Sul Venerdì di Repubblica, Marco Filoni intervista Umberto Eco sui cinquant’anni del gruppo 63: nella chiacchierata, si rievoca il famoso episodio delle “Liale”, laddove Sanguineti tacciò con quello che evidentemente si riteneva epiteto degno di disprezzo Giorgio Bassani e Carlo Cassola. “Polemizzavamo – ricorda Eco – contro quello che, all’epoca, con linguaggio della critica americana, veniva chiamato il romanzo ben fatto. Quindi in un certo senso la polemica era contro il romanzo consolatorio, indirettamente contro la letteratura commerciale. Certo, oggi riconosco che l’aver messo sullo stesso piano Cassola e Bassani non fu giusto. Salverei Bassani e non Cassola”.
Ora, il giochino del “come stiamo messi oggi?” sarebbe ingeneroso, così come è forse ingenerosissimo notare, guardando le fotografie d’epoca, il gruppone tutto maschile, con una sola donna sui ventidue che si riunirono nel 1964 a Reggio Emilia (era Giuseppina delle Case, che però si firmava Alarico Cassè). Però va fatto. Era ingeneroso anche l’epiteto, del resto: come se la cosiddetta letteratura sentimentale non dovesse e potesse trovar spazio, attenzione e nobiltà non solo nelle avanguardie, ma nella letteratura. Nel 1987, l’episodio venne così rievocato da Alfredo Giuliani:
“Qualcuno di noi a quel tempo chiamò Carlo Cassola una Liala del 1963. Fu una battuta provocata da qualche osservazione di un giornalista. E ricordo abbastanza bene le circostanze nelle quali fu fatta cadere, se non sbaglio da Edoardo Sanguineti. Eravamo nella platea di un teatro a Palermo, durante le prove di uno spettacolo che sarebbe andato in scena nel corso della Settimana musicale. Proprio la Settimana in cui fece clamorosa apparizione il Gruppo 63. Eravamo lì per questo, e tutte le provocazioni erano buone. Non ricordo esattamente, invece, se qualcuno tirò fuori il nome di Bassani e se la battuta fu quindi corretta in Cassola e Bassani sono le Liale del 1963. Fatto sta che andarono in giro, da allora in poi, entrambe le versioni. Bassani si adirò, e non aveva tutti i torti. Quanto a Cassola, non ho mai saputo niente di sue reazioni in pubblico. Quello che posso dire è che la poetica di Cassola non interessava minimanente gli scrittori del Gruppo 63. Ciò che infastidiva era, a quel tempo, la critica belante, la quale voleva far passare Cassola a viva forza per grande scrittore e maestro di non so che stile (forse lo stile asciutto e dimesso, parola che ricorre anche nelle enciclopedie, puntualmente, alla voce Cassola Carlo). Di fronte alla critica belante, forzando anche noi i toni, non era male opporre che Cassola era un autore di Romanzi Rosa. Quella crudele battuta è stata tante volte riesumata, spesso per pura malignità, che si è quasi perduto il senso della verità che conteneva. Ne feci una desolata verifica nel 1976, quando uscì L’ antagonista e ne parlai in queste pagine. Cassola avrebbe voluto disinfestare il romanzo, purgarlo di tutto ciò che è bassamente romanzesco: l’ intreccio, le idee, le connotazioni sociologiche e storiche, le impurità del linguaggio, le situazioni definibili. Avrebbe voluto scrivere un romanzo puramente poetico. Ma il puramente poetico, se mai è esistito, oggi non lo puoi cercare più. Vagheggiarlo dimessamente colora la scrittura di rosa spento. Vorrei provare a rileggere Il taglio del bosco. Dopo tanti anni, quei racconti saranno svaniti o avranno ancora uno sfuggente bouquet?”
Non so, a dire il vero, se Giuliani abbia riletto Il taglio del bosco. Non importa. Ma quando si parla di rosa spento e di romanzo rosa, forse bisognerebbe leggere l’ultimo volume di Tirature, che ogni anno Vittorio Spinazzola cura per Il Saggiatore riunendo saggi brevi sullo stato delle cose editoriali del nostro paese. Ebbene, l’ultimo volume si intitola Le emozioni romanzesche e racconta proprio della rivalutazione di passioni ed emozioni e situazioni “rosa spento”: e non solo nella narrativa popolare e popolarissima, ma anche in romanzi molto complessi.
Le cose cambiano? Non troppo. Perché quel che non cambia è il disprezzo, espresso non in Tirature, ma in tantissima parte degli addetti ai lavori, esplicato o bisbigliato, verso le Liale e il “sentimentale”, specie se a firma femminile, soprattutto se inserito nei filoni dedicati del romance. Che meriterebbe ben altro sguardo, e anche ben altra attenzione editoriale, che fin qui sembra considerarlo la solita onesta gallina. Dalle uova d’oro, magari.
Somiglia al disprezzo che per molti anni ha subito Salgari e che, forse, subisce ancora. Si delimita troppo semplicisticamente ciò che è letteratura e ciò che non lo è. Salvo poi andare al cinema a vedere film di Quentin Tarantino, senza capire che Quentin Tarantino, fosse stato scrittore, di Liala (e Salgari, aggiungo io) ne avrebbe letti ad esaurimento scorte.
