LE PRINCIPESSE E LA PIZZA

Francesca mi manda questa storia. Non di educazione sessuale propriamente detta trattasi, ma di educazione al genere:  l’esperienza dell’Istituto comprensivo statale di Silea (TV) – scuola dell’infanzia di Cendon è, a mio parere, da condividere. Il laboratorio teatrale è rivolto ai bambini che frequentano l’ultimo anno. Ecco come funziona, dalle parole di Francesca:
“Il senso è di lavorare sull’identità dei bambini tramite la creazione, la narrazione e la drammatizzazione.  Sotto la guida degli educatori, i bambini inventano e realizzano uno spettacolo teatrale (personaggi, trama, costumi, scenografie…).
Gli educatori hanno proposto alcuni ambienti tipici delle fiabe, e i bambini hanno scelto il castello nel bosco. Loro stessi hanno deciso che personaggi volevano essere: le femmine volevano essere tutte principesse; i maschi, draghi e cavalieri. Le principesse erano belle, frivole, passive, pavide, attente alla cura personale e cuciniere (sul cartellone, la Principessa disegnata da una delle bambine: abito con spacco alla coscia, decolletè rosse col tacco, labbra turgide); i cavalieri un po’ ruvidi e puzzoni, ma coraggiosi, attivi, salvatori; i draghi feroci, combattivi e famelici*.
Malgrado le proposte alternative tentate dagli educatori, i bambini sono rimasti sostanzialmente attaccati a questi ruoli e caratteristiche dei personaggi.
Nel prosieguo del laboratorio, verrà proposta un’altra ambientazione, e fin dall’inizio si faranno lavorare i bambini per demolire questi stereotipi, ad esempio proponendo ai personaggi maschili di fare anche cose considerate femminili, e anche lavorando sui costumi, movimenti ecc.
Purtroppo ciò che ho trovato carente è il coinvolgimento delle famiglie: il senso e la prospettiva di questo laboratorio non sono stati raccontati ai genitori, ai quali è stata semplicemente proposta la recita e basta. Le spiegazioni che ho riportato mi sono state fornite quando sono andata a chiedere lumi, stupita negativamente proprio dalla messa in scena di ruoli così stereotipati.
La trama: le Principesse vivono nel loro castello, e passano tutto il tempo ad agghindarsi e farsi belle (tutte sono munite di specchio), e ogni giorno si lavano al laghetto malgrado l’acqua fredda; i Cavalieri vivono in un altro castello, e passano il tempo esercitandosi con le spade, giocando a carte, e non si lavano mai infatti puzzano. I draghi vivono nella loro caverna e si aggirano fuori in cerca di cibo. Un giorno i draghi affamati, attratti dal profumo delle P., ne assalgono il castello. Acute grida delle Principesse; i Cavalieri  accorrono e le salvano (le Principesse non collaborano, si limitano a strillare). Insieme Principesse e Cavalieri pensano a come risolvere il problema, e hanno un’idea: le Principesse  cucinano delle pizze, poi i Cavalieri le recano in omaggio ai Draghi. Questi le mangiano e per gratitudine riscaldano l’acqua del laghetto, così anche i cavalieri si laveranno di più. Vissero felici e contenti.
Ho chiesto alla maestra M. di raccontarmi qualcosa su come lavora sugli stereotipi di genere.
In generale molto lavoro viene svolto sugli stereotipi di ogni tipo, che logicamente a quell’età sono molti, e forti; per ampliare gli orizzonti dei bambini viene valorizzata la diversità, la varietà, l’individualità.
In particolare su quelli di genere si lavora nel corso delle attività (con l’uso di storie, drammatizzazioni…) o cogliendo costantemente opportunità concrete nella vita quotidiana della classe. Ne riporto alcuni esempi.

