LA RESA

Premessa. Questo post comincia con un’autocitazione: non sarà bello, ma ne capirete il motivo.
Dunque,il 14 gennaio 2011 ho scritto un articolo per Repubblica che si chiamava Pronti alla resa: lo trovate qui.  Due anni e mezzo fa, le ragioni che avrebbero portato al sanguinoso stato delle cose in ambito editoriale, erano già chiare: non a me, non ho la palla di cristallo, ma a  tutti coloro che in quel mondo lavoravano. I libri restavano in libreria quindici-venti giorni. Già due anni e mezzo fa. La politica dei mini prezzi di Newton Compton avrebbe ingenerato una rincorsa al ribasso (anche qualitativo, evidentemente): e tutti lo sapevano. Gli editori, nella gran parte, tralasciavano l’antico compito di far crescere gli autori che pubblicavano per dare la caccia a esordienti a basso costo e grande entusiasmo cui possibilmente commissionare romanzi da inserire in un filone di presunto successo. E tutti lo sapevano. I responsabili marketing, che in molti casi sono i veri direttori editoriali, inseguivano tendenze che si sono rivelate fallaci invece di proporre un progetto coerente. E molti scrittori si sono adeguati.
Per questo motivo, farei un piccolo distinguo rispetto a quanto scrive Andrea Bajani, che conclude il suo articolo di oggi attribuendo l’attuale sciagura al berlusconismo. Non è solo  una questione di berlusconismo: o meglio, il berlusconismo è figlio e prodotto di una generale ostinazione  a non voler progettare strategie di lunga durata. La politica delle rese si deve a questa ostinazione. La rincorsa di questa o quella moda (le sfumature, il fantastico, il new adult, il memoir, il libro di ricette) si deve a questa ostinazione (o miopia). Dunque? Dunque, parafrasando il titolo del libro di Giuseppe Culicchia che Bajani recensisce, il consiglio più onesto che si possa dare a un esordiente non è quello di scoraggiarlo. E’ di dirgli “nulla è sicuro, ma scrivi” (come poetava  Fortini). Magari non pubblicherai ora. O, se pubblicherai, rischierai che la tua opera, su cui hai sudato per anni, faccia un’apparizione fulminea in libreria e poi sparisca. Ma scrivi lo stesso, e leggi, e scrivi ancora. Prima o poi la nottata finirà: con l’augurio che gli esperti di strategie di vendita, in molta parte, rivedano le proprie convinzioni. E si convincano che i libri sono certamente un prodotto: ma talmente anomalo che le regole del mercato, per i medesimi, non sono le stesse che si applicano alle passate di pomodoro.
Qui sotto, l’articolo di Bajani.
A furia di veder entrare in libreria scatoloni di novità editoriali per poi vederle uscire pochi mesi dopo per far posto sui banconi ad altre novità, forse rinunceremo all’anacronistica divisione tra periodici e libri. O meglio: forse smetteremo di rubricare i libri tra gli oggetti sottratti alla prosaicità della durata, per rassegnarci finalmente a chiamare anch’essi periodici, etichetta un tempo destinata – come tutti sanno – ai quotidiani e alle riviste. La tagliola del tempo, così si pensava, scattava su quel che era effimero. Il libro no: saltava la staccionata del tempo a gambe unite, e poi restava. Chiamiamoli periodici, questi oggetti cartacei che sgomitano per conquistarsi decimetri quadrati in libreria, che si sbracciano (“Prendimi! Dammi una possibilità!”) per essere raccolti dagli occhi di qualcuno, e che poi finiscono inesorabilmente trascinati via di peso come pazzi dopo poche settimane di vendite sbiadite. Per essere buttati e chiusi dentro le segrete dei magazzini editoriali, e da lì, infine, nella fossa comune del macero, previa lettera all’autore per notificargli che quella è l’ultima stazione della via crucis della sua opera immortale. Timbro, spedizione, e il libro finisce smaterializzato in uno sbuffo di polvere di carta.
