LE MIE DOMANDE INUTILI

Ci sono state reazioni molto dure alla dichiarazione di non sapere cosa e come dire su quanto sta succedendo a Gaza. La mia di ieri, quelle di Christian Raimo e Ida Dominjianni nei giorni scorsi.
Sono state interpretate come disprezzo, indifferenza, stanchezza “alla faccia di quelli che stanno sotto le bombe”, abuso della parola intellettuale, incapacità a usare quella parola, tradimento dell’impegno preso.
Non è così.
E’, semmai, impotenza davanti all’impossibilità di “dire”. Come scriveva ieri Helena Janeckzek, “l’impotenza devastante non riguarda solo che – semplifico – laggiù nessuno ascolti quel che diciamo noi, cosa evidentissima; ma anche dal fatto che nemmeno qui riesci a trovare un pertugio di ascolto in chi si è schierato da una parte o dall’altra. Per questo le parole diventano inutili nella loro modestissima intenzione di proprorsi come atto politico, cosa che diventano solo quando capaci di smuovere qualche riflessione. Possono esserci prese di posizione a un livello elementare umano (etico e in questa prospettiva anche politico), ma restano in questa dimensione quasi inerziale. E sono d’accordo, con Ida Dominjianni, che possa essere più importante dire tutta la difficoltà anche emotiva di pronunciarsi (benché sia nulla rispetto a ciò che vivono i diretti coinvolti – ma anche questo forse diventa più tangibile esprimendolo) piuttosto che illudersi (magari solo implicitamente) sull’incidenza politica di qualche dichiarazione”.
Farò un esempio molto semplice di questa impotenza, e riguarda David Grossman. Il quale si è sempre battuto per la pace, e per la pace ha lottato come poteva, e ancora pochi giorni fa sulla pace insisteva. Ecco. Quando Grossman viene intervistato alla radio veniamo sommersi di sms di insulto. Perché è uno scrittore israeliano. Ed è questo, esattamente questo, il limite: non riuscire a PARLARE di questa vicenda nella sua complessità perché non ti si chiede di parlare ma di schierarti e basta. Fanculo Grossman, questo ti viene detto.
Allora, si può usare la parola in questo contesto o non è, il contesto, il fallimento della parola? Mi si dirà: tu stai disprezzando i social. E io rispondo: no, sto dicendo che hanno reso difficilissimo prendere la parola su questo punto, in particolare su questo punto, molto più che su altro. Io voglio poter parlare di e con David Grossman e di e con Judith Butler, per esempio.
Così come voglio poter parlare di femminicidi senza dire “gli uomini sono bestie”, che molto spesso è quello che CI SI ASPETTA che io faccia.
E’ possibile, ora come ora? Lo ritenete fattibile? O quel che ci si aspetta è semplicemente l’immagine della bomba con le parole No alla guerra? E basta, quell’immagine? Non a fermare il conflitto, ma a capirlo? Queste sono domande, non asserzioni di verità. Queste sono le domande che mi faccio. Inutili, ma certo, ma sicuro. Eppure non riesco a non pormele.


47 pensieri su “LE MIE DOMANDE INUTILI

  1. Sulla pagina facebook del professor Joseph Halevi si può trovare una lista di libri per analizzare storicamente la vicenda israelo-palestinese. Forse sarebbe più utile mettersi a studiare che non discutere per giorni sulla propria ignoranza.

  2. La parola -quella sensata, almeno- ha costi troppo alti: richiede lo sforzo di informarsi (che so, forse anche sul progressivo restringimento delle libertà femminili a Gaza?), di distinguere e infine di soppesare.
    Vuoi mettere con la comodità della solidarietà -tempo richiesto: 3 secondi- verso un bambino ferito?
    E infatti mai come in questi giorni ho verificato e apprezzato la lucidità del buon Giglioli e del suo Critica della vittima.
    Voi però continuate a mantenere la posizione, per quanto silenziosamente c’è gente che apprezza.

  3. Certo che lei è proprio l’idealtipo dell’incoerenza. Non si rende proprio conto della sua logica di comodo, dell’applicare sistematicamente due pesi e due misure a tutto lo scibile di cui discetta quotidianamente, di professare scetticismo ed epoché per le posizioni che non condivide e incitare alla piazza quando in gioco ci sono i suoi pregiudizi femministi confutati già in partenza. Io inito sempre il prossimo a leggerla perché altimenti si rischia di perdere di vista il fatto che esistano persone con tale impudicizia logica.
    Ma non era lei quella che citava da mane a sera le parole di Fortini? Non era lei quella che aveva eletto a massima di vita il “Nulla è sicuro ma scrivi”? Suvvia. Se Israele professa l’apartheid e il lento genocidio è con quel nome che Fortini avrebbe definito. O forse ha paura di indispettire gli amici ebrei italiani soltanto a dire l’ovvio: la politica israeliana è criminale.