-(Forte e debole) La maestra dice a una bambina, “Portami per favore quella grande scatola” e poi ne valorizza la forza davanti a tutti: “Ah, brava, come sei forte…” Subito i maschi: “Anche noi siamo forti!”. La maestra spiega che sia maschi che femmine possono essere forti.
-(Rosa e azzurro) La femmina sceglie l’oggetto rosa, il maschio quello azzurro. La maestra li fa scambiare e spiega che non è che il rosa è solo delle femmine e il blu dei maschi: i colori sono di tutti ed è bello avere tanti colori e non sempre lo stesso.
-(Il trucco) Lavorando sulle parti del corpo, si fa la faccia. Tutti devono mettersi il rossetto e stampare l’impronta delle labbra sul foglio. Molti maschi non vogliono farlo: il rossetto è una cosa troppo da femmina! Allora la maestra spiega che ci sono anche maschi che usano il trucco, ad esempio gli attori, e, figura decisiva, il pagliaccio, al che anche i maschi si convincono a mettere il rossetto.
– (Tutti giocano con tutto) Nel gioco libero in classe si scoraggia l’idea che ci siano giochi e giocattoli da maschio o da femmina: i bambini vengono fatti alternare nelle varie “zone”, in modo che sia maschi che femmine giochino un po’ con la cucina e un po’ con la pista delle macchinine, con le bambole e con gli attrezzi”.

29 pensieri su “LE PRINCIPESSE E LA PIZZA

  1. Sull’educazione di genere stiamo ripiombando indietro e questo racconto lo conferma. E purtroppo sono proprio i genitori che portano avanti gli sterotipi. E’ un continuo: non è da femmina, non è da maschio. Se la scuola non aiuta, la pressione sociale continua fortissima, da soli è davvero difficile tirar su una persona consapevole. Devo dire che c’è molta più sensibilità nei cartoni di Rai Yoyo che nel sentire comune che percepisco io.

  2. Sono cresciuto con due sorelle, poco più piccole di me. Non c’erano distinzioni di genere, né nel gioco, né nella vita quotidiana.
    Io lavoravo all’uncinetto e facevo i biscotti, le mie sorelle giocavano con i soldatini e facevano a gara per rubarmi il nome di battaglia più truculento: al mio “Allan il temerario”, loro rispondevano con “Jack il sanguinario” o “Jim il guercio”.
    Tutti lavavamo i piatti, a turno. C’erano mercanteggiamenti sottobanco, ma sfuggivano ai nostri genitori e non dipendevano dal genere.
    All’epoca non era così comune, anzi. L’equilibrio s’incrinò un po’ a contatto con gli altri bambini.

  3. “Purtroppo ciò che ho trovato carente è il coinvolgimento delle famiglie”
    Non ho dati per supportare la mia tesi che e´solo un’impressione oltretutto da una persona che figli non ne ha. Ma siamo sicuri che, stante la situazione cultrale italiana, sia un bene convolgere i genitori?? Chiedo lumi a chi ne sa di piu’…

  4. simone, (sono quella che ha mandato il racconto) secondo me è sempre un bene coinvolgere i genitori, perchè è un modo di farli riflettere e responsabilizzarli. Poi non so, magari le maestre lo faranno in privato durante i colloqui individuali. Però forse alcuni genitori avrebbero potuto guardare la recita con occhi diversi, e magari pensarci un po’ su, se avessero avuto qualche spiegazione in più sul percorso e sul senso del laboratorio. Io al momento ho condiviso le mie perplessità con qualche mamma presente, buttando lì un paio di battute, e come c’è stata quella che mi ha guardato con sguardo vacuo c’è stata l’altra che mi ha detto eh già, non ci avevo fatto caso, non ci avevo pensato…

  5. Forse non ho capito bene il racconto, ma come si fa a lavorare sugli stereotipi di genere con dei bambini senza coinvolgere le famiglie? Senza comunicare quali sono lo scopo e il traguardo di questo laboratorio.
    Non credo che ci siano genitori che non capiscono l’utilità di un lavoro simile, se si trasmette l’idea che questo sia indispensabile quanto imparare a leggere e scrivere.

  6. No Paola, hai capito bene. Le mie perplessità sono anche le tue, anzi io mi sono pure sentita un po’ offesa, come se si ritenesse che non valeva la pena spiegarci; ho anche pensato che magari si voleva evitare che alcuni genitori si sentissero implicitamente giudicati, davanti a tutti, per come avevano educato i figli, e forse le insegnanti ne parleranno in altri momenti. O magari è stato uno svarione (è un’esperienza che si mette a punto anno dopo anno, e non è nata specificamente per gli sterotipi di genere) e alla prossima recita verrà spiegato per bene il lavoro svolto, e mostrando la differenza tra la partenza e l’arrivo.

