REVOLUTION WILL NOT BE TELEVISED

A proposito delle spinte a schierarsi su Facebook (non altrove, attenzione, non in un contesto politico dove le proprie parole e soprattutto azioni avrebbero un senso) su quanto avviene a Gaza, e in assoluto di prendere posizione immediata, pena l’inclusione nella categoria di “complici” per l’una o l’altra parte, propongo qualche brano da Nell’acquario di Facebook del collettivo Ippolita.
La partecipazione online è più facile rispetto all’impegno richiesto da un’organizzazione offline. Il grande vantaggio dell’attivismo da salotto è che consente un simulacro di partecipazione, fatto di «mi piace» e «condividi questo link», di sincera indignazione per le storture del mondo, il tutto al riparo degli schermi che permettono l’accesso a quell’esperienza di condivisione gestita da altri per il nostro bene.
Gli attivisti e in generale i cittadini delle democrazie occidentali sono talmente digiuni di realtà da credere che basti togliere la cappa della censura per veder sorgere la democrazia. La libertà diventa una conseguenza dell’uso della tecnologia adeguata e l’informazione libera l’ostia benedetta della buona novella democratica. In questa prospettiva, se i cinesi potessero comunicare fra loro liberamente, i gerarchi del partito verrebbero spazzati via come è accaduto al politburo sovietico nell’89. C’è da scommettere che ogni futura insurrezione verrà letta attraverso le lenti deformanti della tecnologia salvifica. Ma ricordiamoci sempre le parole di Gil Scott-Heron «You will not be able to stay home, brother, because the revolution will not be televised».
Ancora una volta, la tecnologia svolge un ruolo rassicurante, confortando gli onesti cittadini occidentali della bontà della loro posizione e dei loro comportamenti. La vicinanza emotiva generata dall’essere spettatori delle repressioni in tempo quasi reale si traduce in un generico supporto per la causa della libertà dei popoli. Ma la maggior parte dei muri da abbattere non sono firewall di natura tecnologica, bensì ostacoli sociali, politici, culturali.
La spinta alla trasparenza, combinata alla frammentazione convulsa dei messaggi online e al calo tendenziale delle capacità di attenzione, favorisce l’emergere di messaggi estremistici, per loro natura semplificatori, e rende più difficile articolare ragionamenti complessi. La dura legge delle masse, amplificata a dismisura dai media di massa, è che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. Le cattive notizie ottengono ascolti maggiori delle buone notizie. Le barzellette volgari hanno più successo del teatro drammatico. Dopotutto, gli spettatori vogliono intrattenimento, ma intrattenimento facile e non impegnativo. Come ben sapeva già la politica imperiale romana duemila anni fa, la risposta a tutte le tensioni sociali si riassume nella formula panem et circensem (pane e giochi da circo), dove i giochi da circo erano sanguinari massacri fra gladiatori, animali selvaggi, schiavi e oppositori del regime. I telegiornali di oggi, così come i blog, i video di Youtube e i tweet, sono il circo contemporaneo globalizzato, un modo comodo e de-corporeizzato per vivere la realtà in presa diretta senza alzare un dito, senza polvere, senza sangue, toccando solo con gli occhi la tragedia. Conosciamo molti particolari degli tsunami che sconvolgono luoghi lontani e non sappiamo quasi nulla di quello che succede intorno a noi. Quello che non è su Google non esiste, e ciò che non lascia nemmeno un tweet dietro di sé non è degno di nota. Ma anche quando il voyeurismo si eleva a politica dell’indignazione, l’afflato di protesta lascia il tempo che trova e si riduce presto a sterile rivendicazione, spesso ancora prima di subire la repressione.
Politiche costruttive non possono trovare spazio nei 140 caratteri di un microblog o degli sms, né in un gruppo di Facebook, e nemmeno in un blog molto seguito, che pure consente un’interazione maggiore.