  4. https://www.youtube.com/watch?v=yC2s6eMU3IA#t=117
    Norman Finkelstein, su quello che sta accadendo a Gaza.
    Su tutto quello che è l’antefatto, Sigmund Freud:
    Negli anni Trenta si ebbero le prime rivolte ebraiche in Palestina, ed anche Freud, come altri ebrei noti al gran pubblico, ricevette dall’Agenzia Ebraica Internazionale la richiesta di partecipare alla pubblica critica verso l’autorità britannica che aveva cominciato a limitare l’immigrazione di ebrei in quel territorio. Poco tempo dopo l’alto dirigente sionista ricevette in risposta questa lettera di Freud:
    “Non posso fare ciò che ella mi chiede, perché non riesco a superare l’avversione per l’idea d’imporre al pubblico il mio nome. Neanche il momento così critico, mi sembra sufficiente a poterlo fare. Chiunque voglia infiammare le masse di persone, credo lo debba fare con qualcosa di esaltante, mentre la mia opinione moderata sul Sionismo non mi consente di far nulla di simile. Approvo sicuramente i suoi scopi, sono fiero della nostra Università di Gerusalemme, mi fa immenso piacere la prosperità del nostro insediamento. D’altro canto, però, io non penso che la Palestina possa mai diventare uno Stato ebraico, né che il mondo cristiano e il mondo islamico sarebbero disposti a vedere i loro luoghi sacri in mano agli ebrei. A mio avviso sarebbe stato più sensato fondare una patria ebrea in una terra con meno gravami storici. Sono però consapevole che questa mia opinione razionale non avrebbe mai suscitato l’entusiasmo delle masse né ottenuto l’appoggio finanziario dei ricchi. Devo tristemente riconoscere che l’infondato fanatismo della nostra gente è in parte colpevole di aver suscitato la diffidenza araba. Non provo alcuna simpatia per una religiosità ebraica mal diretta, che trasforma un pezzo di mura erodiane in cimelio nazionale, offendendo così i sentimenti della gente del luogo. Giudichi dunque lei se io, avendo simili opinioni critiche, possa essere la persona giusta per farsi avanti e confortare un Popolo deluso da speranze ingiustificate”.

  5. Sembra una partita a scacchi, da come la rappresenti tu. C’è gente che muore. E a oggi sta morendo da una parte sola. Cosa c’è di tanto difficile, di tanto complesso? Si può studiare quanto si vuole, poi però c’è l’umanità, i bambini non sanno niente eppure si schierano immediatamente, piangono quando qualcuno piange, ridono quando qualcuno ride. Questo discorso per di più reiterato mette tanta tristezza davvero.

  6. D’altra parte, finché i palestinesi daranno fiducia ad Hamas – cioè a chi sta offrendo a Israele un genocidio su un piatto d’argento – speranze non ne vedo. Né vedo un Gandhi palestinese all’orizzonte.

  7. Hommequirit, comunque lei si firmi, scrive sempre le stesse atrocità, con gli stessi veleni, la stessa sfinente ferocia. La prego, faccia qualcosa per se stesso.
    Serena, no, non è una partita a scacchi e, sì, c’è gente che muore. Che c’entra lo studio? Sto tentando di dire un’altra cosa: è ovvio, se fosse necessario, e non mi sembrava, che tutti auspichiamo la fine di quest’orrore. Sto cercando di dire che non basta esigere da chicchessia che pronunci la parola “sono contro la guerra”. Non basta.
    Preferiresti che fossi furba, come altri sono? Preferiresti un bello status con “a Gaza si muore qui ci affamano”? Uno status che mette a posto la mia coscienza e quella di chi legge?

  8. La discussione è passata da “Questa cosa secondo la quale bisogna prendere posizione su tutto mi ha sinceramente stancata.” ( parteggiare) all’efficacia o no del prendere una posizione su fb. Ma se il punto era fare qualcosa di efficace, allora la prima questione non ha senso. Si prende parte e si cerca di farlo cercando di capire quali sono le azioni migliori. Quindi ora parleremo di quali sono le azioni da sostenere e quali sono quelle puramente decorative? Oppure si aprirà una terza questione?

