile nella lingua quotidiana può dunque costituire un primo importante passo affinché gli uomini e le stesse donne acquistino una maggiore consapevolezza e profondità della questione. D’altronde il nostro vocabolario è un entità flessibile e aperta per necessità a tutto ciò che entra nel parlato; una parola nuova o una già esistente, ma impiegata con un nuovo significato, devono quindi essere per forza accettate se appartengono all’uso comune. Nessuno può negare questa evidenza. Usare allora “ministra” o “direttora” come termini correnti è sicuramente un ottimo strumento per combattere questa battaglia linguistica, perché solo l’uso leggitima l’esistenza di un nuovo lemma e di una sua nuova accezione, che non possono certo essere imposti dall’alto.
Questo non basta però a placare la mia diffidenza verso questa novità: c’è modo e modo di proporre una novità e modo e modo di portare avanti una rivendicazione che a buon diritto possiamo definire politica. Nel caso della lingua, uno dei modi è, come abbiamo detto, l’imposizione dall’alto (che difficilmente si può verificare, se non sotto regime dittatoriale), ed è certamente il modo sbagliato. Cosa ci rende sicuri che si tratti del modo sbagliato? Il semplice buon senso. Le parole non si impongono – questa si rivelerà essere la risposta più degna al mio dilemma.
Alcune persone a cui ho posto la stessa questione mi hanno consigliato di considerarla come una “licenza”. Questo punto di vista mi convince ancor meno. Quando leggo un testo, poetico o in prosa, cos’è che mi fa capire di avere di fronte una licenza? Il fatto che ad esempio la parola è usata tra virgolette, o più in generale il contesto: nella poesia la licenza ricorre e si tende a legittimare nell’ottica dell’armonia, della musicalità, della rima, ecc. Viene in questi casi pur sempre inserita all’interno di un “luogo” che allo stesso tempo mi garantisce di disporre di un filtro per distinguere, e capire che la parola viene usata in maniera “illecita”, autorizzata solo all’interno di quello spazio letterario, e con un preciso fine artistico. Anche se in maniera surrettizia, la licenza viene dunque sempre in qualche modo dichiarata, e presa per ciò che veramente è, una concessione all’autore.
Si può nel mio caso parlare di licenza? Nel testo con cui mi sono dovuto confrontare non c’è nessuna nota a margine, non si instaura alcun patto a latere col lettore (specificando le intenzioni ad esempio nella prefazione). La parola ministra compare e basta, non è virgolettata, non c’è una rivendicazione linguistica apertamente dichiarata: manca dunque quel filtro che impedisce al lettore di pensare che l’autrice sia vittima di un clamoroso e reiterato errore. La cosa peggiore è che questa e altre parole vengono effettivamente usate con molta naturalezza, come se fossero già accettate nell’uso comune, cosa che invece non risulta essere vera.
Mi chiedo allora che senso abbia, da parte di un’autrice femminista più o meno consacrata, sfogare la sua indole combattiva ricorrendo a modalità che per certi versi risultano presuntuose, quando non puerili. Ogni autrice o autore ha il diritto di ritagliarsi uno spazio – quello del proprio libro – in cui dialogare col lettore in totale autonomia e seguendo le proprie regole, ma non può negare la necessità di dare appunto vita a un sistema di regole ben esplicito. La realtà è, non la si può negare, e nel suo essere presenta leggi più o meno esplicite che si può rifiutare solo fino a un certo limite. E non si può fingere che nella nostra realtà la parola “ministra” sia il corrispettivo femminile di “ministro”, e che pertanto la si possa usare in quel modo e con quel significato, almeno finché non sia realmente diffusa nell’uso (o inserita nei nostri dizionari). Oppure lo si potrebbe fare, rendendo però il lettore partecipe del mondo ideologico di riferimento che sta dietro una scelta così forte – in quanto non autorizzata – e che, come detto sopra, condivido in qualche misura.
Qual è allora il confine tra femminismo e fondamentalismo?