12 pensieri su “REVOLUTION WILL NOT BE TELEVISED

  1. grazie.
    non ho nulla da aggiungere perché queste parole sono la traduzione del mio pensiero.
    posterò il link su facebook, anche se so che non servirà. Ma forse qualcuno dei miei amici così certi di sapere dov’è la verità lo leggerà e si farà qualche domanda.
    Forse

  2. “In principio era l`azione”, diceva Goethe. E da questa affermazione prese piede una scuola di filosofi che non faticherebbe a sostenere che abbiamo cambiato verso e stiamo tornando ai tempi prima della creazione(semplificando tanto tanto tanto)

  3. Tempo fa, su questo blog, si lamentava il fatto che gli intellettuali non li ascolta (più) nessuno. Ora il perché è chiaro: perché non hanno “nulla da dire”.
    Se di fronte a eventi come quelli che stanno succedendo in queste ore il problema che l’intellettuale si pone è se ha senso prendere posizione oppure no sui social network – e questo problema è a tal punto “sentito” da scriverci articoli e “status” dedicati (vedi Raimo e Dominjanni) – il sospetto che mi viene, onestamente, è che i primi ad essere intrappolati nel così vuoto e così orripilante mondo virtuale della rete e della carta da pesce siano proprio… gli intellettuali!
    A tal punto intrappolati, aggiungerei, da non essere capaci di immaginare per sé, rispetto a questioni così importanti, una funzione e un ruolo al di fuori della deprimente alternativa fra “dire la propria sui social network” e “dire la propria – sui social network – su quanto poco senso abbia dire la propria sui social network”!
    Oppure – ed è il caso di Raimo – al di fuori del “dire la propria” su quanto al “dire la propria” sia semmai preferibile dichiarare (e lodare!) la propria “impotenza”, per giunta assimilando in modo piuttosto discutibile questa impotenza al sacrosanto e comprensibile bisogno di andare avanti con la vita di una donna che ha perso la gamba in un attentato terroristico (sic).
    Insomma: se anche solo il 10% delle cose scritte in questo articolo non si riducesse nei fatti ad un’invettiva savonaroliana su quanto è brutto e cattivo il mondo dei social network, ciò non renderebbe meno vero il fatto che gli intellettuali, in questo mondo virtuale fatto di “tifoserie”, banalizzazione e narcisismo, ci sono presi fino al collo! E taluni ci sguazzano piuttosto volentieri, si direbbe.
    E, come diretta conseguenza di questo, non renderebbe meno ridicolo il tentativo di camuffare dietro un atteggiamento di finta e polemica “stanchezza” – con acceso “dibbbattito” in allegato, nelle migliori edicole!!! – questa sostanziale incapacità di pensare per sé un ruolo e una funzione diversa nella società, e questa ancora più scioccante incapacità di dire qualcosa di rilevante e significativo su eventi come quelli che si stanno consumando in queste ore a Gaza.

  4. Don Cave, non mescoliamo i discorsi. Qui non si tratta di non aver niente da dire, ma di constatare, e dolorosamente, il limite della discussione sui social. Dove io sono, come Raimo e Dominjanni. Ed è una constatazione niente affatto piacevole. Non ho mai e poi mai detto che il mondo della rete è orripilante: ma è criticabile. E forse criticare il modo in cui si narra significa auspicare che si possa narrare in modo più incisivo. Savonarola non c’entra nulla, nè il collettivo Ippolita lancia invettive: lavora, semplicemente, e analizza. Criticare il modo in cui si fa giornalismo non significa dire che il giornalismo va abolito, mi sembra. Se l’intellettuale che tanto lei detesta ha un ruolo, è esattamente quello di riflettere sul modo in cui si comunica. Mettere la mano davanti alla locomotiva, si diceva un tempo. E almeno provare a rallentarla. Poi, se lei ritiene che uno status su Facebook fermi il bombardamento e gli orrori che si stanno consumando, che dire, può darsi che abbia ragione lei e torto tutti quelli che temono che indignarsi via social serva davvero a poco.

