DOPPIO POST: MESTOLI E TANGHI

Guai a chi tocca la mamma, nel paese che pone le madri sull’altare e poi, certo, le lascia là, senza fornir loro supporti, attenzione, servizi.
Il discorso fatto da Laura Boldrini sulla rappresentazione delle donne nei media è stato minimizzato fino a tradurlo in un solo concetto, peraltro sbagliato: “ci vuole tutte donne in carriera, non vuole che portiamo la minestra in tavola”. Di qui, lettere e letterine manco fosse Natale, con giornaliste che rivendicano con fierezza il piatto di arrosto e utenti dei social che gridano “amare è servire”.
Su Facebook, ieri, ho scritto un semplice status: “ L’icona della madre non si tocca. Onestamente, mi sembrava ovvio che quanto detto da Boldrini sugli stereotipi non equivalesse a “molla la zuppiera e il mestolo, donna”. Così non è. Oltretutto,  l’intervento di Francesca Barra su L’Unità a difesa della zuppiera, del mestolo e della mamma mi fa pensare che, banalmente, non solo non si vuol capire che nessuno insidia il diritto alla libera zuppa in libero Stato, ma che ogni volta si ragiona in termini personali, e mai comunitari. Mai, neanche per sbaglio. Non esiste la complessità, esistono gli “io, io, io”.”
All’intervento di Barra si aggiunge una vera e propria levata di mestoli: fra gli altri, Elena Loewenthal su la Stampa (no, non ve lo aspettavate) e l’elogio della massaia rurale fatto dall’inevitabile Buttafuoco su
Il Foglio (sì, ve lo aspettavate), più un lungo elenco di frequentatori di social noti e meno noti.
L’insistenza sul punto (la mamma è l’icona, la mamma è felice quando cucina – in molti casi non si parla in prima persona ma si descrive la propria mamma – ) suscita dubbi su almeno tre punti.
Primo, il più grave: la capacità di comprendere quello che viene detto al di là dei titoli dei quotidiani e dei tweet di riassunto.
Secondo, non meno grave e a cui facevo già cenno nello status: ogni riflessione sull’immaginario viene percepita come minaccia individuale. Che si tratti di tacchi a spillo, di soufflé o dell’insulto scritto via web, è il proprio diritto a ricorrere ai tacchi, al soufflé o al vaffanculo che viene rivendicato. Non si pensa affatto che esistono altre persone che non usano i tacchi, mangiano insalata e usano il web per altri scopi. Non si pensa in termini di comunità, appunto. Le madri non sono tutte uguali. Le famiglie non sono tutte uguali. Il momento del pranzo o della cena non è uguale per tutti. Questo è stato detto: non sono solo le donne a gloriarsi del proprio ruolo di portatrici di zuppiera, ma anche gli uomini.  Le donne che portano zuppiere fanno anche altro. Rappresentate più modelli, non proponetene uno solo. Punto.
Infine, c’è un terzo punto: qualsiasi cosa, qualsiasi davvero, dica Laura Boldrini viene interpretata come lesa italianità. Un’altissima carica dello Stato che si occupa del proprio paese, immaginario incluso, dovrebbe essere motivo d’orgoglio:  dovrebbe invece tacere, secondo la parte urlante del paese medesimo. Pensiamoci su, e pensiamo anche a quegli eletti dal popolo che in Parlamento vanno armati di ortaggi e insaccati, e pensiamo a quanto stiamo diventando simili a loro, magari.
Detto questo.
Ho ricevuto da Ivano Porpora un intervento sul “caso” Bertolucci. Lo pubblico con gioia: due post in uno. Meglio di una promozione Barilla, eh?