  9. No, Salvatore, parliamo del significato delle parole. Perché non trovo giusto, nè sensato, che chi usa le parole sia considerato un juke-box che sforna a comando dichiarazioni sulla questione del momento. Anche quando su quella questione si sente impotente, appunto. Anche quando su quella questione non si può che intervenire dicendo “israeliani boia tutti dal primo all’ultimo”, perché qualsiasi altra cosa venga detta viene risputata. E’ più chiaro ora?

  10. si è persa, anche per esigenze di sintesi, la buona pratica della puntualizzazione.Per cui è difficile aspettarsi qualcosa diverso da un rigetto alla sfida della complessità(anche in casa nostra, figuariamoci in una questione tignosa come quella del MO in cui se per caso provi a dire che Hamas è come il fronte Polisario e fa tantissimo per salvare vite umane e l’esistenza di un popolo ma nel contempo ha problemi di comunicazione evidenti, parzialmente giustificati dalla disperazione, se è vero come ho letto da quelahce parte che ha chiesto aiuto all’egitto portando come argomento il fatto che un lancio riuscito di missili dei giorni scorsi gli è pure stato dedicato in concomitanza con l’anniversario di uno dei pochi blitz arabi “vincenti” nella guerra dei sei giorni,passi molto probabilmente per essere una merda in ogni caso)

  11. Secondo questa logica, però, tutto è inutile. Le manifestazioni che dicono ‘no al razzismo’ diventano inutili. Il pacifismo delle bandiere alle finestre, che utilità aveva? Mi provoca molta confusione questo modo di ragionare.

  12. Ci sono tantissime persone che hanno fatto analisi nette pur articolando un pensiero “complesso”. Altre persone hanno detto che esiste il silenzio oppure atteggiamenti diversi come la richiesta di chiarimento da parte di esperti se da soli non si è in grado di capire, non dico intervenire. Quindi ora c’è un terzo problema, come avevo predetto, ed è quello della risposta del pubblico. Dovremmo non dire le cose come stanno ( o come pensiamo che stiano in base alla nostra esperienza) solo per timore del “tifo”? Questo è un vero e proprio cedimento alle masse. Infine l’impotenza vale per tutte le cose, forse sui problemi della scuola, della disoccupazione, unione europea, politiche internazionale delle grandi potenze, siamo “potenti”? Diamo il nostro piccolo contributo come sempre. Aspetto ancora un dibattito su cosa fare per sopperire all’impotenza ma lì si aprirebbe il discorso sulle pratiche che non so se si vuole fare o no.

  13. Evidentemente mi spiego molto male, oggi. No, non è vero che tutto è inutile. Gli scritti di Nadine Gordimer sull’apartheid sono stati fondanti per le lotte nel suo paese. Gli scritti di Grossman lo sono. Gli scritti di Said lo sono. Un mio status, o post, su una questione che si è incistata qui e altrove in una contrapposizione, diventa di dubbia utilità. Perché, come ho provato a dire, viene inserito in un contesto che ci sta marcendo sotto le mani (almeno, io lo percepisco così) ed è lo stesso motivo, ripeto, per cui se ospitiamo Grossman alla radio si imbufalisce una parte di ascoltatori e la stessa identica cosa avviene, rovesciata, se ospitiamo uno scrittore palestinese. Certo che mi piacerebbe sapere cosa fare e soprattutto COME DIRE. Ma credo che il senso delle parole di Dominjianni (azzerare quanto detto fin qui e trovare nuovi modi per dirlo) vada in questa direzione.
    Ps. Salvatore, il come fare, per me, discende dal come dire.