  5. Io non detesto affatto l’intellettuale. Al massimo, commetto l’errore inverso, ossia quello di investire aspettative eccessive in chi lavora d’intelletto – e quindi, presumo io (sbagliando, probabilmente), ha strumenti per capire, analizzare, condividere e spiegare le cose in modo più approfondito, penetrante e lucido di altri.
    Io non ho mai detto che uno status su Facebook possa fermare gli orrori, e non sono neppure così… idiota da pensarlo. Ho detto solo che trovo surreale che persone che “lavorano d’intelletto”, appunto, prendano questa *banalissima verità* (oltre che per farci… degli status su Facebook, il che già è abbastanza surreale!) come occasione per profondere analisi e accendere dibattiti nel momento in cui quelle preziose risorse intellettuali meriterebbero magari di essere investite in modo più utile. E non certo per condividere due righe su un social network, ma magari – che ne so – utilizzare il proprio profilo pubblico, la propria riconoscibilità, il seguito che si ha per dare un piccolo contributo ad una comprensione migliore e, quindi… alla verità!
    Non sto dicendo che una persona lo *debba* fare. Uno/a è liberissimo/a di tacere, se crede! Ma trovo ridicolo che poi la stessa persona vada pubblicamente ad esibire il suo stesso desiderio di tacere e la sua “disperazione” (cito una parola che proprio tu hai usato) nella forma di una filippica su quanto i social network siano inadeguati ad affrontare certi argomenti (incluso parlare delle *cause* della disperazione assai più drammatica e concreta di chi in questo momento sta sotto le bombe!).
    Insomma: perché discutere del ruolo dei social network rispetto a questi eventi aiuta a “mettere la mano davanti alla locomotiva”, e parlare di questi eventi no? Perché sul primo argomento è un fiorire di visioni e considerazioni, mentre sul secondo tutti alzano le mani e dichiarano la propria “disperazione”, la propria “stanchezza”, la propria “impotenza” eccetera eccetera eccetera…?
    Forse – ed è questo che mi fa così tanta rabbia – perché mentre sentite il mondo virtuale della rete e della carta stampata come il “vostro” mondo (su cui quindi vi sentite incoraggiati e giustificati a dire quello che pensate), su come funziona il mondo “là fuori”… beh, su quello avete misteriosamente perso la parola!
    Non odio affatto gli intellettuali. Semplicemente, mi fanno venire i peli dritti sulle braccia gli intellettuali… che hanno smesso di farlo.

  6. Lei avrebbe ragione da vendere, caro Don Cave, se non fosse che molti usano facebook o twitter senza eccessiva cognizione di causa. Queste stesse persone finiscono con l’attribuire ai social network quello status di “verità” che ancora ammanta (spero in maniera via via sempre più residuale) la televisione e si forma un’opinione su status o tweet che “colpiscono”. Poi queste medesime persone vanno (o non vanno) a votare e vengono irretite da chi usa quel medesimo linguaggio “social”… Se per me e per lei queste cose sono così scontate, non altrettanto lo si può dire per la “massa” (mi conceda questo orribile termine). Che degli intellettuali si preoccupino di modalità di narrazione non mi sembra dunque così strano: pensi a quanto la narrazione cambi se, parlando di immigrati, usiamo il termine “extracomunitari” o quello di “migranti”. Per 20 anni abbiamo tollerato che venisse sempre usato il primo e ci meravigliamo della pessima integrazione persino delle seconde generazioni!! Non è che un esempio, ma mi sembra lampante ed esplicativo.

  7. Quindi, fammi capire: il modo migliore per convincere queste persone che sbagliano a conferire ai social network questo status di verità, è… condividere, sui social network, considerazioni sui social network nelle quali si spiega perché sbagliano…?
    Non fa una piega!
    Mi sembra di vivere in un incubo fantascientifico in cui i mezzi si impossessano del frame discorsivo, e vincono a tal punto sulla nostra ragione da renderci totalmente miopi. Non riusciamo proprio a vederlo, questo “salto logico”…
    Così, mentre intorno a noi accadono cose orribili e tremende (delle quali siamo però troppo stanchi e impotenti e disperati per parlare) ce ne stiamo qui, intrappolati in questa scala di Escher… e correre su e giù per le scale diventa una specie di droga, della quale non possiamo più fare a meno… e corriamo, corriamo, corriamo…
    Qualcuno magari sente un briciolo di “responsabilità” nell’aiutarci ad uscire da questo ingabbiamento di livelli logici e ad aprire di nuovo gli occhi sul mondo “la fuori”. Queste persone entrano nella scala e ci si posizionano accanto e, mentre corrono di fianco a noi, sulla stessa identica ruota per criceti, ci sussurrano nell’orecchio quanto orribile è il meccanismo della scala, e quanto dovremmo imparare a liberarcene.
    Alcuni fanno questa cosa da anni, e dicono di conoscerla a perfezione, la scala. Di sapere com’è fatto ogni singolo gradino, di riconoscere al tatto ogni minima asperità del corrimano… peccato che la scala che dicono di conoscere così bene sia fatta in realtà di quattro banalissime rampe, che i gradini siano uno identico all’altro, e che non ci sia alcun corrimano. E peccato che la scala ci piaccia proprio perché è così: semplice, prevedibile, ripetitiva. E peccato che dell’incantesimo di quella scala loro stessi siano in realtà caduti vittime: alcuni persino prima di noi, molto molto tempo fa.
    E intanto, fuori dalla scala che torna sempre al punto di partenza (non importa quanto di illudi di salire) succedono cose orribili e tremende – cose che si avvicinano a noi sempre di più, solo che non riusciamo più neppure a vederle, perché non abbiamo più parole per nominarle.
    I depositari delle ultime parole, infatti… beh, le hanno spese per descrivere la scala nei suoi minuti dettagli all’orecchio di qualche loro simile interessato soltanto a correre e correre e correre e troppo stanco, disperato e impotente per ascoltarli. Forse, in realtà, l’hanno fatto così a lungo e con tanta convinzione perché il loro scopo era un altro: illudere se stessi sul fatto di poter resistere a quella tentazione irresistibile – o di potersene addirittura liberare se solo l’avessero voluto!
    E intanto, fuori dalla scala, le cose orribili e tremende continuano a succedere. E sono sempre più vicine a noi… e infine ci raggiungono! Ma noi ciechi, muti, sordi e ingabbiati in quell’illusione, abbiamo perso ogni mezzo per difenderci… e ne veniamo sopraffatti.
    FINE