  7. A mio avviso il coinvolgimento dei genitori è indispensabile, perché gli sforzi delle/degli insegnanti rischiano di cadere nel vuoto se non sono accompagnati da un percorso parallelo della famiglia, che rimane comunque la prima ad educare e che troppo spesso necessita essa stessa di educazione al genere. Non sottovalutiamo il fatto che spesso gli stereotipi di genere vengono formulati proprio in seno alla famiglia, quando, per esempio, si ripete ad un bambino in lacrime “non piangere, sei un maschio, le femminucce piangono” oppure “giocare con le bambole è da gay”. Di fronte all’incessante ripetersi di questi tormentoni da parte dei genitori, l’impegno della scuola, a partire da quella dell’infanzia, rischia di essere inefficace. Detto questo, io mi chiedo, però, come si possa realizzare un coinvolgimento anche di quelle madri e di quei padri che provengono da culture diverse da quella europea e occidentale. Mi riferisco, ad esempio, ai bambini e alle bambine musulmani o alle famiglie cinesi, che, notoriamente, non tollerano ingerenza alcuna nella sfera familiare e privata e che, di fronte a un tentativo spesso molto blando e ingenuo di creare un collegamento tra la vita per così dire “privata” e la scuola, si chiudono letteralmente a riccio, perché non concepiscono l’idea di dover parlare in pubblico di sé.

  8. Non si può fare educazione di nessun tipo senza coinvolgere i genitori/le famiglie/i caregiver PUNTO.
    Spiegare quali sono gli obiettivi degli interventi educativi e in che modo si chiede la partecipazione/il sostegno degli adulti è fondamentale per non far cadere nel vuoto gli interventi educativi.
    Se si organizza una gita a una fattoria scolastica, ci può essere il genitore vegetariano che dice ai figli andate a fare la conoscenza di assassini sanguinari e il genitore un po’ superficiale che pensa solo che bello, andate a vedere gli animali.
    Trovare il linguaggio giusto per coinvolgere gli adulti senza urtarne le sensibilità specifiche è una parte importante del lavoro degli insegnanti – su un argomento delicato come gli stereotipi di genere lo diventa ancor di più!

  9. Forse se non si intende questo lavoro (il laboratorio) come scontro diretto con le famiglie ma come comunicazione di una alternativa ai modelli unici, come parte integrante dell’insegnamento, si arriverebbe a considerarlo come una normale prassi. Non credo si stia parlando di imporre niente a nessuno: sono bambini a cui è stata mostrata un’alternativa. Abbiamo modelli poi che si impongono da soli, a tutti: ad una famiglia musulmana basta andare in un supermercato nostrano per essere bersagliata da differenze…

  10. Temo che il mancato coinvolgimento delle famiglie boicotti la riuscita dell’esperimento. In effetti, spesso le persone – bambini compresi – mettono in atto scelte meno discriminanti per un sesso o per l’altro fuori casa, sono mentalmente dinamici fuori casa, ma tornate in famiglia li ripropongono. Non solo perché è un sistema più stabile, ma perché è dura, davvero dura, insegnare agli incalliti ad adottare uno sguardo nuovo.
    Poche ore fa mia zia, 60enne, viene a casa mia con sua nipote di 5, bambina viziatissima e tipica allegoria di bambina intrisa di stereotipi. Come posso chiedere a lei di rivoluzionare il suo sguardo quando, appena preso in mano un camioncino di mio nipote maschio, sua nonna la redarguisce urlando: “Ma che fai?! Che sei un maschio che giochi con i camion?!”?

  11. @paola di giulio
    no, infatti, fino al suo intervento nessuno, mi pare, ha utilizzato il termine “imporre”. Io mi riferivo all’entrare in relazione, cioè mi piacerebbe conoscere esperienze concrete (e non idee preconcette) di qualche insegnante, educatore/trice che ha provato ed è riuscito/a ad entrare in relazione con culture altre rispetto alla nostra sui temi dell’educazione al genere. Vorrei far anche presente che spesso molte madri, per esempio maghrebine, non parlano italiano, pur vivendo da qualche anno in Italia.La loro vita sociale è praticamente prossima al niente, anche quando le si incontra al parco e si tenta di scambiare 2 parole. Come si può interagire con loro? Qualcuna/o ci ha mai provato? ci è mai riuscita?

