LA STATUA DI ORWELL E IL LATO PERICOLOSO DELLE COSE

Il 29 marzo 1985 la statua di George Orwell viene rimossa dal famoso museo delle cere di madame Tussaud a Londra perché, si disse, la sua apocalittica profezia non si era avverata: il 1984 era trascorso senza scosse apparenti. “Dopo la fine dell’ anno passato” – spiegò Juliet Simpkins, portavoce del museo – “abbiamo avvertito una diminuzione di interesse nell’autore di 1984, il libro, appunto, che fantasiosamente prediceva la catastrofe umana”. La statua di George Orwell viene dunque messa in magazzino. In quella stessa primavera Marguerite Duras  espresse la sua profezia: “Credo che tutto questo finirà nel 2027. All’improvviso nessuno scriverà più”.
Gli scrittori non sono profeti, e non bisogna scambiarli per tali.
Ci piace pensare che la letteratura abbia previsto il futuro: specie nella fantascienza, certo. Leggere nell’immediato dopoguerra The World Set Free dove Wells previde già nel 1914 l’invenzione della bomba atomica non rassicurava, così come molti di noi, con l’irredimibile fascinazione che la paura ci riserva anche in circostanze realmente terrorizzanti, hanno ripreso in mano L’ombra dello scorpione di Stephen King, quasi consolandoci per la devastazione di Captain Trips nei giorni della reclusione da coronavirus, o abbiamo creduto che davvero, nel 1981, Dean Koontz abbia previsto la pandemia in Abisso, dove il virus si chiamava Wuhan 400, oppure che Steven Soderbergh abbia avuto doti sovrannaturali nel girare il film Contagion nel 2011. Non funziona così, o dovrebbe essere un medium anche David Quammen con il suo saggio Spillover: semplicemente, scrittori e divulgatori conoscevano le possibilità che poi si sono sviluppate. E’ una vecchia storia, questa. Carlo Fruttero (e altri con lui) ha ripetuto più volte che la fantascienza “non è profezia, ma una proiezione appassionata dell’oggi su di un avvenire mitico: e per questo aspetto partecipa della letteratura e della poesia”.
E molte di quelle proiezioni appassionate si sono avverate, peraltro. Trovandoci prevedibilmente, oggi, nell’ennesima semplificazione, tutti contro i bevitori di spritz (e ieri i runner, e l’altro ieri i cinesi, e via indietro) non è forse vero quello che stigmatizza Donatella Di Cesare nel suo saggio, Virus sovrano?, ovvero che le nostre utopie già da tempo erano diventate individuali? Che non ci preoccupiamo che di noi stessi, e non avevamo già da prima la percezione della possibilità di essere con gli altri? Un tempo Robert Browning scriveva: “Il nostro interesse è per il lato pericoloso delle cose. / Il ladro onesto, l’ assassino gentile, l’ ateo superstizioso”. Ora le cose non hanno che un lato, temo. Due, al massimo. E questo, proprio questo, è il pericolo maggiore che intravedo.

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