È a questo che fa pensare “E così vorresti fare lo scrittore” (Laterza), l’incursione amara di Giuseppe Culicchia nella cosiddetta filiera del libro: autori, lettori, editori, librerie, giornali, televisioni, radio, premi, festival letterari. Il quadro è a suo modo spietato, anche se il registro che Culicchia usa è sarcastico, facendo virare la denuncia verso il disincanto, piuttosto, e la delusione, con una punta d’ironico cinismo. Che cosa è successo, nel tempo che è passato tra l’infanzia nei primi anni Settanta («Mi addormentavo con un libro tra le mani e la mattina dopo riprendevo a leggerlo facendo colazione», «In quella frase, in quel romanzo, c’era tutto. Il dolore e la gioia. La vita e la morte») e il suo ingresso in quello che Culicchia chiama «il dorato mondo delle Lettere», in cui non si fa altro che ripetere «In Italia sono più quelli che scrivono che quelli che leggono»? Che cosa è successo a questo Paese nel frattempo?
Giuseppe Culicchia si rivolge a un ipotetico aspirante scrittore, utilizzando la celebre tripartizione con cui Arbasino suddivideva cronologicamente la carriera di un autore: Brillante Promessa, Solito Stronzo, Venerato Maestro. La carrellata è quella di un falò delle vanità, di una specie di farsa in cui non si salva nessuno. Quello che si appresta (o aspira) ad attraversare l’ipotetico scrittore è un paesaggio ridicolo, grottesco a tratti. Ai turlupinamenti dell’ufficio stampa ai danni degli autori si aggiungono le distrazioni intrinseche dei giornalisti, il cinismo delle televisioni, i successi illusori dei libri, la falsa competitività dei premi, la zavorra degli omaggi profferti a fine presentazione.
Alla fine di questo libro però verrebbe voglia di far virare quella delusione e quell’ironico disincanto – che pure non concedono sconti, ma comunque attenuano gli spigoli – verso la denuncia. Viene voglia di reclamare un pensiero politico, al «dorato mondo delle Lettere», e a chi lo attraversa come un paesaggio bombardato. Che Paese è quello in cui gli editori rovesciano sui banchi delle librerie esordienti a buon mercato pronti ad abbandonarli al primo insuccesso? Che Paese è quello in cui i libri che arrivano in libreria sono pieni di refusi, traduzioni malpagate non riviste, sciatterie sparse per le pagine? Che Paese è quello in cui i giornali non parlano più di un libro a due mesi dall’uscita perché non è più una novità?
Che Paese è quello in cui i cosiddetti intellettuali rilasciano opinioni affrettate al telefonino, mentre guidano, o mentre guardano il primogenito che si appresta al calcio d’angolo al novantesimo? Che Paese è quello in cui si accetta che degli insegnanti di lettere dicano che non hanno tempo di leggere? Che Paese è quello in cui nessuno si chiede più di che editore sia un libro perché gli sembrano fondamentalmente tutti uguali, dalle copertine ai titoli fino all’autore che li reclamizza sulla fascetta?
Ecco: viene voglia di un pensiero politico e civile, perché è questo che ci manca, da cittadini drammaticamente orfani, quali siamo. Da cittadini, e da lettori, abbiamo il dovere di reclamarlo. Di non accontentarci.
Serve uno straccio di pensiero politico e civile per riuscire a mettere in relazione tutto questo con trent’anni di berlusconismo e con la contemporanea devastazione culturale, prima ancora che politico economica. Imputare la responsabilità di tutto, come si è fatto, alle sue televisioni è un alibi che vale la pena abbandonare. Dove erano le forze culturali, che avrebbero dovuto contrastarlo? Dov’erano i lettori che lo pretendevano, da quelle stesse forze? Dov’è il progetto culturale alternativo che anche la cosiddetta filiera del libro avrebbe potuto (e dovuto) opporre? Perché non imputare trent’anni di berlusconismo anche a quegli editori – e a quella parte di filiera – che sembrano aver dismesso (con le virtuose eccezioni, per fortuna, che provano a resistere) progetti culturali, responsabilità e coscienza politica, in nome del budget a fine anno? Che pur di far cassa hanno rovesciato addosso ai lettori tonnellate di libri – necessari? – che poi non trovano spazio nelle librerie. In fondo basta poco per accorgersi della prossimità che esiste tra i verbi leggere ed eleggere. Chi legge male – sia detto a chi pubblica, a chi scrive, a chi veicola i libri – e legge parimenti.