[oggesù]
Considerazioni sparse, l’ordine è puramente d’apparizione:
1. si può parlare di fondamentalismo se impongo o voglio imporre che tutti usino il mio linguaggio facendolo diventare una legge, ma non quando lo uso io e sono disposta a spiegare le motivazioni alla base della mia espressione linguistica. O forse in un testo divulgativo di filosofia o di ingegneria si chiede il permesso a chi legge prima di usa il termine con cui si indica un concetto o uno strumento? (e per ampliare l’ambito della domanda finale: quando viene ancora usato il termine uomo per indicare l’umanità, si tratta di grammatica, di semantica o di fondamentalismo?)
2. esiste una pubblicazione che risale al 1987 -se non vado errata- della commissione pari opportunità dell’epoca intitolata “raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” che indica come auspicabile l’uso, per esempio, di ministra dato l’origine del termine da un aggettivo latino (minister) che significa inserviente, e che prevede dal punto di vista grammaticale la declinazione in entrambi i generi (ministro, ministra), come d’altronde anche avvocata, il cui uso è per di più anche diffuso come epiteto di Maria madre di Gesù (Orsù dunque avvocata nostra); per le stesse motivazioni grammaticali, la commissione esortava a usare studente o presidente indifferentemente per maschi e femmine, esattamente come si usa l’aggettivo presente. per chi volesse consultare la pubblicazione, ne trova una versione qui: http://www.funzionepubblica.it/dipartimento/docs_pdf/linguaggio_non_sessista.pdf
3. “La realtà è, non la si può negare, e nel suo essere presenta leggi più o meno esplicite che si può rifiutare solo fino a un certo limite.” ollalà, da quando il linguaggio è una legge della realtà? pensavo fosse una convenzione fra parlanti, una descrizione della realtà, che si adegua ai cambiamenti – e quindi, per esempio, nel momento in cui anche delle donne esercitano funzioni fino a quel momento esercitate da uomini, il linguaggio cerca di descrivere la nuova situazione: si può dire ministro donna (ma alle mie orecchie suona come ‘uomo mamma’ per indicare il ruolo di genitore al maschile); si può dire ministressa (ma il termine è già usato per indicare, di solito, chi non esercita la funzione, ma vorrebbe imporre il proprio ruolo come tale – v. papessa); e si può dire ministra. Sarà l’uso a stabilire se il termine ministra è piaciuto o meno – ma finché non lo uso non posso sottoporlo al giudizio della comunità di parlanti.
[lipperini, buon lavoro, ma torni presto a dirimere la questione, please]
Dalla premessa di Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana:
La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione. Ciononostante la maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza — se non paura — nei confronti dei cambiamenti linguistici, che la offendono perché disturbano le sue abitudini o sembrano una violenza «contro natura». Toccare la lingua è come toccare la persona stessa. Ciononostante — e in modo del tutto contraddittorio — si accettano poi neologismi quali «cassintegrato» o «irizzato», per non parlare dei vari barbarismi provenienti dall’inglese, quali «pressurizzare», «imputare» (da «input»), «digitare» (da «digit») e così via. Perché mai questi passano senza problemi? Forse perché non ci coinvolgono a livello profondo? O solo perché entrano nel linguaggio in modo subliminare senza che ce ne accorgiamo? Certo è che, posti davanti al problema se accettare o meno un cambiamento, una nuova parola, si assume spesso un atteggiamento « moralistico». In difesa della «correttezza» della lingua, vista come una specie di cosa sacra, intoccabile. In realtà noi siamo tanto attivi quanto passivi nei confronti della lingua. Il processo di classificazione linguistica è dinamico perchè la lingua ci offre sia le forme già codificate sia una serie di operazioni che ci permettono di classificare nuovi contenuti o di riclassificare la nostra realtà.