  14. @ diana corsini
    Per noi spettatori dell’informazione televisiva, Hamas è un’organizzazione terroristica, o qualcosa del genere, e i palestinesi (di Gaza) sono dalla parte del torto per aver dato il loro consenso (non solo elettorale) ad Hamas.
    Per gli abitanti di Gaza Hamas è l’organizzazione politica che apre, finanzia, e ricostruisce dopo i bombardamenti dell’esercito israeliano asili, scuole, ospedali. Che paga la pensione agli anziani e il sussidio ai disoccupati (e quando Israele chiude Gaza, sono tutti disoccupati). Che finanzia le università, ma anche le attività economiche dei palestinesi costretti all’esilio. Prova tu, a pensare a una prospettiva politica nella quale sull’immediato perdi tutto ciò che garantisce l’esistenza per te, i tuoi figli che dall’istuzione si aspettano una possibilità di futuro, i tuoi genitori anziani e i tuoi parenti malati, in cambio di un’opinabile prospettiva di miglior vita di lungo periodo.
    Per chi studia le cause storiche, e i loro effetti di lungo periodo (non c’è effetto senza causa, c’è bisogno di ripeterlo?), Hamas era un’organizzazione filantropica religiosa alla quale lo Stato di Israele ha consentito di proliferare ed espandersi, mentre reprimeva con ogni mezzo – compreso l’assassinio – i militanti di ogni livello di Al Fatah e delle altre oorganizzazioni afferenti all’OLP, perché la crescita di Hamas toglieva, sul breve periodo, spazio e consenso ad Arafat: senza alcuna valutazione degli effetti nel tempo lungo della storia.
    La ricerca di un facile responsabile a cui addossare le colpe “qui ed ora” è una consolante forma di impotenza politica, perché consolando preclude la ricerca delle Hamas non di oggi, ma del 2034, che oggi stanno germinando dalla miopia politica dei Begin, Shamir, Sharon e Netanyahu di ieri ed oggi.

  15. le parole di Freud ben rappresentano il problema della nascita di Israele; quelle di Girolamo De Michele illuminano le contraddizioni della politica israeliana; l’ accenno di Michela alle posizioni di Hamas sulla libertà della donna indicano un’ altro aspetto dei tanti che il problema ha. Ma non sarà che a monte di tutto, del cosa fare e del come dire, c’è il tema del cosa dire? prima di comunicarla o di applicarla una soluzione bisogna individuarla o almeno intercettare un processo x individuarla: a me manca questo, più di tutto. e se manca questo a che serve dire? ben ricordandoci che dire “fermiamo le bombe” o “due popoli e due stati” ha già dimostrato di non essere utile. a che potrebbe valere ripeterlo?

  16. @Girolamo
    non devi convincermi di nulla. Mi limitavo a osservare come la “strategia” di Hamas ottenga come unico risultato nuove e peggiori sofferenze per i suoi figli. Intesi anche e soprattutto come bambini. Ormai il lancio dei razzi è un “atto simbolico” che produce solo morte e distruzione.
    Della lettera di Freud mi colpisce la verità – estendibile a qualsiasi campo dell’umano agire – di quel “la mia opinione razionale non avrebbe mai suscitato l’entusiasmo delle masse”.

  17. @ michele
    Ricordo, proprio su questo blog, una brutta – e per questo emblematica – discussione tra chi, a proposito di un evento appena accaduto e di cui si conoscevano a malapena le immagini filtrate dalle griglie di “Repubblica” e dei TG nazionali, si iscriveva seduta stante ad uno dei due partiti delineati dal mainstream informativo e scomunicava chiunque non facesse altrettanto, e chi cercava invece di capire. Come insegnava anni fa un filosofo (Deleuze) a proposito di un filosofo (Foucault), ciò che “si vede” dipende dal modo in cui il visibile è catturato dagli enunciati, e il loro rapporto è sempre una configurazione storicamente determinata. Il fatto che si vedano (o si sia convinti di vedere) “palestinesi” e “israeliani” (altri vedono “islamici” ed “ebrei”), cioè due insiemi, due blocchi omogenei e senza incrinature, è una modalità della “cattura” del visibile da parte degli enunciati.
    Su questo le nostre parole – meglio: le nostre pratiche discorsive, che non sono mai indipendenti dalle altre pratiche che mettiamo in atto – possono lavorare

  18. Forse, con Guicciardini, siamo stati i primi ad aver isolato il concetto, ma non siamo mai stati campioni del mondo di discernimento(a tale proposito forse sarebbe il caso di dare il ministero della cultura a Girolamo de Michele che ci ha appena mostrato in estrema sintesi un quadro preciso della situazione)