OT: “Il taglio del bosco” è rimasto un mio trauma irrisolto in seconda media, dove ci davano da leggere a casa i grandi classici del dopoguerra da restituire corredati di schede e riassunti per vedere se l’ avessimo davvero letti. Temo si siano perse generezioni di potenziali lettori con questo metodo, tanto ben intenzionato (Cassola era stato dato a un compagno che non leggeva neanche i fumetti e che mi aveva chiesto una mano. Nulla, mai riuscita a finirlo).
Su quello che dici tu, il filone delle galline dalle uova d’oro, Nei Paesi Bassi la situazione è quasi la stessa. Da una decina d’ anni vendono le autrici under 40 e fotogeniche per la quarta di copertina. Ma non ci dimentichiamo che sono le galline a far passare tanti messaggi al grosso pubblico. Chi è che recentemente scriveva su quanto abbia fatto Liala per trasportare in avanti certi valori consolatori did estra che poi ci portano ad annuire comprensivi quando qualcuno dice che però Mussolini ha fatto tante cose buone? Buffo, perchè se ricordo quello che mi colpiva di Liala, tanti anni fa, era il culto futuristico della modernità, della velocità delle macchine e attrezzi veloci e novissimi. Incoerente tutto ciò, ma mi si è catalizzato leggendo il tuo p.ezzo
Si, ma Salgari lo ricordo come uno stile faticosissimo e manierato, non come un’ avanguardia letteraria.
A parte Eco, la cui autocritica su Bassani non è di oggi (ma fa piacere che lo riammetta), non ricordo grandi ripensamenti degli altri autori (ma posso sbagliarmi). Un filo di autocritica da parte degli autori del ’63 (a parte Eco: ma è dura dire che i suoi romanzi sono frutto della poetica del Gruppo ’63) ci vorrebbe: Liala questo e Liala quello, va bene, ma voi, dopo, se non avete scritto romanzi sentimentali, sul romanzesco, in concreto, quali segni indelebili avete lasciato? Ricordo, a scanso di equivoci, che Fratelli d’Italia era già scritto, al momento delle “Liale voi”. In altri termini, l’incapacità di “passare all’azione” da aprte di critici letterari che si volevano radicali non sarà in qualche relazione con l’incapacità di comprendere che Il giardino dei Finzi Contini NON È un romanzo sentimentale (non più di quanto non lo si aL’educazione sentimentale)? (E sulle boiate scritte su Vasco Pratolini, nessuno s’è poi pentito?)
Per una curiosa coincidenza, ho appena citato “Il taglio del bosco” di Cassola in una conversazione a tre che sto preparando con Girolamo De Michele e Wu Ming 1 su precariato e classe operaia. Quel libro (ambientato nei boschi dietro Massa Marittima) che a Eco sembra forse svanito nelle metafore consunte di un realismo lirico probabilmente vetusto, ritorna negli scaffali di chi, laurea in tasca, è finito a tagliare i boschi di leccio per tirare avanti con le spese universitarie (è successo anche a me). Il libro di Cassola per me è sicuramente attuale (anche se i boscaioli maremmani hanno avuto in seguito nomi sardi e poi slavi), ma concordo con Eco su questo: è troppo lirico, perché il peso della motosega in mano o un amico che si porta via il dito mignolo con la roncola, reclamano operai forestali meno poetici di quelli di Cassola (e scrittori con gli occhi più spalancati sul reale dei sopravvissuti del Gruppo 63). Aggiungo che quando facevo l’università tagliavo il bosco (e leggevo Cassola) per potermi comprare i libri di Eco su strutturalismo e semiotica.
Non fosse vero ciò che dici, come spiegare lo straordinario successo su Amazon di “Un romanzo d’altri tempi”, del leggendario Sigismondo Barillacqua della Verdesca?
Non so Liala, ma Tarantino Salgari l’avrebbe letto di sicuro (e in Salgari i sentimenti e l’amore ci sono eccome) comunque davvero mi colpisce molto negativamente il disprezzo verso il romanzo sentimentale o rosa o come vogliamo chiamarlo..come se sentimenti, amore e passione non fossero degni di essere raccontati, non facessero parte della nostra vita e non costituissero fonte d’ispirazione pr la narrativa “rosa” e non rosa. Non so, sembra che per parte della critica un romanzo che coinvolge emotivamente il lettore, che lo emoziona debba essere per questo di bassa qualità..non sono d’accordo
Critici del romanzo “ben fatto” e autori miliardari di fumettoni storici.
Ha ragione Serino su Facebook: Eco è il Berlusconi della cultura italiana.
se l’ultimo romanzo di Eco fosse stato un fumettone sarebbe stato meglio…il guaio è che Il cimitero di Praga sembra a tratti più un saggio storico-politico travestito da romanzo che un vero romanzo di ambientazione storica..è come se la riflessione storica e politica anche interessante ad un certo punto si mangiasse la trama così quest’ultima risulta poco coinvolgente..senza contare che poi l’espediente narrativo della “doppia personalità” Simonini-Dalla Piccola mi è parso narrato in maniera ferraginosa..insomma non l’ho trovato efficace (opinione mia), impressione mia. Viene da chiedersi perchè Eco non abbia scritto direttamente un saggio sull’antisemitismo e il complottismo ottocentesco.