Il linguaggio cambia di continuo. I motivi del cambiamento, però, non sono uniformi. A volte, come ha scritto Stefania Terzi, si tratta di necessità indotte da nuove figure collettive, che vanno indicate senza ambiguità. Ma, nel caso di “ministra” o di “sindaca” ecc., io credo di notare qualcosa d’altro. Infatti il “mestiere” di sindaco o di ministro sono già precisamente connotati, quindi il bisogno non è di ulteriormente definire il “mestiere”. Anche perchè, a prescindere dalle diverse sensibilità eventuali, rimane il medesimo, che sia esercitato da un uomo o da una donna. Dunque la distinzione è prodotta dal riconoscimento di un problema esistente, ed ha una funzione riparatrice. In realtà, sappiamo che, a differenza di altre novità linguistiche le quali emergono da realtà emergenti, nel caso delle donne la disparità resta. Quindi credo si verifichi uno sfasamento tra l’uso di termini “riparatori” e il permanere pratico della disparità. E’ questo, immagino, che produce la sensazione di astrazione e di forzatura di queste parole, perchè diventano manifestazioni di falsa coscienza. (Che poi l’analisi dei motivi della discriminazione, attribuiti ordinariamente ad uno strapotere maschile e basta, vadano ampiamente rivisti, è un altro discorso che sarebbe bene approfondire…).
Aggiungo qualche esempio tratto dalle “Raccomandazioni”. In italiano diciamo ragioniere/ragioniera o giardiniere/giardiniera senza alcuna difficoltà, ma storciamo il naso davanti a ingegnere/ingegnera. Questo significa che CULTURALMENTE non siamo pronti ad accettare certi cambiamenti -e cioè che le donne oggi ricoprano ruoli di prestigio o semplicemente ruoli da sempre appannaggio degli uomini – che il linguaggio è pronto a registrare.
Una piccola annotazione su “direttora”. Ci sono delle regole in italiano per cui la desinenza in “o” del maschile diventa “a” al femminile: quindi contadino/contadina, magistrato/magistrata, ministro/ministra, sindaco/sindaca, etc etc. Il suffisso -ore diventa -ice, quindi direttore/direttrice. Non c’è bisogno di stroppiarlo in direttora. Se le regole esistono, applichiamole e punto.
Il femminile esiste nella lingua italiana, me l’ha insegnato la mia maestra alle elementari. Quindi non solo la scelta di dire ministra è autorizzata, ma è obbligata. Nessuno mi impone di dire ministra: io lo dico, correttamente, perché voglio far capire che la persona di cui sto parlando è di sesso femminile. Il discorso ne guadagna in chiarezza. Peraltro, io contesto l’uso di direttora invece di direttrice. Ma trasecolo nel trovare del fondamentalismo nel mettere al femminile la parola ministro. Se accetto che si dica maestro e maestra, dov’è l’ideologismo nel dire ministro e ministra? Solo perché non ci sei abituato? Allora vogliamo discutere sul perché non ci sei abituato? Inoltre porterei l’attenzione di Daniele Parisi sulle parole segretario/segretaria, entrambe di uso comune nella lingua italiana e che secondo me smascherano in pieno l’uso ideologico e sessista che si fa del femminile: nessuno ha nessun dubbio nel chiamare segretaria la signora di presenza gradevole che risponde al telefono nello studio del medico. Andiamo poi a cercare su Google “Renata Polverini”, segretaria nazionale dell’Unione Generale del Lavoro, e osserviamo quante volte viene invece definita segretario. In automatico, si sceglie il maschile solo perché si deve sottolineare il potere e il prestigio che quel ruolo implica.
Beh, istruttivo l’esempio di Barbara su segretaria=lavoro e segretario=carica.
Ma, al di là del discorso grammaticale e di quello ideologico, non c’è anche una questione di “suono” della parola? Come “direttora” è orrendo, e infatti esiste “direttrice”, ci sono parole che declinate al femminile sono orribili: chi direbbe “medica” o “medichessa”? Con tutta la buona volontà sarebbe difficile usarli.