28 pensieri su “LA RESA

  1. Vogliamo parlare dei distributori che obbligano gli editori a pubblicare tot libri l’anno altrimenti non vale neanche la pena prenderli? O della politica delle rese per cui se il distributore rende all’editore il più del 30% delle copie allora l’editore paga una penale? Vogliamo parlare degli editori che fanno stampare in Cina e poi si lamentano che gli italiani non comprano più libri? E magari fanno tirature altissime per fare le pile in libreria? (E poi c’è il trasporto, il magazzino, il macero, tutto dispendio di risorse inutili)
    Di storture ce ne sono da far passare la voglia.

  2. Amara riflessione ma forse è da qui che si dovrebbe ripartire..
    Un grado zero comune a tutti..
    Ghigliottina per chi scrive con passione ( compassione..? )
    .. e successo/ciuccesso e tv e palcoscenico e luci, e aQua di Lourdes – a vita –
    per i manager editoriali che usano le foto porno-zozze per le copertine..!

  3. Come ho commentato su Facebook, la mia domanda è una sola, forse cattiva o più probabilmente ingenua: perché Giuseppe Culicchia scrive il suo cahier de doléances proprio adesso, fuori tempo massimo assoluto? Credo di conoscere la riposta ma preferisco tenerla per me, nel desiderio di non innescare polemiche. In quanto al pezzo di Andrea Bajani, scritto in un italiano che allontanerebbe qualunque potenziale giovane (o meno giovane) lettore, non è aria fritta ma bollita. Tipo cavolo. E come il cavolo bollito puzza di stantio.

  4. Bajani fa un “apparente” piccolo lapsus nel dire «trent’anni di berlusconismo»: che sarebbero, in punta di calendario, vent’anni. Ma ha ragione (anche se non userei il termine “berlusconismo”, perché porta a personalizzare il discorso e a fare di B. il demiurgo, e non un prodotto, anche lui!, degli anni Ottanta): la causa è in un clima culturale – lo dico con uno slogan: la subordinazione del sociale all’economico – che ha determinato scelte, politiche, tempi. Facile dire, come fa @giovanni, che “sa di stantio”; anche la forza di gravità, sai che palle sentirtela ripetere ogni anno a scuola: però i maroni continuano a cadere per davvero dagli alberi, tanto quanto metaforicamente davanti alla solfa retorica del “già sentito” che non fornisce un solo argomento a sostegno del fatto che ciò che dice Bajani, oltre che già sentito, è anche sbagliato.
    Quanto al commento @giovanni su Culicchia, a parte l’ignoranza delle dinamiche editoriali (forse @giovanni crede che uno scrittore possa presentarsi dall’editore ogni volta che ha un’idea e farsi stampare il libro: non è così, certi libri escono perché è un editore che ti viene a chiedere se hai voglia tu di scriverli): Culicchia è uno degli autori italiani che conosco meglio, avendolo letto tutto (tranne il penultimo di narrativa). Ebbene, Culicchia contro il clima generale degli anni Ottanta, contro il loro prolungamento come un virus dell’anima, ha SEMPRE scritto. Bene o male, questione di gusti, può piacere o non piacere: ma non c’è quasi libro in cui non abbia mostrato di avere la percezione del clima che si respira in Italia da trent’anni. Non è casuale che in quasi tutti i suoi libri abbia ringraziato Tondelli. E per non farsi mancare niente, non si è limitato alla negazione, ma ha anche rivendicato la sintonia con un modello positivo al quale, per ragioni di generazione, non aveva partecipato (“Il paese delle meraviglie”).

  5. Chiedo scusa a Girolamo, ma forse mi sono espresso male: non è il contenuto del pezzo di Andrea Bajani riguardo al “berlusconismo” (sacrosanto e indiscutibile e blah blah blah) che metto in discussione, ma come l’argomento viene esposto (risultando, appunto, ripetitivo, inefficace, lapalissiano).
    In quanto all’ “ignoranza delle dinamiche editoriali”, oddio, forse ti basta dare un’occhiata al mio misero curriculum sul mio misero blog per farti ricredere? Questo senza spocchia e supponenza, ma solo per chiarire un punto.
    Su Giuseppe Culicchia: io (mi) ponevo una domanda specifica. Poco mi interessano la sua poetica, le sue supposte origini tondelliane e la sua bibliografia, che peraltro conosco.
    Buona giornata.