  12. Antonella, ‘imporre’ è una deriva possibile quando si tratta di idee e di modelli in cui si crede fermamente, e può capitare. Ma mi riferivo ai ‘modelli alternativi’ (alla loro cultura) cui le famiglie straniere volenti o nolenti si trovano di fronte anche quando camminano semplicemente per strada.
    Stiamo parlando dell’educazione ad avere modelli alternativi di genere, e mi piacerebbe che fosse una prassi scontata quanto i modelli alternativi di slip che trovo al supermercato…
    Lo so che è più complicato.

  13. Mio figlio di un anno e mezzo ha ricevuto per natale una bella carriola rossa di metallo ed è impazzito dalla gioia.
    Ho visto mia figlia di 6 anni rubargliela spesso per giocare e le ho chiesto:”Tra un po è il tuo compleanno, perchè non chiedei ai nonni di regalarne una anche a te, magari della tua misura?” Si è illuminata in un sorriso e subito dopo ha appeso il broncio:”NO, Non la voglio! è un regalo da maschi e mi prendereanno in giro!”.
    Mi è venuto da piangere a pensare a come mia figlia si stesse autolimitando, già schiacciata dagli stereotipi che ha intorno…
    Alla fine ce l’ho fatta a convincerla (in primavera avrebbe potuto lavorare insieme a me in giardino..) ma a patto di ricevere il regalo quando non fossero presente gli amici e con la promessa di ridipingere la carriola con gli spray lilla e viola..
    che tristezza e che rabbia!

  14. Io però sto chiedendo se c’è qualcuno/a fra lettori e lettrici di questo blog che abbia esperienza in merito alla difficoltà di entrare in relazione con genitori e bambini/e che non parlano la nostra lingua e che vivono in maniera diversa, se non opposta, la sfera familiare, che per me è imprescindibile se ci occupiamo di educazione, tanto più se di educazione al genere. Il mio intervento è dettato da una esigenza concreta, pratica. Nella scuola, soprattutto in quella dell’obbligo, la presenza di culture diverse dalla nostra non è un dato trascurabile ed è un fenomeno destinato a crescere, che spinge a una riformulazione della didattica e dell’approccio con bambini/e tutt* , in qualsiasi attività ci si impegni, come ben sa chi di educazione si occupa in concreto. Si fa presto a parlare di educazione al genere, ma le difficoltà rischiano di diventare insormontabili quando non ci si pone il problema di un gruppo-classe, dove tutt* hanno diritto alle stesse opportunità, composto da bimbi e bimbe che non concepiscono l’idea di parlare di sé in pubblico e/ o le cui madri non parlano italiano e/o sono anch’esse restie a rivisitare i propri ruoli rigidamente codificati dalle culture di appartenenza e che, oltretutto, condividono. Per questo chiedo se c’è qualcuna che ha più esperienza di me nel gestire situazioni che diventano sempre più frequenti. L’esperienza di trent’anni fa, da alunna/o, non basta e nemmeno quella di chi opera in contesti esclusivi, cioè dove la presenza “altra” è pressocché inesistente e dunque ciò induce a escludere il problema, che purtuttavia non cessa di esistere.

  15. Temo che provare a convertire un frame già molto compromesso come quello della fiaba (principesse cavalieri ecc) sia un’impresa condannata al fallimento. L’immaginario non è un’abito che si mette o si dismette indifferentemente, meno che mai si scuce e si smonta addosso a chi lo porta, ma è lo specchio di rapporti reali. Bisognerebbe avere il coraggio di partire non dal pensare ma dal fare (ricetta marxista, ma non solo), cioè organizzare coi bambini giochi o attività in cui le abilità definiscano i ruoli e non viceversa, e usare il meno possibile contesti già preventivamente sessuati. Per esempio se si prende un bambolotto e si chiede di accudirlo ecco che scatteranno i ruoli predefiniti della mamma che cucina e del babbo che esce a lavorare, ma se si prendesse un vero cucciolo di animale (cane o gatto) e si chiedesse indistintamente ai bambini di metterlo a proprio agio?

