LE PAROLE, COME SEMPRE, PER DIRLO

Cristina Gamberi mi manda questo. Non ci sono altre parole.
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11 pensieri su “LE PAROLE, COME SEMPRE, PER DIRLO

  1. Scusate, commento qui perché non mi va di registrarmi su youtube.
    D’accordissimo sullo spostare il “punto di vista”, ma secondo me nel manifesto a 18.04 (quello del “principe azzurro”), rivolgendosi alle donne, si rischia di cadere nel discorso del “non siete capaci di scegliervi i compagni”…

  2. Posto alcune critiche:
    Pubblicare le parole di Cantat non veicola necessariamente il messaggio che “la violenza non sia stata voluta e che non abbia origine nell’uomo”. Servono proprio a capire come l’uomo si vede. Mi pare che l’analisi si appiattisca nel voler interpretare in un unico senso il contenuto di un articolo, partendo tra l’altro da un pregiudizio, seppure fondato per buona parte. Così come il fatto che si assuma il punto di vista dell’assassino. È criticabile la mancanza del punto di vista della vittima, ma non la presenza del punto di vista dell’assassino.
    Un altro punto che vorrei fosse spiegato meglio è quello in cui si dice che le forme retoriche utilizzate “degenderizzano la violenza maschile sulle donne”.
    Mi pare in generale che le giuste critiche e le analisi siano però a loro volta influenzate dall’assunto ideologico di partenza, che è quello di raccontare i fatti riconoscendone la cultura sottostante. Allora mi pare che il problema fondamentale degli articoli di cronaca è che devono unicamente dirci cosa è successo e se possibile perché. Ma di un fatto appena compiuto, e a processo ancora non avvenuto, qualsiasi interpretazione è un azzardo.

  3. @ +°, “È criticabile la mancanza del punto di vista della vittima, ma non la presenza del punto di vista dell’assassino. ”
    Ma in sostanza il video mostra appunto come la cronaca tenda ad assumere il punto di vista dell’assassino a scapito di quello della vittima: a dargli maggior spazio, dando voce a autodifese, mettendo in risalto le giustificazioni, suscitando più empatia per l’assassino che per la vittima.
    La cosa secondo me è esemplificata magistralmente nelle “riscritture” di Michela Murgia, ad esempio in questa:
    http://www.michelamurgia.com/di-diritti/generi/storie-dellaltro-mondo-uomo-spacca-mascella-a-un-reggimento

  4. @ francesca violi
    Ecco, ci ritrovo lo stesso difetto. Un articolo che andava certamente migliorato, con termini più pertinenti, ma che non dava affatto adito alle interpretazioni riportate. Murgia scrive che il titolo “conferma” nel lettore una certa idea. Ora, magari ha usato il verbo “conferma” come un altro, ma io vedo un pregiudizio dietro. Noi non conosciamo le vicende passate della coppia, per cui l’idea di partenza varia da lettore a lettore. La relazione causa\effetto è contingente al fatto specifico, e l’unico discrimine è se è vera o no, non quali interpretazioni genera.
    Tutta la critica attorno alla parola soldatessa mi pare assurda. Dal punto di vista giornalistico non so giudicare, ma le interpretazioni sulle intenzioni dell’articolo sono a dir poco azzardate.