  6. @ giovanni
    Chiedo venia, ma dal tuo breve commento si capiva tutt’altro rispetto alle tue intenzioni, dài davvero l’impressione di prendertela tanto con gli argomenti di Bajani quanto con Culicchia…
    (PS: le origini di Culicchia non sono “supposte tondelliane”, sono tondelliane di fatto)

  7. Da insegnate di lettere mi riferisco all’unica frase di Bajani che mi riguarda direttamente – non che il resto non mi riguardi, ma mi riferisco proprio alla mia categoria e allo sfacelo che l’ha colpita negli ultimi anni: “Che Paese è quello in cui si accetta che degli insegnanti di lettere dicano che non hanno tempo di leggere?” Fa bene, anzi benissimo, Bajani a sollevare un interrogativo pesantissimo come questo. La crisi del settore culturale ed editoriale colpisce indirettamente anche la scuola, non solo perché l’editoria scolastica propone semplificazioni imbarazzanti a cui ci si sente ripetere che è necessario adattarsi, perché i ragazzi sono cambiati, l’apprendimento è cambiato, la formazione degli insegnanti è cambiata, le strategie della comunicazione sono cambiate, ecc; ma anche e soprattutto perché il tempo di un insegnante è ormai completamente occupato da riunioni, collegi, corsi di aggiornamento, documenti di varia natura da redigere, verbali, moduli da preparare usando supporti multimediali, LIM, ecc; sempre più tempo viene impegnato in sorveglianza, sostituzioni, sostegno, tappabuchi e quanto altro serve per fare andare avanti la scuola, che non può più permettersi di pagare cooperative di educatori, supplenze brevi e altro; per non parlare delle classi strapiene che ti spremono tutta l’energia. Sostanzialmente, per tenersi al passo con quello che accade nella narrativa e nella saggistica, un bravo insegnante di lettere dovrebbe leggere la sera, sempre che non abbia figli piccoli, a cui è giusto dedicare almeno quel momento della giornata, o in età scolastica e bisognosi di aiuto per i compiti. Bajani dice una cosa molto giusta: leggere fa parte del lavoro di un insegnante di lettere, e un Paese che accetta che i propri insegnanti di lettere non abbiano tempo di leggere e informarsi non va da nessuna parte. Ma forse era esattamente l’obiettivo, ed è stato tristemente raggiunto.

  8. @claudia b.
    Non sono d’accordo. Rovescerei la questione: se non ti piace leggere (e quindi non trovi il tempo per farlo) non fai l’insegnante di lettere. Punto.
    Non è questione di figli piccoli. Leggere è un’altra cosa rispetto a compilare verbali.

  9. Veramente, cara Elena, la questione non era se a un insegnante piace o non piace leggere, anche perché è un po’ dura prendersi una laurea e magari anche un dottorato in Lettere, se a uno “non piace leggere”. Per leggere, si può leggere anche sul treno andando a scuola, o nell’ora buca in sala insegnanti, o di notte quando tutti dormono, il punto non è quello. Il punto è che l’attività di lettura dovrebbe essere (ed è sempre stata, finché la scuola non è diventata il mercato delle vacche che è ora) parte integrante del lavoro dell’insegnante, qualcosa che si fa per lavoro in quel tempo che è stato sottratto da altre incombenze, e non un’occupazione declassata a hobby da svolgere nel poco tempo libero che ognuno ha, non solo gli insegnanti, ma qualsiasi lavoratore. Credo che anche Bajani si riferisse a questo.

  10. faccio la libraia, e sopravvivo a fatica utilizzando anche il fragile equilibrio fra titoli selezionati, venduti, e/o resi
    leggo solo di notte (di giorno al lavoro troppo a fare) e continuo a divertirmi e ad emozionarmi
    ma con la programmazione da parte dei grandi gruppi di molte uscite editoriali come occupazione di spazi fisici invece che come progetti culturali il declino non può che proseguire inesorabile
    di pari passo con quello di un paese che manca di progetti…
    un abbraccio a chi legge chi scrive chi vende e chi si occupa di cultura in Italia
    Nicoletta

  11. Spezzo una lancia in favore dell’interpretazione di @claudia b. sulla frase di Bajani: non è che gli insegnanti di lettere “non vogliono”, è che sono messi in condizione di non poteer leggere. Bajani è uno che conosce le scuole, ci va a dialogare con gli studenti, diversamente da altri che nelle scuola non vanno perché le scuole “non pagano o pagano poco” (perdonate la provocazione: che paese è quello in cui uno scrittore “sazio di fama” chiede cachet a tre zeri a una scuola per andare a parlare dei suoi libri?), ha partecipato ad alcuni viaggi d’istruzione per poter scrivere un libro, alla Fiera del Libro di Torino lavora regolarmente con gli studenti e i loro insegnanti, al Festival della Democrazia ha presieduto un evento in difesa della scuola… Però tutta questa attenzione per la scuola, questo non fermarsi ai sentitio dire, all’articolo letto sul giornale o al libro di moda, è tutto sommato minoritario tra gli intellettuali: anche questo è un segno del trentennio di cui Bajani e Culicchia scrivono.

