LA ZONA VERDE

Prima di partire per Perugia, e dunque prima di quel venerdì 13 novembre che comunque costituisce uno spartiacque, leggevo un romanzo di Brian Morton, Florence Gordon. Florence è una femminista, è vecchia, ma ha ancora nel cuore – cito a memoria – quella zona verde di chi ha fatto parte della generazione che credeva, davvero, di poter cambiare il mondo.  Quella zona verde esiste, quella generazione, che è un po’ anche la mia, ha conservato da qualche parte della propria anima una speranza certamente utopistica, certamente smentita da fatti ed età, eppure ostinata nel resistere e germogliare.
Nelle poche e senz’altro non incisive parole che posso scrivere su quanto è avvenuto e sta avvenendo, penso non solo alla zona verde ma a quelle oscure materie che si intrecciarono con i nostri piccoli giardini di utopie. Chi scelse, negli anni Settanta, la lotta armata, era sinceramente convinto che fosse l’unica via per cancellare le ingiustizie del mondo: parlo dei militanti, non di chi decide. Chi decide è sempre da un’altra parte, o quasi sempre. Chi decide ha la lucida e gelida visione del progetto complessivo, che è perversamente politico (o geopolitico, fate voi). Chi aderisce, lo fa in genere per altri motivi: per una tenebrosa speranza di cambiare le cose. Di cancellare le ingiustizie e le disuguaglianze che per troppo tempo lo hanno schiacciato a terra, lui/lei e i propri affini, nella disperazione e nella povertà.
Pensavo a quella cieca e atroce speranza, questa mattina, prendendo le mie due metropolitane quotidiane, con tutti quei militari e quei cani anti-esplosivo e quelle pistole e quelle facce preoccupate che spiavano gli sventurati passeggeri con un borsone. E dopo aver letto, ieri sera, il prevedibile intreccio divisorio sui social: perché la Francia e non Beirut, perché il tricolore sul vostro profilo e non la bandiera del Kenya, perché commuoversi e perché non commuoversi, perché stiamo qui a scannarci con le dita posate su una tastiera e perché tu (io) col culo protetto parli, invece di tacere.
Ecco, a proposito di culi protetti.
Parlo perché ho attraversato la parte oscura della mia zona verde, e mi è capitato a vent’anni di scappare inseguita da proiettili, e di battere i pugni su portoni che non si sono mai aperti, e di restare viva mentre altre e altri, della mia stessa età e sulla mia stessa strada, sono morti, colpiti alla schiena o alla testa o alla pancia. Certo che era diverso, perché ogni orrore è diverso. Certo che era simile, perché tutte le morti violente (ingiuste lo sono per definizione) si somigliano.
Parlo non perché serva, o sia un contributo utile alla discussione che si sta svolgendo, ancora per un poco, finché altro richiamerà la nostra attenzione. Parlo perché è utile a me, perché scrivere aiuta a fissare un pensiero che include purtroppo la disattenzione per le ingiustizie che precedono l’orrore e che spesso vengono accolte – ma certo, anche da me, come da tutti gli umani – con un “è vero, accidenti” che non cambia le cose. L’un per cento e il novantanove per cento. Le distribuzioni della ricchezza, del sapere, del futuro. Lo abbiamo detto e ripetuto.  Eppure, come scrive su Repubblica, oggi, Kamel Daoud (è lo scrittore algerino de Il caso Mersault, l’ho conosciuto a Mantova, e il romanzo andrebbe letto, fidatevi):
“L’idea è di sradicare il terrorista oggi ma non può essere una vittoria se non gli si impedisce di rinascere domani. Perché non si nasce jihadisti. Jihadisti si diventa a forza di libri, di canali televisivi, di moschee, di disperazioni, di frustrazioni. Tutto viene da una matrice, da un paese, da un regno: non serve a niente lottare contro il Daesh straccione in Siria e stringere la mano al Daesh ben vestito dell’Arabia Saudita.
L’idea è di non fare il gioco degli islamisti, non nutrirli, ma soprattutto non lasciarli venire al mondo per ucciderci. L’idea di chiudere la Francia ai suoi cittadini o al resto del mondo è un riflesso previsto, ma non è quello giusto. Non c’è una zona offshore di fronte a questo fascismo e chiudere gli occhi non equivale a spegnere il fuoco. Ci sono solo impegni, umani, e chiusure. Daesh uccide, rompe, esclude, terrorizza, mente, approfitta, recluta la disperazione, spara e disumanizza. Bisogna sradicarlo dappertutto ma senza assomigliargli, in Francia o altrove. Possiamo farlo? A volte ne dubito, ma ho anche dei figli e quindi un dovere”.
Possiamo farlo? Sì, forse. Se ritroviamo le parole e i pensieri giusti, e se qualcuno sbuffa perché parole e pensieri sono poca roba, si prenda una giornata per leggere quanto viene scritto in molta parte sui social, che sono portatori di pensieri e parole pubblici, e d’accordo la pancia, e d’accordo la reazione emotiva.
Ma basta con la pancia, per favore.
Riflettiamo, usiamo la scrittura come supporto e conforto alla nostre vite (come dice uno a cui voglio bene) e, se possiamo, a quelle degli altri. Aiutiamoci vicendevolmente a capire: ma non ragionando, non solo, su complotti planetari (perché a forza di delinearli li allontaniamo alla nostra comprensione, come è avvenuto per quelli della mia giovinezza, a cui nessuno pensa più). Ragionando sui piccoli passi che siamo chiamati a compiere. E cercando di ricrearla dentro di noi, o di coltivarla se abbiamo avuto la fortuna di averla, quella zona verde dell’anima.