  19. Forse sono io che mi sono spiegato male.
    E sì che l’ho detto: non è questione di condividere uno status, di rilanciare uno slogan o di mettersi l’avatar con la bandiera palestinese su Facebook.
    Ma possibile, poi, che si sia ancora fermi a quel punto…?
    E’ invece questione di trovare le parole e di avere il coraggio di usarle. Un’umanità che ha perso le parole per nominare i suoi orrori e che perciò si chiude nel silenzio (o nella rumorosa rimozione, come in questo caso) è un’umanità *finita*.
    E’ inutile che ci neghiamo il fatto che, social network o non social network, nel mondo in cui viviamo c’è chi detiene il monopolio della parola. Sono coloro che, per la loro specifica professione, hanno come “mezzo di produzione” primario, appunto, la parola. Gli intellettuali, insomma.
    Ma se anche gli intellettuali si ritirano di fronte a questo compito – il compito di *trovare le parole* – oppure tutto quello che riescono ad offrire sono parole improprie (disperazione), svianti (stanchezza) o paradossali (impotenza), l’umanità si trova privata di una delle poche ancore di salvezza che ha di fronte all’orrore.
    I termini della questione, per come è stata posta finora, andrebbero in realtà rovesciati. Se il conflitto israelo-palestinese dimostra qualcosa, questo qualcosa non è tanto il fallimento dei discorsi e delle parole, quanto il drammatico fallimento di ciò che viene di solito contrapposto ai discorsi e alle parole: l’azione.
    Quanto si è “fatto” per porre fine a quell’orrore…? Quante persone bombe sono state sganciate…? Quante persone sono morte…? Non in settimane o mesi, ma in decenni!
    Le stesse parole che vengono utilizzate per difendere le versioni ufficiali su questi eventi sono ripiegate in modo drammatico sulla dimensione dell’agire diretto, immediato, irriflesso. “Israele ha il diritto ad autodifendersi”. Quali altre parole potrebbero essere di più biecamente spalmate sull’azione pura, dura e brutale?!
    Le parole non prevengono certo in modo *diretto* l’orrore, ma contribuiscono a formare la coscienza di chi ce l’ha davanti, aiutano a vederlo per quello che è. E questo sì che, sul lungo – forse lunghissimo – termine può aiutare a prevenirlo sul serio, l’orrore. Se smettiamo di farlo, se ci chiudiamo nel silenzio, abbiamo già perso in partenza.
    E’ quello che ho cercato di dire fin dall’inizio, qui come su Fb. Ho espresso il concetto in modo particolarmente duro, non perché ce l’abbia personalmente con qualcuno, ma perché trovo inaccettabile la resa – tanto più se questa resa arriva, con tanto di aperta ammissione di “non riuscire a parlare” arriva da chi, su altri temi e in altri contesti, dimostra di saperla usare eccome la parola, con forza e determinazione se necessario.
    E la degenerazione dei social non può diventare una scusa! Forse sulle altre quesitioni, quando se ne parla sui social, si ha la vita più facile…!? Forse che sono meno brutali, meno polarizzati (e polarizzaNti)…!? Non mi pare proprio.
    Tanto più che c’è un filo rosso che accomuna questa a molte altre questioni… dare voce (dare *parola*, appunto) alle vittime di un sistema. Questa “piccolezza”, secondo Robert Fisk, è la missione stessa del giornalista: non dare una ricostruzione “imparziale” degli eventi, ma al contrario “prendere le parti” di chi, in determinati eventi, ricopre il ruolo della vittima; perché *nessun altro* darà loro la parola.
    Perché allora, nel caso del conflitto israelo-palestinese, a differenza di altri fenomeni (la questione di genere, ad esempio!) diventa improvvisamente così difficile – persino “impossibile”, per chi pure le parole le manipola quotidianamente per lavoro – usare le parole per dare voce alle vittime?!?!?! E’ questo che mi chiedo dall’inizio… ed è questo che mi lascia francamente sconcertato.

  20. don cave scrivi: Perché allora, nel caso del conflitto israelo-palestinese, a differenza di altri fenomeni (la questione di genere, ad esempio!) diventa improvvisamente così difficile – persino “impossibile”, per chi pure le parole le manipola quotidianamente per lavoro – usare le parole per dare voce alle vittime?
    credo che c’entri l’olocausto.
    Forse conviene accantonare il discorso vittime/carnefici – sempre un terreno scivoloso e complicato, per tanti motivi: tra gli altri, il difficile rapporto tra emotività e razionalità a cui alludeva Freud – e spostare l’attenzione sul diritto internazionale e su chi continua a violarlo ripetutamente.