  8. È un articolo,questo,che vale quanto la piú grossa pepita d’oro mai ” ancora” trovata. Dici di verità che stanno sotto gli occhi di tutti ma che tutti (o quasi tutti) non vogliono vedere perchè intaccherebbe l’immagine, falsa e falsata che hanno di se stessi e della cultura acquisita che ne è solo il vestito. Un vestito per nascondere ben altro. Frequento la rete abbastanza per capire a pelle appena scorro con l’occhio la presentazione dell’argomento quanto di trasversale vi possa essere se non di sottese subdole forme di perversioni,scritte con perfetta ineccepibile sintassi e suggestive sotto il profilo dell’immagine, miranti a manipolare,magari facendo finta di educare. E a partire proprio da questo ho nella mente di scrivere qualcosa che,ovviamente,non piacerà a qualcuno perchè potrebbe persino trovarsi pienamente dentro. E non parliamo poi dei media,degli “editori”,dei politici,di chi esercita la professione di psicoterapeuta,di chi nel nascosto tesse il copione che servirà per il domani. Casta o sarebbe meglio parlare di “cricca” senza troppi panegirici. Un caro saluto. BiancaMirka

  9. All`inizio internet era avventura dello spirito. Dopo 10 anni di digitalizzazione collettiva compiuta e` innegabile che una certa inerzia diversamente percepita si sia diffusa in guisa di autismo diversamente percepito, mentre la speranza che la rete fosse utile per riunire quelle intelligenze che potessero ritrovarsi nelle piazze, come per esempio e` accaduto in una certa maniera nelle primavere arabe(le cui derive in ogni caso lasciano perplessi persino i proggressisti piu` accaniti) e` rimasta al palo. Il tutto pensato senza nulla togliere all`importanza di un web non addomesticato(un mezzo, e non un fine quindi, capitatoci fortunosamente tra le mani sulla scala dell`evoluzione con cui ancora non abbiamo imparato a destreggiarci)

  10. Non dovremmo starci, sul maledetto web. Dovremmo fare altro. Non dovremmo consegnarci alla maledetta rabbia da Internet. Poi, quando ci perdiamo sul serio, lo capiamo.

  11. No, Don Cave, si tratta esattamente di raccogliere i suoi fondatissimi timori e di utilizzarli per (tentare di) utilizzare al meglio questi nuovi mezzi di comunicazione di massa. Cosa che comporta una reale conoscenza e una visione critica degli stessi. Cosa che comporta un impegno in più per gli intellettuali affinché le loro intuizioni e analisi arrivino efficacemente verso chi utilizza con minor consapevolezza tali potentissimi strumenti. Se ha avuto modo di leggere tutto il pezzo del Collettivo Ippolita sul loro sito, si sarà accorto che fanno un’analisi molto approfondita e documentata della struttura della Rete e dei principali Social Network (ma non solo); poi si potrà non essere d’accordo sulle loro conclusioni, tuttavia mi sembra che quella analisi non faccia (ahinoi) una piega.

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