BERNARDO BERTOLUCCI E L’ALKA-SELTZER
di Ivano Porpora

“Con un cuscino in faccia vanno tutte bene”.
“Finché non ti fa un bocchino non le offri neanche un Alka-Seltzer”.
“Me la sono fatta”.
Questi sono alcuni dei commenti sulle donne – dirò il vero: una piccolissima percentuale – che mi è capitato di sentire negli anni. Non su una donna, ma sulle donne tutte. Le persone dalle cui labbra ho sentito uscire queste frasi – né io ero scandalizzato, chiariamoci – ragionavano, come è immediato constatare, non su una donna particolare, nemmeno quando la frase era declinata al singolare, quanto su norme che è opportuno rispettare nel rapporto fra uomo e donna.
Ne dimenticavo una, che inserisco qui:
“Quella è una puttana”.
La diceva un mio zio ogni volta che vedeva una donna svolgere un qualsiasi lavoro. Era una scena piuttosto comica, devo dire il vero. Non era volta solo alle donne al volante (“Quella è una puttana”), o alle vigilesse (“Quella è una puttana”), o alle dottoresse (“Quella è una puttana”), ma anche alle annunciatrici della tv. Si sedeva sul divano, si faceva passare da noi bambini o dalla moglie il telecomando, metteva sul tg; e, quando compariva la signorina Buonasera, diceva, tra sé e sé, “Quella è una puttana”.
Mi sono venuti in mente questi piccoli aneddoti l’altro giorno durante una discussione legata alla famosa intervista di Bernardo Bertolucci. Si parlava delle vessazioni legittime del regista sull’attore e dell’opera plasmatrice di un artista che, come uno scultore, opera in un rapporto di forza per modificare la materia portandola a nuove potenzialità e a farsi supporto di un’idea che era solo lì, nella sua testa.
Ed ecco, mi sono venute in mente queste frasi. Ora, facciamo un piccolo ponte.
Io sono un convinto assertore della necessità di questa opera vessatoria. Esattamente come Fontana che buca la tela, come Michelangelo che piazza le sue martellate, come Lars von Trier che si fa odiare da Björk perché la porta allo stremo in Dancer in the dark: la vessazione, il rapporto di forza è necessario per andare al di là delle capacità esplicite della materia stessa e creare l’indicibile, l’inespresso. A volte questa vessazione può essere, in qualche modo, a doppio senso: Malcolm McDowell canta Singin’ in the rain per sua propria ispirazione in Arancia meccanica, così come celebre è il rapporto tra Steve McQueen e Michael Fassbender che ha portato l’attore in Hunger a plasmare il proprio corpo fino a renderlo scheletrico, quasi etereo nella sua matericità.
(Potessi, vorrei fare lo stesso per Battiston. Ma questa è un’altra storia).
E a volte, beninteso, questo rapporto di forze può essere a senso unico. Si sa come Björk abbia detestato per lungo tempo von Trier a causa del succitato film; lo stesso Bertolucci, nell’intervista, esplicita una differente modalità di comportamento nei confronti di Marlon Brando e dell’emergente Maria Schneider per le riprese dell’Ultimo tango. (Né penso che fosse un atteggiamento dettato da sessismo: Brando nel ’74 era un attore con storia e capacità comprovate mentre la Schneider aveva una ventina d’anni, poca esperienza, tanto da imparare).
L’opera vessatoria, in questo caso, rientra per me nei canali di quanto descritto sopra. La scena di sesso anale, non spiegata alla Schneider per ricreare il senso di uno stupro, rientra in un mondo abbondantemente calcato da violenze implicite ed esplicite nei confronti delle donne. Un mondo nel quale la Schneider non solo girava scene di sesso anale non annunciate, ma, probabilmente, nel tornare a casa si sentiva fischiare alle spalle, lasciare sguardi lumacosi, sentiva pronunciare frasi del tipo “Te la metteresti a pecora una così?”. E qualcuno, vedendola lavorare, avrà pensato “Questa è una puttana”.
Non credo che sia stata quella scena di sesso subìta a portarla all’eroina. Ma credo che una scena di sesso subìta, in un clima compiacente e all’interno di un progetto nel quale due uomini si gettano uno sguardo complice mentre imburrano il pane, può averle portato una sofferenza psichica su cui non mi paiono opportune le difese del genio, indiscusso, di Bertolucci.
Si dice che Kim Rossi Stuart, durante le riprese del pregevole Anche libero va bene, dopo ogni Stop! abbracciasse l’allora piccolo Alessandro Morace per tutelarlo da traumi legati agli scatti d’ira del protagonista-regista del film. Non siamo, nell’affaire Bertolucci, a contestare la scena di sesso, né l’inserimento di parti non previste dal copione. Sennò contesteremmo Salò di Pasolini, o appunto Arancia meccanica, o tutto l’estro creativo del cinema mondiale quando, al di là di copioni più o meno blindati, si è acconsentito all’imprevisto di entrare e farsi storia. Ciò che del tutto non mi è andato giù sta nel fatto che la prima cosa che un artista deve avere, così come Fontana ha nei confronti della sua tela, è il rispetto per la materia.
Se accetti che la tua materia sono gli attori, devi capirne sensibilità, limiti e limiti da non valicare.
Sennò si corre il rischio che il grande artista sia, irrimediabilmente, un piccolo uomo.

9 pensieri su “DOPPIO POST: MESTOLI E TANGHI

  1. Ma di cosa doveva parlare al convegno su Donne e media? Del caso Mps o della decadenza di B? Ha citato un esempio tra gli innumerevoli casi di sessismo pubblicitario. Si facciano critiche costruttive, almeno non diano fiato alle trombe per giustificare a se stessi l’antipatia o l’avversione politica nei confronti della Presidente Camera.

  2. Si resta ancora incastrati in quel meccanismo che fatica a scomparire: se si vuole escludere una persona o una figura da qualsiasi partecipazione sociale la si isola mitizzandola.
    Si dirà allora: “tu sei un mito, occupati dei cieli. Alle cose di terra ci pensiamo noi. E voi, ragazzi, non prendete esempio dai miti: quelli stanno nei cieli, voi tenete i piedi per terra.”
    Avviene ancora questo per la figura materna, avviene ancora questo per la figura femminile; e verrebbe da dire: “accidenti a Beatrice, accidenti a Maria”.

  3. Trovo gli interventi anti-Boldrini di una piccineria incredibile. Possibile che non si riesca a capire quanto sia sessista la pubblicità che relega le donne ai ruoli più tradizionali e che solo l’esposizione gratuita della carne sia identificabile come discriminatoria? Mi stupisce sempre l’orizzonte limitatissimo di queste persone.

  4. Tra l’altro non so come si possa tacciare Boldrini di criticare in sé il prendersi cura degli altri quando per una vita ha fatto un lavoro “crocerossino”. Veramente, la gente non ragiona.

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