Sono stata a scuola, questa mattina, a incontrare tre classi (le ultime della scuola secondaria di primo grado) e parlare di libri. Che è cosa che faccio sempre con mille dubbi, perché credo che non ci sia niente di più pericoloso del “dovete leggere”, specie a tredici o quattordici anni. Ma era una gran bella scuola, il Viscontino, dove avevano letto Bradbury e Golding e visto Stand by me, per esempio, e qualcuno aveva già cominciato a scrivere una storia (fantasy, ed è giusto così) e le ragazze non si vergognavano di leggere romance, perché a quell’età i romanzi che allora si chiamavano rosa li abbiamo letti tutte.
Però mi è tornato in mente un vecchio articolo di Susan Sontag sulla scrittura e sulla lettura, e mi chiedo quanto tempo dedichiamo a insegnare a leggere, oltre che a scrivere. Insegnare significa, ovviamente, riuscire a districarsi nel poco tempo che abbiamo per scegliere e un libro e dedicarsi al medesimo. Scriveva Sontag:
“Ciò che scrivo è diverso da me. Ciò che scrivo infatti è più brillante di me. Perché posso riscriverlo. I miei libri sanno quello che sapevo una volta , in forma irregolare, a intermittenza. E mettere sulla carta le parole migliori non diventa più facile neppure se si scrive da molti anni. Al contrario. Qui sta la grande differenza tra leggere e scrivere. Leggere è una vocazione, un’ arte, nella quale, con l’ esercizio, sei destinato a diventare più abile. Da scrittore accumuli soprattutto incertezze e timori. Tutto questo senso di inadeguatezza da parte dello scrittore – della qui presente, in ogni caso – è basato sulla convinzione che la letteratura conti (contare è sicuramente un eufemismo), che ci siano libri “necessari”, libri cioè che mentre li leggi, sai che rileggerai. Forse anche più di una volta. Esiste forse privilegio più grande di avere una coscienza estesa, riempita dalla letteratura e ad essa orientata?”
Tag: Susan Sontag
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