  21. No, Don Cave, è SEMPRE difficile dare la parola alle vittime (CHIUNQUE esse siano) o anche usare le parole per esporre le loro ragioni dall’esterno. Lo è sempre stato storicamente e continua a esserlo nel presente. Solo che oggi a tale difficoltà si aggiunge quella introdotta da Social Network molto invasivi che hanno esasperato ulteriormente la comunicazione introducendo una secca logica binaria, perfettamente antitetica a qualunque parvenza di complessità e quindi di comprensione o empatia. Col risultato pratico di non riuscire a diffondere una logica della autocritica, della pace e della (ri)conciliazione; con conseguenze ancora inimmaginabili pure per noi che ci sentiamo “al sicuro”.

  22. Non mi sembra di aver detto da nessuna parte che è “facile”. Ho soltanto detto che è *necessario*!
    Poi ho posto una questione che fino a questo momento si è totalmente persa di vista: la “logica binaria” della polarizzazione sui social network vale per tutti i fatti e le circostanze, per cui non capisco per quale motivo proprio *in questo caso specifico* l’innegabile difficoltà (che c’è sempre, come tu stesso giustamente sottolinei), aggravata dal funzionamento dei social network, si traduca in impossibilità tout court.
    Mi sembra che l’oggetto della mia perplessità sia abbastanza chiaro… o no?

  23. Ok: quindi infine risulta che non è affatto questione di “impossibilità” di dire qualcosa…! Per fortuna, aggiungo.
    Mi sembra però che anche su altri argomenti non esprimi posizioni originali tue. Anzi, spesso e volentieri prendi a prestito le parole di altri – e il contributo è egualmente interessante!
    Il penultimo post ne è un esempio: hai citato porzioni di un lavoro del Collettivo Ippolita… e non si può certo dire che questo contributo abbia aggiunto qualcosa di sostanziale a quanto detto (e ridetto, e stradetto) da altri.
    Mi sembra quindi, a conti fatti, che la mancata presa di posizione su quello che sta accadendo a Gaza non nasca affatto da un’impossibilità (si possono sempre prendere a prestito le parole di altri, se non se ne hanno di proprie ma si vuole comunque contribuire) ma semplicemente… da una non volontà. Legittima, per carità.
    Io non ho mai messo in discussione il diritto al silenzio (anche se a volte il silenzio ha un “peso” non trascurabile, ognuno è libero di fare quello che vuole). Ad avermi lasciato onestamente sconcertato è stato invece il tentativo da parte tua, e non solo, di voler a tutti i costi “argomentare” questo silenzio (con l’esito paradossale di suscitare un mare di parole) appellandoti all'”impossibilità di dire” (ribadita in quest’ultimo articolo), al fatto che i social network sono fatti come sono fatti, eccetera…
    Sbaglio o a questo punto della discussione è abbastanza chiaro che argomenti del genere non reggono…?

  24. Sì, sbagli. Perchè con abilità retorica superiore alle mie attuali forze vuoi farmi dire quel che non voglio dire per il banale motivo che non è vero. E perché, ribadisco, su questo punto in particolare è difficilissimo uscire dagli schemi, come ho tentato di spiegare nel post. Male, evidentemente.

  25. Non voglio farti dire nulla, Loredana. Cerco solo di trarre (seguendo la logica, non la retorica) delle conclusioni da quello che effettivamente dici. Sbaglio? Forse. Ma se dopo una discussione così lunga, dopo due articoli e decine di commenti, il “vero” senso di quello che volevi dire non è ancora emerso, non ti viene il dubbio neppure remoto che forse il problema (la contraddizione) sta proprio in quello che volevi dire, e non nel modo in cui l’hai detto? Che è un problema di sostanza e non di forma?
    Ripeto: forse tu non hai alcun dubbio e sono invece io ad essere così limitato da non riuscire a capire. Può essere. E se anche così non fosse, l’asimmetria dello scambio in questo caso è tanta e tale che ci sarà sempre un modo per far sembrare che invece le cose stanno proprio così. Non protesto, per questo: così funziona il mondo e pace. Che è poi anche il motivo per cui forse non ha nessun senso spingere oltre questa discussione, che già si è trascinata troppo a lungo.
    Una cosa soltanto, in conclusione. Gli “schemi” sono sempre una cosa così brutta? Io non lo credo: spesso aiutano a mantenere la chiarezza, la linearità e la lucidità. E nel riflettere su fenomeni così drammatici e gravi, forse, “uscire dagli schemi” non è la vera priorità.
    Un saluto.