  5. L’analisi di Cristina Gamberi è davvero interessante e impressionante! Sono profondamente d’accordo con quanto si dice a proposito dell’iconografia stereotipata e spersonalizzata di cui spesso ci si serve nel raccontare questi tragici fatti, degli assurdi riferimenti letterari e mitologici a storie di amore e morte quando si tratta invece di storie di stupida prepotenza e violenza cieca, dell’orrenda insinuazione (a volte esplicita, in certi discorsi da bar) che la vittima “se la sia cercata” e che il colpevole sia un po’ meno colpevole perché non era in sé.
    Però, come +°, ho anch’io alcune perplessità. Bisogna avere attenzione per questo fenomeno preoccupante, ma senza pregiudizi di sorta.
    Si rileva come, parlando di femminicidi, i giornalisti assumano il punto di vista dell’uomo assassino, mettendo anche il lettore in una prospettiva “di parte”. Ma siamo sicuri che non accada lo stesso nella narrazione di un qualunque omicidio? La confessione che si può riportare è quella dell’assassino, perché purtroppo la vittima non può fornire una sua versione dei fatti, né spiegare il movente della violenza. Questo non significa però immedesimarsi nell’omicida. Naturale che l’assassino tenti di giustificarsi: secondo me basterebbe semplicemente mettere in evidenza il contrasto tra le sue (patetiche) parole di autoassoluzione e la brutalità dei fatti nudi e crudi.
    Il rapporto di causa-effetto esiste realmente, secondo me, ed è questa la cosa grave! Si dice: dicendo che lui l’ha uccisa perché lei voleva lasciarlo, si fa ricadere la responsabilità su di lei. Io non sono d’accordo. Se uno mi uccide perché non gli piace il colore della mia giacca, chi oserebbe dire che, siccome il colore l’ho scelto io, sono io responsabile della sua violenza? Chiunque ha il diritto di porre fine a un legame e di esprimere la propria legittima volontà; un tale diritto va tutelato, in modo che lo si possa esercitare senza dover temere minacce, percosse, persino la morte. Il fatto che la donna volesse esercitare un suo diritto e seguire giustamente la propria libera volontà non dà ragione a chi per questo l’ha uccisa, ma mostra tutta la meschinità dell’assassino, la sua incapacità di riconoscere l’altro-da-sé come qualcuno che ha una personalità, una volontà, dei diritti che vanno rispettati. E dell’amore non si dà prova con la gelosia, con la possessività, con i raptus, ma con il rispetto dell’altro!
    Ho l’impressione che ci sia davvero chi ritiene di dover “punire” le donne perché ormai “osano” adottare comportamenti, esercitare professioni, avere diritti che un tempo erano esclusivo appannaggio maschile. Questo è vergognoso. Ma le donne non devono avere paura e cedere al ricatto, anzi: è necessario lottare per conservare (e ampliare) i diritti acquisiti, ben più di quanto non sia stato fatto finora. Bisogna costruire insieme un mondo senza etichette, dove non ci siano più cose “per bambini” e “per bambine”, “da uomini” e “da donne”, ma dove ognuno sia libero di essere se stesso, di esprimere la propria individualità più autentica, senza essere incasellato, o costretto a incasellarsi, in stereotipi di genere.
    Non amando le distinzioni uomo-donna, il termine “femminicidio” non mi piace, ma mi appare come un male necessario: serve a designare un fenomeno orribile e dilagante, a cui bisogna porre fine al più presto, prima di ritrovarci a tornare indietro nel tempo e a perdere conquiste di civiltà faticosamente ottenute in passato.
    E c’è una considerazione che mi sale alla mente ogni volta che leggo di questi fatti di cronaca e che mi inquieta. Tutti questi assassini hanno avuto una madre! Cosa ha insegnato loro? Che immagine ha trasmesso loro della figura femminile? Possibile che non abbia inculcato loro il principio che uomini e donne sono uguali nella dignità, nei diritti come nei doveri, nel rispetto che meritano in quanto persone?
    Perdonate il mio lungo sfogo in questo blog che è un salotto accogliente, ricco di preziosi spunti di riflessione.

  6. Complimenti: chiaro, lucido, con argomentazioni solide. Purtroppo, anche in ambienti insospettabili, la negazione di quello che da qualche tempo chiamiamo “femminicidio” serpeggia, complicie il modo in cui viene comunicato (come spiega molto bene Cristina).
    Questa tendenza alla negazione coinvolge purtroppo un po’ tutte le tematiche di genere… (e qui mi fermo!)

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