Come mai? Altro esempio: “sindaca” è terribile, saremo tutti d’accordo, spero, perchè maestra e contadina no? Perchè son mestieri subalterni? Perchè donne sindaco ci sono da pochissimo tempo e la parola non è ancora nella consuetudine? Questa seconda ipotesi mi pare ben più probabile.
Ma anche così, sono sicuro che una “perita meccanica” non ci sarà mai, sarei pronto a scommetterlo.
In risposta al punto 1 di Stefania:
Quello che dici è giusto, e infatti il mio dubbio nasce proprio dal fatto che l’autrice usa la parola SENZA spiegare le motivazioni alla base della sua espressione linguistica.
In risposta al punto 2:
Anche io, proprio come la commissione pari opportunità, considero auspicabile l’uso di ministra. Ciò non toglie che la parola non sia usata ANCORA, dopo più di vent’anni dalla pubblicazione che tu citi, come femminile di ministro. Inoltre il desiderio della commissione non può certo valere a legittimarne l’uso (come ho scritto, l’uso non si impone dall’alto).
In risposta al punto 3:
Esiste una “realtà” del linguaggio, cioè un linguaggio che usiamo REALMENTE, distinto da quello che VORREMMO fosse usato. NOI (e mi metto dentro) vorremmo che ministra avesse anche questo significato, ma purtroppo non è ancora così. E questa “realtà” non può essere negata.
Il fatto che termini come “cassintegrato” ecc. passino senza problemi non è nemmeno in questione, nella misura in cui sono usati da chi parla, e chiunque li incontri nella lettura non prova certamente la sensazione di trovarsi di fronte qualcosa di nuovo o, peggio, un errore di battitura o dell’autore.
Non credo poi che si tratti di un problema di “accettazione”, perché chi ha il potere di impedire la diffusione dell’uso di una parola? Forse i maschi sono così autorevoli?
Come farebbero inoltre delle parole a entrare nel linguaggio in maniera subliminare? Che significa? Che qualcuno desidera così fortemente che gli italiani dicano “cassintegrato” da usare metodi subdoli come i messaggi nascosti?
La correttezza o sacralità della lingua è allo stesso modo fuori questione. Io parlo di ONESTà dell’autore, con se stesso e verso il lettore. Io posso scrivere un libro usando parole con significati non riconosciuti (da chi parla, non solo da chi teorizza), ma non posso raccontare a me stesso la bugia che nessuno storcerà il naso.
In risposta a Barbara:
Condivido pienamente le tue osservazioni, ma l’uso di ministra come corrispettivo di ministro non è paragonabile a quello di maestra. La parola è ovviamente carica di significato ideologico proprio perché non è entrata ancora nell’uso, e pertanto è un ovvia rivendicazione, soprattutto se si pensa che il libro è scritto da una giornalista femminista.
@Daniele: “Io posso scrivere un libro usando parole con significati non riconosciuti (da chi parla, non solo da chi teorizza), ma non posso raccontare a me stesso la bugia che nessuno storcerà il naso”.
Su questo mi dico d’accordo, e questo aspetto (che la giornalista si stupisse che si potesse storcere il naso) mi era sfuggito. Se è a questa realtà che ti riferisci, Daniele, sono d’accordo con te: pensare che solo perché io parlo in modo finalmente corretto e aderente a un iperuranio perfetto dove tutte le parole sono quelle giuste, solo per questo motivo tutti mi capiranno, equivarrebbe davvero a rifiutare il principio di realtà.
Invece il subliminare di Sabatini si riferiva secondo me al fatto che siccome ‘tutti’ usano il termine cassintegrato in un certo contesto e più o meno so a che cosa si riferisce, lo uso anch’io, e siccome ‘tutti’ dicono “bipartisan” in un altro, lo uso anch’io, o dato che ‘tutti’ usano computer, non dirò più calcolatore come si faceva ancora negli anni ottanta. Però da qualche parte, in uno scritto, ci sarà stata una persona che ha iniziato a usare il termine ‘senza’ spiegare cos’era, poi l’uso ha fatto il resto.
