LA QUEST DI ISHIGURO (E UN PAIO DI COSE SUL FANTASY)

Sir Gawain era il più giovane cavaliere di Artù. Forse per questo accettò la sfida del Cavaliere verde: infliggergli un colpo con la sua ascia, a condizione di ricevere lo stesso colpo dopo un anno e un giorno. Sir Gawain, che decapitò il Cavaliere, venne salvato dalla nobiltà dell’avversario: salva la testa, ma non la vergogna per essersi dimostrato non un guerriero, ma un uomo. Sir Gawain è l’uomo della quest, la cerca, perché il suo viaggio lo porta all’appuntamento fatale con il Cavaliere, e durante il viaggio deve superare le dovute prove. Sir Gawain incontra la Dea Bianca, dirà Robert Graves:  Morgan le Fay, che nel poemetto viene chiamata Morgan the Goddess (la Dea, appunto). Gawain non è un eroe canonico, dirà Wu Ming 4 nel suo saggio, ma è l’eroe imperfetto. E’ già un uomo, appunto, e un uomo che deve la salvezza a una donna.
Sir Gawain appare ne “Il gigante sepolto”, il romanzo di Kazuo Ishiguro che ho letto in questi giorni per prepararmi all’intervista per Fahrenheit.  Non appare casualmente, credo. Nè è casuale che i veri protagonisti della cerca siano due anziani sposi, Axl e Beatrice. La cerca, in questo caso, riguarda non una promessa da onorare, ma una perdita cui porre rimedio: la memoria collettiva e il ricordo personale, e salvando il secondo si recupererà la prima, non senza dolore, perché ricordare significa, spesso, soffrire.
Questo è il cuore del romanzo, bellissimo, di quella dolorosa delicatezza che Ishiguro usò in “Non lasciarmi” raccontando la solitudine di una vita a breve termine come quella dei cloni. Che abbia usato la forma del fantasy è ininfluente, dice lo stesso Ishiguro. Che ci siano orchi e un drago (femmina, anche qui non casualmente, credo), non è il punto. E ha perfettamente ragione, perché uno scrittore usa le forme che ritiene pertinenti per la sua storia, così come Cormac McCarthy usò e piegò le forme della distopia per “La strada”, e Murakami Haruki quella degli spettri per “Kafka sulla spiaggia” e del viaggio nel tempo per “1Q84”.
E’ interessante, però, il modo in cui si sia affannati a dire che “Il gigante sepolto” sia un grande romanzo “nonostante” il fantasy. Perché verrebbe da chiedersi quale malevolo equivoco continui a pesare sul medesimo, e quanto male hanno fatto gli scelleratissimi epigoni di Tolkien (e di Rowling) pubblicati a man bassa negli anni precedenti, e quanto, ancora, non si comprenda delle “Cronache del ghiaccio e del fuoco” il versante che a Martin interessa: non i draghi, ma gli umani.
Cito una riflessione ancora di Wu Ming 4 in questo articolo, dove riporta i malumori nei confronti de “Lo Hobbit” di Tolkien:
“Sembra incredibile, ma, mutatis mutandis, è la stessa critica che veniva mossa a Tolkien negli anni Cinquanta: quella di essersi dedicato a cesellare un altrove coerente dove trovare rifugio dalla realtà. Sembra che siamo ancora lì: non ci si è mossi di un passo da Tolkien l’escapista. Come se la sua produzione narrativa fosse basata esclusivamente sulla costruzione meticolosa di mondo e quello stesso mondo non fosse attraversato da questioni, problemi, conflitti inquietanti, che riguardano la vita di ciascuno. Come se – citando Stephen King – una buona storia non fosse quella che dice la verità su di noi, sulla condizione umana, e l’opera di Tolkien non facesse proprio questo”.
Ci vorrà un bel po’, prima di far capire ai lettori che il fantasy non è immondizia. Che può raccontare, emozionare, stupire (anche linguisticamente, se qualcuno fosse pronto ad alzare il ditino e blaterare qualcosa sulla “lingua di plastica” dei “monnezzoni”) come e più della letteratura americana figlia di Hemingway e di  Carver, che ugualmente è nobile quando è nobile e alta quando è alta. Ugualmente, non alternativamente. Ci vorrà un bel po’, e il mondo degli ultras del fantasy non è sempre d’aiuto (me li vedo, mentre sezionano “Il gigante sepolto” trovando le trasgressioni al presunto canone, porca miseria). Ma prima o poi qualcuno comincerà a sentirsi in colpa per non aver letto Ursula Le Guin.