3 pensieri su “LA ZONA VERDE

  1. Le ingiustizie e le disuguaglianze sono il brodo di coltura più efficace per qualsiasi terrorismo che nasce dalla rivolta verso di esse.
    Personalmente ho deciso di impegnarmi doppiamente nel mio piccolo a far crescere e prosperare tutte quelle associazioni, persone, idee che puntano a una convivenza laicamente aperta e inclusiva. E a bloccare ogni impulso a scrivere parole di odio o reazioni a caldo sui social e dal vero, compresa la condivisione di contenuti simili allo scopo di condannarli.
    E’ poco? Non credo proprio. Sicuramente è quello che con senso della realtà si può fare nelle nostre singole e sociali dimensioni contenute.

  2. Da un lato vanno respinte con energia le aggressioni e le minacce immediate (a patto di non essere tra coloro che producono e vendono armi ai violenti), dall’altro va continuata la battaglia culturale per smantellare il vecchio pretesto a cui in troppi si aggrappano (“Dio è con noi! Gott mit uns!”): le religioni sono mitologie consolatorie (l’esigenza di immaginare forme di protezione dall’alto è vecchia quanto l’uomo), nessuna divinità si è mai sognata non tanto di esistere (:-) ) , quanto di ispirare direttamente testi sacri a chicchessia a sostegno delle sue personali fantasie religiose. Corano, Bibbia (e altre opere nate per accumulo di narrazioni popolari secolari) vanno studiate come meri documenti delle capacità narrative dell’uomo in riferimento ai contesti in cui si sono stratificate le varie tradizioni di appartenenza. P.S. Ovviamente le religioni sono state da sempre un utile strumento per convincere i beoti ad assecondare il potere, dietro promesse di grosse ricompense celesti (se penso alle 72 mogli vergini che aspetterebbero i kamikaze in paradiso mi vengono i brividi… nel mio caso la prospettiva rappresenterebbe un deterrente: 72 mogli??? Un incubo…)

  3. @Basta Balle: Non ci avevo mai riflettuto ma…in effetti, occuparsi (ed essere occupati) da 72 mogli per l’eternità è più un incubo che altro! Figurati poi se uno è gay come il sottoscritto!!! 😀 😀 😀 😀 😀 😀 😀 (…e alle donne cosa viene promesso? 72 mariti!?!? Poveracce loro!!!)

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