ORIGAMI E VERDURE A FOGLIA LARGA: PERCHE' CI VORRA' TEMPO PER DIMENTICARE

Da bambina, sono cresciuta con la storia di Sadako Sasaki, che era bambina come me e che era morta a 12 anni un anno prima della mia nascita. Sadako è una delle vittime di Hiroshima: non venne uccisa dall’esplosione, ma fu contaminata dalle radiazioni. Ci vollero nove anni perché le sue cellule impazzissero e cominciassero a moltiplicarsi: a 11 anni le venne diagnosticata la leucemia. Passò i mesi che la separavano dalla morte a confezionare origami a forma di gru: la leggenda voleva che se fosse riuscita a completarne mille il suo desiderio sarebbe stato appagato. Il desiderio di Sadako era quello di guarire, e di guarire con lei tutte le vittime di quell’orrore. E la pace. Non è mai stato chiaro il numero delle gru di carta completato. Di fatto, Sadako morì, e la pace non ci fu.
Ci raccontavano la storia di Sadako, e ci raccontavano altre storie, in quella metà del Novecento che ancora vibrava di paura e di orrore. Sfogliavo il libro del catechismo e trovavo i disegni dei bambini fatti a pezzi dalle bombe inesplose. Erano così: in primo piano c’era un maschio della mia età con la maglietta a strisce e le braccia avvolte da fasciature sanguinanti, il sangue era nel punto dove prima erano attaccate le mani, e dietro di lui una vampata rossa frantumava i corpi di altri bambini e sotto di lui un campionario di bombe, coniche, a forma di caramella bianca e rossa, di bottone e di pigna e la scritta “Se trovate un oggetto simile non toccatelo! E avvisate subito i carabinieri”. Il mio catechismo era pieno di disegni così: un bambino, questa volta con mani e piedi e tutto, che trascina la sorellina lontano da una bomba, e un altro bambino, in calzoncini corti e sempre con la maglietta a righe, che si china su un cilindro che sporge dal terreno e la madre angosciata che appare in cielo con la scollatura a rombo che andava di moda allora e urla “NO! Là c’è la morte”.
Le bombe, le radiazioni. Un intero immaginario si fondò su quella paura. Che venne, peraltro, rinnovata nel 1986, dopo Chernobyl: immaginammo, allora, che l’aria stessa ci contaminasse, e quella nube radioattiva di cui ci si parlava corresse sui nostri corpi stesi sui prati per il primo sole primaverile. Per due settimane si proibì il consumo di verdure a foglia larga e, per i bambini e noi donne incinte, anche il latte fresco. Le quotazioni dei pomodori e delle patate registrarono aumenti superiori al 50-60 per cento. I figli  di molte di noi donne incinte, fra cui io, nacquero morti, ma statistiche non ce ne sono: solo il volto paffuto dell’infermiera che si china sul mio e me lo sussurra, magari per consolarmi.
Poi, certo, arrivò il 2001 e l’11 settembre e la paura divenne un’altra ancora, e ancora oggi, a diciannove anni di distanza, gli effetti di quel trauma si ripercuotono a ogni aereo preso, che lo vogliamo o no, che ci pensiamo o no. I traumi sono lunghi.
Ed è per questo che mi stupisco, almeno un po’, quando attorno a me avverto il pur sacrosanto desiderio di convincersi che non è successo niente, che ora va davvero tutto bene e che sgusceremo via da questa storia come teneri gamberetti. Non sarà così, è impossibile che sia così. Dovremo fare i conti con ferite profonde, oltre che con la povertà e la mancanza di lavoro: mi piacerebbe semplicemente che ce lo dicessimo, e poi liberi di essere come possiamo e anche vogliamo, per le strade o ancora, se possiamo e vogliamo, nelle case. Ma non uguali a prima, ecco. Niente affatto.

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