A corollario, posto l’articolo di Michela Murgia, che merita assai.
“Dopo la disturbante vicenda degli adolescenti cloni di “Non lasciarmi”, abbiamo aspettato dieci anni che la penna visionaria e ferma di Kazuo Ishiguro ci regalasse un’altra storia, ma “Il gigante sepolto” è uno di quei libri che non fanno rimpiangere l’attesa, sia per ricchezza di contenuti che per la scelta anticonformista della cornice letteraria. Questo monumentale romanzo-metafora, pur essendo il libro più politico dell’eccentrica parabola narrativa di Ishiguro, presenta infatti un impianto innegabilmente fantastico, con comparse di folletti, draghi, streghe, magia e cavalieri mirabilmente incastrati in una trama che ricorda le cerche magiche del ciclo arturiano. Non è però il Sacro Graal l’oggetto delle mire dei protagonisti; è la memoria delle persone care perdute, da sempre la principale ossessione narrativa di Kazuo Ishiguro, che neanche in “Quel che resta del giorno” l’aveva posta in termini così espliciti: che accadrebbe di noi se dimenticassimo quel che ci fa male ricordare? Saremmo forse più felici nell’oblio? Che la cattiva memoria sia una delle premesse per la felicità era la teoria prediletta di Ingrid Bergman; se fosse vera, questo romanzo avrebbe tutte le caratteristiche per essere un manuale di letizia. “Il Gigante sepolto”, che poi è la memoria stessa, impone infatti l’atto del dimenticare come premessa per la pace di una terra intera, impoverita dalla guerra medievale tra Sassoni e Britanni. L’oblio sembra essere la condizione per l’armonia tra i popoli che la abitano e persino per l’equilibrio coniugale dei due anziani protagonisti – Axl e Beatrice – che all’inizio della vicenda, stanchi di convivere con qualcosa di cui ricordano solo l’assenza, decidono di mettersi in viaggio per la meta più pericolosa: scoprire di cosa, o di chi, si sono scordati. La loro non è un’amnesia assoluta, un’eclissi totale dei ricordi, ma qualcosa di più sottile e scontornato, una nebbia intermittente della coscienza che fa emergere di quando in quando qualche barlume di consapevolezza. Kazuo Ishiguro conosce molto bene la differenza tra il ricordo, legato all’esperienza personale e diretta di ciascuno di noi, e la memoria, che è invece un patrimonio collettivo che si costruisce attraverso la trasformazione delle vicende individuali in narrazione al plurale. È attraverso quel delicato procedimento che fatti di cui non siamo mai stati protagonisti diretti – le guerre di ogni dove, la Shoa, la marcia di Selma, tutta la storia dell’umanità – possono fare parte della nostra memoria anche quando non fanno parte della nostra esperienza. Ne “Il gigante sepolto” l’interruzione della narrazione collettiva è frutto di una volontà precisa, facile da assimilabile al controllo sociale messo in atto anche nelle nostre società democratiche per non diffondere panico e pessimismo nella cosiddetta opinione pubblica o, in modo meno dichiarato, perché chi comanda non debba fare i conti con versioni della realtà considerate scomode. Nel romanzo l’accoppiata memoria/ricordo compare in forma di contraddizione ogni volta che di un medesimo fatto i protagonisti danno differenti versioni a seconda delle proprie esperienze. È proprio questa molteplicità di letture possibili – che Ishiguro, mai giudicante, pone come tutte legittime – a dividere gli animi, a spezzare l’armonia e a impedire la conciliazione. Se siamo testimoni inattendibili della nostra storia, allora non è meglio dimenticare insieme il fatto originario? Non è più sano scordare tutto e scegliere un oblio che regali la pace condivisa e inconsapevole, invece che un ricordo che genera due memorie ostili e rimette in moto il cerchio della violenza? Come fanno solo i narratori di razza, Kazuo Ishiguro lascia al lettore le domande e si tiene le risposte, affidando a quell’insolita coppia di anziani innamorati e confusi il compito di mostrarci quanto può essere alto il prezzo che si paga per riappropriarci della consapevolezza dei nostri errori e perdonarceli a vicenda”.

