Mi hai condotto verso l’arte del distacco, anno che finisci.
Fra tutte le storie, gli incontri, i libri, l’allegria e le lacrime, scelgo un giorno apparentemente ininfluente, uno di quelli che, se le cose fossero andate diversamente, si archivierebbe senza pensarci mai più. E’ un giorno di mezzo agosto, e io sono tornata in fretta dal paesello con le bozze che lo raccontano chiuse nello zaino. Mia madre non sta tanto bene, ma io penso, ancora, che sia solo stanchezza, e caldo, e un po’ di debolezza. Passo la giornata e la notte con lei, e poi le dico che vado un momento solo a casa, perché ho bisogno di rivedere casa mia, e lei mi risponde certo, vai pure. E io corro, anche se non ce ne sarebbe bisogno, apro la porta come se una muta di cani mi inseguisse e poi la richiudo sbattendola forte e mi ci appoggio contro con la schiena, e guardo il tavolo, i quadri, il vecchio divano sfondato e mi dico, proprio ad alta voce, sono salva.
Non lo ero, invece. La salvezza, in quel momento, era far restare le cose com’erano, come sono sempre state per tanti anni. La visita a mia madre la sera, dopo il lavoro, le mie chiavi che aprono la sua porta, lei che dal divano chiede chi è, e io che rispondo, come sempre, “sono io”, e il gatto Altair che viene a indagare sulla nuova presenza, e la pendola, magari, la vecchia pendola che è sempre stata là, avrebbe battuto il quarto d’ora. E poco dopo ci sarebbe stato il ritorno nella mia casa, la casa storta e buffa che avevo visitato quando ero incinta di mio figlio, e la primogenita camminava appena, e guardando il corridoio avevo immaginato lei che pedalava sul triciclo e lui che gattonava su quella che sarebbe stata una moquette rossa. Una notte di sonno, un caffè guardando il cielo dal balcone. E poi tutto il resto, i figli e i libri e la radio e la politica e la vita fuori dalle case.
L’arte della perdita significa fare i conti con quello che sembrava incidentale ed era il cuore di tutto. Mia madre, Pupa, se ne va due settimane dopo la mia corsa. La sua casa diventa la mia. E in questi quattro mesi, mentre al di fuori continuavano i libri e la radio e gli incontri, due vite passavano sotto le mie mani: guarda, la moneta del 1969 per lo sbarco sulla luna, e qui c’è il quaderno dei pensieri delle elementari dove mio padre ha scritto sii brava come sei sempre stata, ma cerca di essere anche buona, e qui la sua medaglia al valore per aver combattuto nella seconda guerra, ma lui l’ha gettata in un cassetto con noncuranza, lui che catalogava tutto. Qui il diploma di mia madre, e qui le foto di Bengasi, e qui ancora, tutto stropicciato, quel vestito di lamè azzurro che diceva di aver perso e io le chiedevo “sei sicura?” perché amavo l’immagine di lei che lo indossava, e quando ero bambina la guardavo e pensavo è proprio la fata turchina.
Le cose ci incatenano. Dalla casa che era mia fioriscono il piatto dove i figli hanno mangiato la prima minestra, e un delfino di peluche, e le cinture di karate, e le riviste che mi ostinavo a conservare, e che ora (tutto, il piatto e il delfino e le cinture e le riviste) è giusto che vadano via, perché il tempo non è nelle cose e non è nelle carte e neanche nelle fotografie, ma nel nostro cuore.
Così, delle due case ne resta una, che accoglie dell’una e dell’altra, la pendola e i libri, il tavolo su cui scrivo e il divano dove mia madre passava le ore, e naturalmente il gatto Altair e ora anche il gatto Lagna, che hanno scelto la casa come propria. Sono là, una di due. E là, a casa, aspetterò il nuovo anno.
Questa è la storia, questo il bilancio, commentarium: per la prima volta nella mia vita accetto la perdita, sia pure con la nostalgia e le lacrime che alla perdita si accompagnano. Come dice Susanna Tartaro negli haiku che con pazienza e amore sceglie, significa fermarsi e guardare indietro. E poi raccogliere le forze per camminare su una strada nuova: ma stavolta tutta intera, sapendo che la vita è sia fuori che dentro la casa che è diventata una sola. E che i libri non sono un rifugio, non sono la tana di chi cerca una salvezza illusoria: ma compagni di viaggio. Che è un ruolo migliore rispetto alla fuga.
Il mio buon anno è questo: possiate essere voi stessi, tutti interi. Come scrive Mariangela Gualtieri nella splendida poesia Esercizio del trasloco, che Annita Paris mi ha mandato su Facebook. Felice 2015!
Il tempo qui non è stato
che un pezzo di cartone,
un sobbalzo. La porta
si chiude per l’ultima volta.
Il fascio di forze domestiche
il genio del luogo
saluto ora con ringraziamento.
A tutto ciò che tace perfettamente
e che sempre qui dentro ha taciuto
a ciò che non appare
in questa casa vuota
e resta come in larga attesa.
A questo punto del mondo, alto sulla città vecchia
a questa cuccia di luce e conforto
in cui abbiamo amato meglio che potevamo
e dormito bene nella sua pace
e fatto tutte le cose umane
delle vite, al mio cuore
senza tristezza che tutto saluta
contento, come esercizio
di distaccamento, come grande
scuola del trasloco e del suo lasciare la presa.
Vi lascio, cose.
Il vostro mancarmi sia la melodia
che ora mi guida:
La schiena liberata dal peso
stia dritta in attesa
della più alta impresa.
Il bastarmi del poco e del niente che serve.
E il resto sia vuoto. Sia intesa
con tutto ciò che non pesa.