  12. L’aspettativa di vita media di un libro si è ridotta in modo drastico. Soprattutto se si parla di autori esordienti o giù di lì. L’assenza di prospettive di lungo periodo, è chiaro, ha favorito il già visto-già letto-già sentito perché solo ciò che è già conosciuto ha facile presa, conforta, tutto il resto ha bisogno di tempo per essere metabolizzato. Così, se la logica del profitto immediato sottrae tempo all’elaborazione, resta solo il precotto da riscaldare con due minuti di microonde e via. E il deserto avanza. Non è un caso che la cultura pop dei primi anni duemila sia infarcita di revival, remake e culto del vintage. Tornando ai libri, l’unico modo, per un esordiente o giù di lì, di ottenere quel minimo di permanenza che consenta di trasmettere un interesse e lasciare che qualcuno inizi a parlare del suo lavoro, oggi, in un mercato che ha stritolato le librerie indipendenti sacrificando il ruolo propositivo di un libraio all’occupazione degli spazi imposta dalla Direzione, è il digitale. Sebbene la prospettiva sia sempre entrare in libreria, il vero tempio del libro, gli ebookstore sono una soluzione periferica che quantomeno consente al libro di rimanere lì e aspettare, con tutto il sacrosanto tempo che ci vuole, che qualcuno inizi a leggerlo e a parlarne.

  13. Il problema, sul digitale, è il sovraffollamento, che c’è in misura anche maggiore. E dunque il modo di farsi notare e leggere: il punto su cui si specula non poco, purtroppo per gli autori.

  14. Il sovraffollamento c’è, ma essendo un contesto immateriale (la fisicità di un bit appartiene comunque a una dimensione diversa) non esiste il problema dello spazio disponibile. Problema che si presenta invece nell’agognata libreria, dove la diabolica combinazione tra sovraffollamento e strategie di occupazione degli spazi della Grande Editoria, che ragiona spesso sul modello Risiko, produce esclusione e innesca quel meccanismo desertificante di cui parlavi. E se fosse, invece, proprio il digitale, con la sua orizzontalità, a imporre un ripensamento di quei meccanismi e di quei tempi, introducendo nuove voci e nuove pratiche nelle care vecchie librerie e, per estensione, nel mondo editoriale? #haveadream

  15. Per essere più chiara. A parte il fatto che lo spazio della rete non è infinito come sembra, quello che sta avvenendo è il proliferare di agenzie di editing vere e false, di procacciatori di recensioni, vere e false, di organizzazioni che ti chiedono non pochi soldi per farti salire nella classifica degli ebook più venduti, eccetera. Come scrisse Salon, è come la corsa all’oro, dove a guadagnare di più sono i venditori di mappe e di vanghe, non i cercatori. Quanto all’orizzontalità: non credo che la scrittura sia necessariamente orizzontale. Si possono apprendere – ed è necessario farlo – le tecniche, ma il talento si ha o non si ha. E questa è l’amare e antica verità, oggi inaccettata.