  26. Io temo che stiamo continuando a parlare di due cose diverse, ma ci sta. E, sì, gli schemi, almeno per me, non sono il modo giusto per ragionare. Non lo sono nei femminismi, per dire e per usare un argomento poco popolare al momento. Non lo sono altrove. Un saluto anche a te e grazie per lo scambio.

  27. Grazie. Per le riflessioni e per le parole (preziose e rare) fatte circolare. La sensazione di dolorosa spossatezza nel tentativo di trovare le parole di fronte alle guerre (e in particolare a questa) e alle violenze, la sento anch’io, pur senza essere un’intellettuale. Lo vedo, che è controproducente semplificare, schematizzare, schierarsi.e vedo che cercare un’alternativa fa avere molti contro.

  28. Mi è tornato alla mente, leggendo Lipperini, Grossman, Raimo, Butler, Sontag… “Il grido di intercessione” del cardinale Martini. Con linguaggio ovviamente cattolico. Mi rendo conto dell’azzardo. ma se è vero che l associazione non è esattamente pertinente, forse non è nemmeno così distante. Ma allora. Ce ne siamo dimenticati? o le reazioni sono così diverse se certe cose vengono dette da intellettuali o da porporati?

  29. @ Don Cave
    Tu scrivi: «E’ inutile che ci neghiamo il fatto che, social network o non social network, nel mondo in cui viviamo c’è chi detiene il monopolio della parola. Sono coloro che, per la loro specifica professione, hanno come “mezzo di produzione” primario, appunto, la parola. Gli intellettuali, insomma». Ecco, il punto è proprio questo: che gli intellettuali non detengono più il monopolio della parola. Sono come gli artigiani che sanno fare bene, benissimo un paio di scarpe, perché questo è quello che hanno sempre fatto: se non ché è arrivata la rivoluzione industriale, e le scarpe vengono fatte in serie dalle fabbriche. Sono scarpe meno belle, e anche meno durature, piuttosto standardizzate, ma anche molto più a buon mercato. Vai a spiegare a quelli che fanno la fila alla cassa del supermarket che vende le scarpe seriali che alla lunga prenderanno una fregatura!
    Nel Rinascimento poteva capitare che il duca di Stacippa madasse come ambasciatore al principe de Noantri un dotto umanista, campione dei ragionamenti sillogistici, insomma signore delle parole: e ancora ancora…
    E allora, che te ne fai del tuo sapere, della tua consapevolezza che nell’uso delel parole, nel concatenamento dei ragionamenti, nella capacità di reperire le cause profonde degli effeti scoppiettanti, se i veri detentori del potere della parola riescon, con un paio di effetti speciali, a svolgere quella funzione di mediazione che Gramsci attribuiva al ceto intellettuale? Ci mettiamo, noi intellettuali, a fare i pagliacci parolai? A ragionare anche noi che “non importa che sia vero, importa che funzioni”?
    E se invece non vogliamo avere l’esofago intasato dai peli deretani del potente di turno che abbiamo lungamente slinguazzato (passami il francesismo), se vogliamo ancora avere contezza della differenza che passa tra una coscienza al fosforo piantata tra l’aorta e l’intenzione, e un riflusso esofageo, che si fa?
    Ecco, direi che il punto è qusto.

  30. Chiedo venia, riscrivo:
    «che te ne fai del tuo sapere, della tua consapevolezza che nell’uso delle parole, nel concatenamento dei ragionamenti, nella capacità di reperire le cause profonde degli effetti scoppiettanti, hai qualcosa da dire e da dare»

  31. E’ la prima volta che mi trovo in perfetta sintonia con Loredana e mi è venuto l’obbligo di esternarlo. Troppo facile schierarsi come cani rabbiosi.

  32. Direi che questa appassionata discussione dimostra in toto la validità di quanto afferma il Collettivo Ippolita: i Social Network REALIZZANO in pieno l’assunto semiotico-strutturalista secondo cui la forma è portatrice di significato. Anzi, in questo caso la forma È significato tout court. Il guaio sta nel fatto che la forma è già stata decisa e che potrebbe essere cambiata (forse) solo dai potentissimi gestori degli stessi. Il che equivale a dire che sia praticamente immutabile, visti i meccanismi che sottendono al guadagno su web. In uno scenario simile, difficile non poter scegliere un sano silenzio.