Grazie Lippa, mi scusi la confidenza ma la sento vicina …grazie per l’argomento che ha aggredito, il distacco…
Io non ci riesco, possibile che sbavi dietro ad un vecchio biglietto di treno?
Farò tesoro del suo scritto…!
Grazie ancora, lei con i suoi colleghi mi fa stare a galla!
Auguri, grazie ancora…
Riccardo
Auguri, Riccardo! In realtà io conserverei tutto, o per meglio dire ho sempre conservato tutto. Ma non serve. Un abbraccio forte!
grazie. non sai quanto, ma grazie.
Stupendo vero commovente. Mi farà piacere RI-leggerlo con l’attenzione che di deve all’arte. Buon Nuovo. Mirka Bonomi
Grazie. Auguri di cuore.
Tiziano
La Nuova Vita arriva. A volte anche quando non la chiediamo.
Arriva e bussa appena. Ed è proprio allora che dobbiamo farci prendere, abbandonarci, incamminarci.
La Nuova Vita non sa come sarà, lei è libera e fanciulla e tu con lei.
Aspettati la gioia, il cambiamento è già finito. Ce ne saranno altri. Ma ora è il tempo sacro per accogliere. Ed accogliersi.
Sono commossa da questo post. Sei sempre la migliore.
Se sono migliore lo sono grazie a te, Isa. 🙂 E’ dura abituarsi a non chiedere e non predeterminare. Ma sembra che tocchi farlo 🙂
Grazie, Loredana, per la tua riflessione. Credo mi (ci) porti a pensare a quanto ognuno di noi nella vita fa i conti con il proprio passato, ma si sa… ‘il mondo va avanti’… no? 😉
Maurizio
Il mondo va sempre avanti 🙂 Buon anno, e che sia “regale”.
IL DISTACCO DAL DOLORE TI PERMETTE DI SOPRAVVIVERE MA NON SI DIMENTICA DI ESSERE VIVI,QUESTA E’ LA COSA PIU’ IMPORTANTE,MAI DIVENTARE SEMPLICI SPETTATORI DELLA VITA E DEGLI EVENTI,ALTRIMENTI SI PERDE TUTTO.GRAZIE COMUNQUE PER AVER CONDIVISO CON NOI UNA PARTE DELLA TUA VITA, E CHE ACCOMUNA NEL DOLORE GLI ESSERI UMANI.
Il consiglio giusto è quello di tuo padre. Ma vale un po’ per tutti.
Gran bel post. In anticipo di qualche ora, ti auguro già un buon inizio.
Grazie di queste parole e della poesia di Maria Angela Gualtieri. Un caro abbraccio e tanti auguri di buon anno.
Buon anno, carissima!
Grazie di questo articolo e della poesia. E’ questa un’esperienza fatta anche da me poco tempo fa. Mia madre muore e dopo 15 giorni perdo anche mio fratello.
Non riesco ancora a superare questi distacchi. Leggo e rileggo continuamente il libro della Viorst per trovare una ragione, un senso a tutto quello che ci capita nella vita. Ma é molto difficile.
Ti auguro, Loredana Lipperini, che l’anno nuovo ti porti serenità, tranquillità e ti dia forza per continuare il tuo cammino.
Ah, chi trasloca costruisce il futuro! Lo muove, gli cambia posizione, a volte ci inciampa, comunque gli fa posto….Buon 2015!
Grazie per queste bellissime parole. L’eternità è negli attimi che portiamo dentro noi. Il distacco mi appare sempre più come una porta che permette di arrivare alla pienezza del tutto.
Buon Anno!
Va bene, non sono la sola, ci sono mille modi per chiudere quella porta.
Mi rivedo ma non mi risarcisco, resto pietra e muta e dura e ancora aspetto,
è proprio del dolore fare del distacco un passaggio perverso.
La natura è imperterrita, il cielo è imperterrito all’umano sgomento.
E come faceva a saperlo, come poteva sentirlo il prato ghiacciato,
teso a salvaguardare il germoglio di poi.
Una sola parola: grazie.
Una sola riflessione: hai notato quant’è importante condividere quando si cambia stato?
Gentile Loredana,
ancora una volta grazie per le tue lievi parole e per un’altra splendida poesia.
Di distacchi importanti conosco purtroppo il cupo colore. La poesia mi renderà più lieve il prossimo trasloco.
Eleonora
Grazie Loredana, per la generosità e l’intensità di quello che hai condiviso.
Non conoscevo la poesia di Mariangela Gualtieri e la trovo splendida e potente. La conserverò..
Buon anno
Grazie. Qui dentro sono nate due generazioni, ma prima o poi dovrò lasciare, ed è meglio che coltivi l’idea anche se io sono fatta per radicare.
Poter essere se stessi – tutti interi. Non frazionati spaccati divisi fra più luoghi .Scavati da baratri senza fondo . Sommersi – sopraffatti – dalle evocazioni di mille cose che durano più delle persone. Riuscire a farsi identità unica che tutto include e rielabora . Perchè non c’è altra strada per continuare ad essere – per divenire se stessi . Con i libri magari schierati al nostro fianco – che ci sostengono quando crediamo davvero di precipitare . E’ difficilissimo . Uno sforzo immane e continuo – che tu Loredana hai esemplarmente descritto . Coraggio , sei sulla buona strada . Io sono ancora dispersa – ma continuo a lavorare. Un abbraccio .
Buon Anno, cara Loredana, di cuore. Bellissimo post che mi ha fatto molto pensare. Anch’io (spero il più tardi possibile) vorrei far ritorno alla casa dei miei (ora della mamma). Anche se ho traslocato da un mese dopo vent’anni. Vero che i ricordi sono nel nostro cuore ma e’ tanto difficile liberarsi delle cose!