  16. Cara Loredana, io rimango sempre molto perplesso di fronte a questi articoli e in generale ogni volta che si parla di crisi editoriale, perché mi pare che non ci sia mai una vera e propria analisi, non dico scientifica ( Bajani è a conoscenza di uno studio sui tassi dei refusi o parla per impressioni? Non è una provocazione ), ma nemmeno accurata della situazione. Ti faccio un esempio: io non lavoro e non ho reddito, leggo molto e ho deciso di spendere di meno e di prendere più libri in prestito in biblioteca. Questo non ha nulla a che vedere con le scelte editoriali, ma viene registrato ugualmente come un calo dei profitti. Altro esempio: c’è una correlazione dimostrata tra il minor tempo di permanenza dei libri in libreria e le loro vendite, considerando i canali mediatici odierni? La libreria è ancora il luogo che determina le scelte dei lettori? Per me non è così, e invito i lettori di Lipperatura a esprimersi in merito. Si può anche fare una riflessione sulla quantità di tempo dedicata alla lettura a fronte di altri svaghi, come la tv e soprattutto internet. La parte degli esordienti: è possibile sapere la percentuale di esordienti pubblicati ogni anno in rapporto ai manoscritti degli esordienti arrivati e in rapporto alle pubblicazioni totali, quindi comprendenti anche scrittori già editi? Può qualcuno che lavora in case editrici parlare delle proprie esperienze e dire che non so, dieci anni fa un esordiente lo si bloccava di più in attesa di una seconda opera migliore? Perché è più desiderabile un libro che venda 100 piuttosto che 5 libri che vendono 20? Perché a fronte di una quota di lettori che per almeno una ventina di anni ( dico per dire ) non aumenterà significativamente è preferibile che non aumentino il numero di scrittori editi? Senza contare che non vedo come sia possibile pianificare una situazione del genere. Vorrei far notare inoltre che dagli anni Settanta a oggi il numero dei lettori è costantemente aumentato, in rapporto maggiore a quanto è aumentato rispetto ai paesi con un numero maggiore di lettori in rapporto alla popolazione, e che solo negli ultimi dieci anni c’è stata una stabilizzazione. Non è contraddittorio dire che è sbagliato pubblicare inseguendo il profitto se poi si considera un problema che i libri vendono di meno perché c’è troppa concorrenza? Non può essere che semplicemente vengono scritti molti più libri di anni fa e molti di più meritevoli di pubblicazione? Come si fa a partire dal presupposto che a questo paese sia successo qualcosa, come se ci fosse stato un prima migliore, senza oltretutto mostrare come era davvero fatto questo prima? Mi pare che l’esordio di Svevo fosse pubblicato a puntate su un quotidiano locale senza neanche curarsi che la stampa fosse interrotta alla fine di un periodo o di una frase.

  17. Tutto vero. Però. Le varie forme di truffa editoriale, dagli editori a pagamento fino a quelli che non pagano né autori né dipendenti (che il periodo non è buono e c’è la crisi) fino alle recensioni-marchetta e alla visibilità ottenuta con mezzi impropri non sono pratiche che nascono con il digitale. E per quanto riguarda il talento, non mi sembra che tutta l’editoria tradizionale fornisca grosse garanzie al riguardo. Almeno non stando al quadro tracciato negli articoli che stiamo commentando. L’orizzontalità cui mi riferivo riguarda altri aspetti, propri dello “strumento” rete. Per intenderci: il digitale non è la soluzione ai mali dell’editoria, ma può introdurre nell’editoria (nell’attesa che gli esperti di strategie di vendita, come dici, rivedano le proprie convinzioni) nuovi elementi salutari. Quantomeno può garantire a un libro di continuare a esistere anche se non è un successo immediato. E questo ha un valore enorme. Come dice Marco Zapparoli, direttore di Marcos y Marcos, nell’articolo linkato qui sopra “oggi sarebbe difficilissimo vendere un Calvino al suo debutto. Ci sono libri che possono essere apprezzati solo in tempi lunghi e sarebbe impossibile riconoscere la novità rappresentata da Calvino in una manciata di giorni.”

  18. Il problema dell’editoria italiana sono i troppi libri inutili che si pubblicano e passano rapidamente al macero. Soluzione: la Rete, in cui ogni singolo libro inutile vivrà in eterno in attesa di almeno un lettore. Come risparmio d’alberi, bene; per tutto il resto, non mi sembra una grande soluzione.

  19. Il problema dell’editoria italiana è il segreto dell’urna o del confessionale (in questo caso dello scaffale librario): per quarant’anni abbiamo votato la DC ma tutti (proprio tutti) dicevano di non averla votata; per vent’anni abbiamo dato credibilità e voti (tanti voti) a Berlusconi ma nessuno lo ammetteva. E così, oggi, non ho ancora trovato un lettore delle “sfumature di grigio” o qualcuno che mi abbia confessato di avere acquistato le stesse sfumature “made in Italy”: eppure hanno scalato le classifiche delle vendite! In Italia, anche i non credenti/cattolici, sono bravissimi a celare, deresponsabilizzare, raccontare mezze bugie o mezze verità: tanto poi qualcuno (il prete, il capo del partito, il genio italiano) nel segreto del confessionale li perdona! E loro, la volta dopo, nel segreto dell’urna o dello scaffale, ripagano con voti e libri spazzatura.