  33. @girolamo de michele
    Forse ho usato l’espressione sbagliata. Quando parlo di “monopolio della parola” intendo dire semplicemente che c’è un’asimmetria (ed è giusto che ci sia) fra le parole di chi ha un profilo pubblico (e quindi, di solito… parla) e quelle di chi non ce l’ha (e quindi, di solito, ascolta, o al massimo interagisce con o reagisce a quello che altri dicono). Tra opinion-maker e opinion-taker, per semplificare al massimo.
    E se nell’ambito dell’opinion-making gli intellettuali hanno perso gran parte del loro potere, ciò non toglie che siano ancora ascoltati, che abbiano ancora un seguito – e, quindi, un potere, per quanto residuale. Per cui la responsabilità che hanno rispetto a quello che dicono – rispetto all’uso delle parole – rimane invariata.
    Tutto qui.

  34. @ Don Cave
    Mi tocca portar via acqua dal mio mulino: gli intellettuali “classici” (scrittori e quant’altro) non sono ascoltati. Non, quantomeno, da chi detiene il potere ed esercita la governance. Non sono in grado di esercitare alcun potere di persuasione, moral suasion, forme di opinion-making o quel che ti pare. Non è su questi versanti o per queste ragioni che va richiamata o rivendicata la loro responsabilità.
    Quelllo che un intellettuale fa ha a che fare, se poi lo fa, con quello che Foucault ha chiamato “il coraggio della verità” (la “parrhesia”, altra parola in rapida svalutazione a partire dal momento in cui Barbara Spinelli la usò per omaggiare Monti e il suo governo). E con la consapevolezza di stare dalla parte dei governati, e di costruire pratiche di opposizione ai poteri e ai governi (se sei uno che la pensa come Foucault, che era capace di prendersi le sue brave manganellate dai gendarmi), quali che siano. Magari ricordando che “governo” e “Stato” sono due brutte parole, non solo quando alludono allo “Stato d’Israele” e al “governo israeliano”, ma anche quando designano lo “Stato palestinese” e il “governo palestinese”: e quindi vivendo sempre in posizione scomoda.

  35. Difficoltà a schierarsi, capisco. Al di là dei 200 e passa morti da parte palestinese per i bombardamenti (non ci sono stati altrettanti morti istraeliani perché il loro esercito dispone di un avanzato sistema di intercettazione dei missili), la minaccia di invasione via terra con l’ordine di evacuare la zona, per 100.000 persone significa “deportazione”. Deportazione di un popolo e occupazione della sua terra. Oppure credete che a operazioni terminate tutto torni come prima? E la deportazione per me è “crimine contro l’umanità”. E’ impossibile non schierarsi.

  36. Vedi, negli anni 20 nella sinistra italiana era in atto un complesso e per certi versi disaggregato dibattito sulla rivoluzione, le alleanze, gli intellettuali, la presa di coscienza popolare. ecc. Anche allora c’era senso di impotenza, frustrazione. Poi però arrivò una direttiva del Komintern: l’assoluta priorità è fermare l’avanzata dello squadrismo fascista. Tutto il resto deve fermarsi, perché questo è l’obiettivo unico. Ora a Gaza se non interverrà una vera tregua siamo sull’orlo di una catastrofe umanitaria, col rischio della deportazione di un intero popolo. E’ questo il focus. L’unico.

  37. Giustissimo, Baldrus. Ma il focus cui fai accenno tu non spetta a chi utilizza i social network e a chi si informa su Internet, spetta a quei politici legittimati da chi quei social utilizza, cioè noi. Sulle decisioni politico-diplomatico-militari non possiamo nulla, sul come farci informare e sul come esprimere le ns.opinioni (che si traducono poi praticamente in voti a quei politici che decideranno di vite altrui) invece possiamo e dobbiamo discutere per avere più consapevolezza e capacità di capire le cose. Per poi agire negli ambiti in cui effettivamente possiamo.

  38. Il focus spetta a: donne e uomini. A chiunque voglia fermare un’azione che, se avverrà, è ascrivibile al nazismo: la deportazione di un popolo. Non è vero che “non possiamo nulla”. Ognuno di noi può.

  39. sì Baldrus, ognuno di noi può,
    possibilmente però evitando la moda diffusa di prendere a pretesto argomenti delicatissimi (come l’eterno conflitto israelo-palestinese ad esempio) per avere modo, ancora una volta, di mostrare la propria (presunta) superiorità morale e maggior consapevolezza e il proprio quotidiano tormento di fronte alla mancanza di parole o anche alla dichiarata stanchezza (che personalmente condivido, così come condivido lo spirito di questo post) di qualcun’altro.

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