Ora, se cassintegrato s’intuisce che venga da cassaintegrazione e da un fantasioso verbo cassaintegrare=mettere in cassaintegrazione e di conseguenza diventa un lemma comprensibile e utilizzabile secondo le regole della grammatica italiana, cosa c’è di problematico nell’uso di ministra? non si intuisce che è il femminile di ministro? che lo si usa per indicare che a capo del ministero vi è un essere umano di genere femminile? non si declina secondo le regole della grammatica italiana? e allora, perché dovrebbe essere un problema introdurlo senza spiegazioni? non vedo perché ministra o medica (l’arte medica!) o dottora pongono tanti problemi, e sinergia no (o meglio, lo vedo, e penso che si tratti della questione messa in evidenza nel commento di Barbara).
Ricordo ancora la sorpresa, quando cominciai a leggere manuali di giochi di ruolo in inglese, di trovare nei medesimo paragrafo esemplificativo esempi riferiti alternativamente al maschile e al femminile, tipo «If she rolls 5 or less…» e subito dopo «He may use his ability…»
All’inizio la sensazione era “machecazz…” ma devo dire che è un espediente che alla lunga ha ridisegnato alcuni percorsi neurali, nel mio cervello e mi ha reso un po’ più sensibile alla questione della “sessualizzazione” (si può dire così?) del linguaggio. Piccole scosse al nostro modo di pensare un po’ sonnolento, che possono far bene!
Non mi piace l’aggettivo “puerile”, né quel vago senso di ridicolo che vuole attribuire all’autrice femminista. Potremmo rispondergli, un pò polemicamente: perché dovremmo giustificare uno certo uso del linguaggio, mi fa pensare che siccome l’uomo e la norma e la donna l’Altro in certi paradigmi femministi, sia sempre l’Altro a doversi correggere in rapporto alla norma, per farvisi accettare. Io rispetto molto questo modo un pò inconsueto e forse forzato di agire sul linguaggio in modo da minarne gli stereotipi in esso sedimentati e così consacrati all’immutabilità. Direi che l’uso comune di cui parla l’autore della mail, difficilmente, dato il sessismo imperversante, potrebbe promuovere un cambiamento del costume linguistico in senso femminista; questo giustificherebbe la forzatura, tra l’altro.
Ohibò! “Ministra” e non “ministro”, “autrice” e non “autora”, “direttora” e non “direttrice”? In compenso, le poetesse reclamano a gran voce di essere chiamate “poeti” (in effetti, il “poietès”, per quanto sostantivo di genere maschile, può essere sia maschio che femmina).
E che dire dei tedeschi, per i quali die Sonne è femminile e der Mond è maschile? Femministi ante litteram?
Ho la sensazione che si tratti di questioni di lana caprina. Tra cinquant’anni (o anche meno) saranno cadute nel dimenticatoio.
Non sono sicura che c’entri qualcosa il fatto che in tedesco Sonne sia femminile e Mond maschile. Invece mi pare importante che appena Angela Merkel è diventata cancelliera, in Germania si sia cominciato a usare il termine Kanzlerin invece di Kanzler.
Veramente, nei paesi di lingua tedesca il termine Kanzlerin, come Feldmarschallin e altri (perfino Subsekretaerin) è sempre esistito. Solo che si riferiva alle mogli di cancellieri, feldmarescialli, sottosegretari, ecc. Il fatto importante non è che esista un termine per designare una cancelliera femmina, ma che una femmina sia diventata cancelliera.
Questioni di punti di vista: per me il fatto importante è che una donna sia diventata cancelliera, e che il linguaggio lo sottolinei invece di nasconderlo (perché dire ministro oppure direttore a una donna è proprio nascondere il genere).
Questa mia solo per aggiornare il collegamento sopra citato.
http://www.innovazionepa.gov.it/media/277361/linguaggio_non_sessista.pdf