  20. Io faccio l’editore, circa vent’anni fa pensando che l’aria stesse facendosi asfittica, ho fondato una piccola casa editrice. Ipotecando l’unica casa che possedevo. Se oggi sono qui a scrivere vuol dire che, bene o male, senza guadagnarci nulla (per fortuna avevo anche un altro lavoro), e cercando di scegliere autori in cui credevo, sono riuscita a crearmi un buon catalogo, a essere presente in libreria, ad assumenre (a tempo indeterminato) tre persone, e due a progetto. Ma negli ultimi tre anni qualcosa è davvero cambiato, e le ragioni sono tante. Eccone una: il nostro perverso sistema permette ai gruppi editoriali di essere padroni dell’intera filiera del libro: case editrici, giornali, distribuzione, catene di librerie. Questo ha creato un sistema chiuso che si è autocannibalizzato. Le catene hanno fatto terra bruciata intorno, con le loro politiche di prezzi e di rotazioni insensate. Lo sapete che un editore paga per esporre un libro in vetrina? e chi degli indipendenti può pagare? e soprattutto: è etico che io, lettore, pensi che quel libro sia esposto perché il libraio me lo consiglia, mentre è esposto perché l’editore ha sborsato dei soldi? Poi: i libri a poco prezzo, fatti male e tradotti peggio (ma un buon traduttore si paga, e sempre poco e male, purtroppo), come si paga un tipografo, come si paga un redattore. Un prodotto non dico ottimo ma appena buono costa, e invece sembra sempre che il libro debba costare zero. Vorrei rispondere a tutti, mi sento chiamata in causa dall’articolo di Bajani, ma posso assicurarvi che anche se resistere è difficile, c’è tanta gente che crede in questo mestiere e tenta di farlo bene, certo non aiutata da nessuno. Per esempio: ma perché l’insegnante Claudia B. non può detrarre l’acquisto dei libri dalle tasse?

  21. non so dove postare questo commento, ho notato in alto una lista di editori che pubblicano e sono definite in una dimensione negativa. Molte si queste case editrici presenti in quella lista hanno chiuso. C’è stata una campagna denigratoria continua da più parti e in vari siti Blog. Indirettamente ne ha tratto grandi benefici il sito ILMIOLIBRO del gruppo Espresso che è lo stesso datore di lavoro di Lipperini.
    Non voglio dire che la cosa sia diretta, ma è oltremodo di pessimo gusto che Lipperini usi il suo blog per parlare male di tante piccole case editrici (a vantaggio indiretto del suo datore di lavoro). Io credo sia una sorta di conflitto di interessi.
    La questione la vorrei chiarire meglio:
    Lipperini parla male (comunque in una accezione negativa) di tanti piccoli editori italiani.
    Una lunga campagna negativa porta questi piccoli editori alla chiusura.
    Se ne avvantaggia un solo grande gruppo e cioè il datore di lavoro di Lipperini. Trovo questa campagna contro i concorrenti de Il mio libro molto forte, strana fuori luogo e comunque di pessimo gusto (per chi per tanto tempo ha parlato di conflitti di interessi).

  22. Buongiorno Paolo. Il mio libro NON è il mio datore di lavoro, nè Kataweb mi corrisponde un centesimo per questo blog, che gestisco volontariamente, gratuitamente e usando (da dieci anni) questa piattaforma.
    Inoltre. La lista degli editori a pagamento o doppio binario non implica una denigrazione, nè lo era quando è stata concepita da Writer’s Dream: è semplicemente un servizio di informazione dato agli scittori.
    Felice giornata.

  23. Almeno, ti prego cancella gli editori che in questi anni hanno chiuso, dietro ogni azienda ci sono persone e investimenti e famiglie. A volte queste battaglie hanno coinvolto persone perbene. Fai un giro, glielo devi per onestà intellettuale e troverai tante aziende fallite, chiuse. nel contempo i profitti de il mio libro aumentano vistosamente, non è che la cosa è collegata, certo però che tu faccia da traino (indiretto) a il mio libro è inevitabile.
    Non mi rispondere dimmi quali sono, un sacco, quasi tutte, è un elenco fantasma inutile.
    La battaglia è vinta, resta solo la grande editoria i piccoli editori sono quasi tutti scomparsi.
    Felice giornata a te che gioisci del fallimento di tante piccole attività!

  24. Pianino con le parole: io non gioisco del fallimento delle piccole attività, mi chiedo quale danno arrechi alle medesime far sapere che richiedono soldi in cambio della pubblicazione. I piani sono molto diversi.

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