  16. Invece Valter credo che proprio perchè l’immaginario definisce i rapporti reali, sia giusto far fare ai bambini l’esperienza di inventare favole diverse, di immedesimarsi in eroi diversi: come nella vita una donna può fare la poliziotta e un uomo cucinare, così in una favola di oggi la bambina può anche combattere i draghi, condurre la nave pirata in cerca di tesori o esplorare pianeti misteriosi, e il bambino può fare anche la pizza o cucire un abito incantato, e non per questo il tutto è meno magico e divertente e favoloso.

  17. Mah, la principessa è ormai un archetipo radicato, non è solo immaginario fiabesco. Qui c’è anche troppo “fare”! Ricollegandomi al mio primo commento, in cui stigmatizzavo il comportamento di molti genitori, forse un esempio rende meglio l’idea: ieri al parco una signora mai vista prima ha sgridato la mia 4enne che si stava esibendo in rumorosissimi e “terrificanti” ruggiti del leone dicendole che lei dovrebbe fare cose da principessa e non questi rumoracci da maschio (lei per fortuna l’ha bellamente ignorata, o forse l’ha mannataffan ruggendo, però temo che abbia comunque sentito, e senti oggi e senti domani…). Insomma, voglio dire, in pratica questo è quello con cui si deve avere a che fare. Ed è un continuo “castrare”, per entrambi i generi (guai al maschietto che non guarda Cars e invece si delizia con Trilli).

  18. Andando sul link che ha messo Lorella Zanardo vien fuori la situazione attuale dei libri di testo per le elementari. Libri correnti, in molti dei quali nessuno ha sviluppato un discorso sugli stereotipi di genere. Questo è un fatto. E ci sono pure dei numeri. Si può provare a immaginare una situazione in cui al laboratorio della scuola di Silea si affianchino dei libri concepiti con particolare attenzione al problema di genere. Questa credo sia la base di quanto è stato fatto (e viene mantenuto) là dove le cose si sono evolute un po’ più che qui. Forse l’eroica famiglia che vorrebbe resistere a questo accerchiamento, non si sentirebbe più a proprio agio. Rivoluzionario.

  19. @Francesca
    Non ci siamo capiti, non ho niente contro l’affabulazione, anzi è uno strumento psicosintetico eccezionale, il punto è non partire da “figure” già compromesse in uno stereotipo di genere, ma per esempio da compiti da eseguire o prove da affrontare ecc.

  20. Paola vorrei aspettare e leggere altre storie e iniziative, poi cercherò occasione di affrontare il tema con la dirigente dell’istituto (infanzia-primarie-medie), che credo possa essere sensibile all’argomento.

  21. Francesca, io le chiamo ‘buone pratiche’, e sono collegabili a biblioteche, librerie, ecc. Dalle mie parti c’è una nuova libreria per ragazzi che si impegna anche a fare dei ‘reading’ nelle scuole, o animazione nei suoi locali, su vari temi, fra cui questo. Un esempio che può servire anche a far conoscere certi libri piuttosto che altri. E in giro (non solo su questo tema) ci sono libri bellissimi.

  22. Ho appena sentito di un concorso per libri per bambini, Narrare la parità, qui le informazioni: http://narrarelaparita.blogspot.com/ Mi sembra una buona notizia.
    Intanto ho letto di un libro diffuso dal Ministero danese per l’uguaglianza di genere, nel quale si incrociano la storie di un bambino che si sveglia e passa una giornata da bambina, e una bambina che per un giorno sarà un bambino. Molto bello il momento in cui, abbandonati gli stereotipi, i due si trovano in un luogo speciale e inventano nuovi ruoli. Se interessa, posso segnalare il link. Dalle immagini e grazie al traduttore si capisce abbastanza ed è davvero molto carino. Le altre iniziative danesi volte al superamento degli stereotipia scuola (e non solo) fanno venire le lacrime agli occhi.

  23. Io come mamma mi sentirei esclusa e perfino offesa se vedessi un progetto come questo di cui non ci vengono esposte le finalità, anche perché potrei fraintendere di brutto…
    Sui libri di testo, qualcuno conosce il vecchio progetto POLITE (Pari Opportunità nei Libri di Testo) ? Non so più che fine abbia fatto.
    La carriola gialla e rossa a mia figlia gliel’ho comperata a 18 mesi insieme al triciclo rosso e blu. Sono curiosa di vedere cosa succederà quando scollinerà i 3 anni.

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