7 pensieri su “LA QUEST DI ISHIGURO (E UN PAIO DI COSE SUL FANTASY)

  1. “E’ interessante, però, il modo in cui si sia affannati a dire che “Il gigante sepolto” sia un grande romanzo “nonostante” il fantasy”.
    Ogni volta che leggo frasi come questa, non posso fare a meno di chiedermi chi siano questi anonimi critici pieni di pregiudizi che si ‘affannano’ (cioè non sono atletici e sereni come noi amanti del fantasy; sono persone sovrappeso e anche un po’ invidiose, immagino. Comunque, anonime).
    Capita anche con altri generi, ovvio.
    Gli amanti dei gialli citano ancora con odio quel che disse, contro il loro genere, Edmund Wilson nel 1949. Sarebbe interessante sentir citare sull’argomento qualcosa scritto nei successivi 66 anni.

  2. E se invece il nuovo romanzo di Ishiguro fosse non un granché proprio perché ha cercato di “indossare” un genere giusto per fare qualcosa di diverso ? Le Guin lo ha sgamato e mesi addietro si son beccati un po’
    http://www.theguardian.com/books/booksblog/2015/mar/05/kazuo-ishiguro-the-buried-giant-fantasy-novel
    Ormai la fantasy non ha più motivo di essere difesa e se c’è ancora qualche critico con problemi di digestione è un problema suo… il pubblico recepisce benissimo, fin troppo… il problema è che la fantasy non esiste… si è voluto a tutti i costi creare un nuovo genere (l’industria culturale lo ha creato non il pubblico) e metterci Tolkien come capostipite (che mai nella vita avrebbe accettato una cosa del genere) quando sarebbe bastato continuare a prendere sul serio la fiaba (Tolkien è un favolista, l’ultimo grande favolista probabilmente) ma vuoi mettere ? Un nuovo genere con tanti sottogeneri e tanti scrittorucoli che rimpolpano di continuo e poi la tv i gadget etc etc… Ma un genere non è una scarpa da infilarsi alla bisogna (magari qualche buon scrittore ci riesce pure eh) Nel cinema solo Kubrick è riuscito nell’impresa, un genere dopo l’altro un capolavoro dopo l’altro (anche il western ma abbandonò – per casini con Brando – I due volti della vendetta) perché di fondo era innanzitutto un grande cineasta. Ishiguro non è un grande scrittore, l’idea della memoria è buona (quando mai non lo è) e ha cercato di usare un genere come allegoria non credendoci fino in fondo…

  3. Oddio, pure sulla questione del “solo Kubrick” se ne potrebbe parlare (Hawks, per dire, fischiava?): il suo è statp uno sfruttamento e una vampirizzazione intellettuale dei generi, una loro assunzione dall’esterno (dall’alto), che è stata anche giustamente contestata da chi ai generi ci crede, come un Cronenberg. Shining rimane un capolavoro, per carità, però prenderlo sempre a modello non è completamente produttivo, imho.

  4. Leggerò Ishiguro davvero incuriosito dalla recensione e dall’idea.
    Quanto al Cinema e ai generi, per fortuna, la questione si pone molto più relativamente e marginalmente rispetto alla letteratura: i cosiddetti “film d’autore” sono una minuscola minoranza, e i registi anche colti non hanno mai avuto problemi a cimentarsi coi generi. Come disse Mckey: tutti i film sono film di genere.

  5. “I cosiddetti ‘film d’autore’ sono una minuscola minoranza” e noi vincenti preferiamo stare col più forte, vero?
    In effetti ho sempre pensato che festival come quello di Venezia siano una versione moderna e soft delle mostre sull”arte degenerata’ del nazismo. I vincenti non vanno a Venezia o a Cannes o al Sundance: vanno alla Comic-Con di San Diego a sbavare sulle anticipazione dei prossimi film Marvel-D.C.

  6. Detto in maniera meno provocatoria: se in parte della critica letteraria può permanere una certa diffidenza nei confronti di molta letteratura di ‘genere’ (passi i gialli, passi la fantascienza, ma di critici che amino gli Harmony non ne ho ancora trovati), in quella cinematografica assolutamente no, almeno fin dagli anni Cinquanta e dai Cahiers du Cinema, che incoronarono il cinema di genere come il ‘vero’ Cinema. La cosa è talmente assodata da essere diventata luogo comune e perciò pigrizia mentale. Non saperlo (e citare a sostegno di una tesi che nessuno contesta il famosissimo McKey invece degli sconosciuti Truffaut e Godard è un bel po’ snob).

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