Vorrei sommessamente ricordare che la discussione non è sui guadagni di Umberto Eco. Grazie.
chiarisco che comunque non condivido la connotazione negativa del termine “fumettone”
Paolo, è superfluo. Perdonami.
Intervengo con una voce un po’ discorde cercando fi fare chiarezza. Tempo fa scrissi questo pezzo riguardo al romanzo poliziesco di cui mi occupo (insieme ad altre mille cose).
“Dopo le disgrazie, o insieme ad esse, ecco apparire con l’avvento del gialletto rosa, gli incasinamenti e le pallosità sentimentali nel moderno romanzo poliziesco. Per carità il sentimento vero, la passione, l’amore, il sesso sono elementi essenziali dell’animo umano, ergo per le storie di vita vissuta e per quelle sulla carta. Anche nei cosiddetti gialli dove il fulcro predominante dovrebbe essere il morto ammazzato e la ricerca dell’assassino. Però si sa che spesso il movente di un delitto parte proprio dagli anfratti del cuore e delle pulsioni più in basso, per cui un po’ di intrighi visceraletti ci stanno bene. Un po’. Ma se si tratta di una lagna, di un sospiro, di un lamento continuo allora le cose cambiano e il gialletto rosa si trasforma in un deprimente gialletto grigio”.
Questo è quello che penso. Il romanzo rosa (ma pure verde o a strisce) ha una sua dignità come tutti i romanzi. Se scritto con una certa forza stilistica e vera potenza del sentimento. Altrimenti viene fuori il solito batticuore, il sussultino, lo sguardino birichino, il contattino frementino, il sospirino struggentino, il sognino spintarellino con risveglino sudatino e tutto un ambaradan francamente svenevole (per un maschiaccio come me).
A me Eco piace molto come autore di saggi e talvolta anche come romanziere, però credo che su Cassola si sia sbagliato: tra l’altro di Cassola c’è un libro che per me è straordinario, non solo per contiguità geografica con la zona in cui sono nato ma anche come esempio di inchiesta a metà strada tra la narrazione e il reportage, che è “I minatori della Maremma” scritto a quattro mani con un giovane Luciano Bianciardi. Da rileggere (se lo trovate in libreria, e non è semplice).
Grazie mille Alberto. Quanto al commento di Fabio, dimostra quel che sostenevo nel post: occorre uno studio serio sul romance che vada al di là del luogo comune e dei diminutivi.
Ma perché il giochino “come stiamo messi oggi” sarebbe così ingeneroso?
Piuttosto fa pensare che si parli così tanto di una battuta.
Cmq c’è anche un film sul libro di Cassola, di Cottafavi, con Volonté.
Lipperini se la storia sentimentale è scritta male (io batto soprattutto qui) rimangono i diminuitivi. Credimi. Però non voglio polemizzare troppo che mi è nata da poco una nipotina! Un saluto a tutti e leggete quello che vi pare!
Fabio, anche i romanzi polizieschi sono spesso pessimi. Anche i romanzi mainstream. Ma non vengono colpiti dallo stesso stigma. 🙂 Auguri per la nipotina.
Loredana: io sono una fiera disprezzista. E non cambio. Non credo che il problema di noantri disprezzisti, sia la narrazione della passione e del sentimento, e per un lettore non ti dico forte, ma che ha fatto le scuole superiori non è proprio una novità sapere che nella letteratura articolata i sentimenti e le passioni, la trama amorosa, sono parte di rilevanza fondamentale. Ma mi lascia sempre perplessa, mi sa di furberia la ricerca di legittimazione nel classico letterario – della serie, ma o’ vedi che Dostojevskij era rosa pure lui?
No, non lo era. Non leggiamo Dostojevski (come se scrive, non lo imparerò anche lu’) perchè parla d’amore. La saturazione del colore di un lavoro – giallo, rosa, horror, fantasy, la da la misura in cui l’osservanza di un canone e l’oggetto narrativo e di plot che lo connota è preponderante sul resto, e in certi casi campeggia ramingo e solitario. Campeggia sullo stile – campeggia sulla valenza metaforica, campeggia sul desiderio di parlare di altro (tutte quelle cose insomma su cui Cassola sputava, beh ma allora Liala gli sta un gran bene).
E allora, cosa è questa cosa di difendere il genere? La’pplicazione del politically correct?
Io non discuto affatto che nella cornice del genere, possano esserci grandi autori. frequento pochi generi, ma per dire il giallo che conosco meglio ha dato e darà bellissimi frutti. Però che sia una gabbia, e anche un tantino pericolosa si ci sta.Che chieda di essere letto, per il colore di preponderanza ci sta. E certo, c’è anche il sinistro lavoro dell’editoria che genericizza e spinge alla caricatura pur di vendere. Come lettrice, mi sento di dovermi difendere da questo intorcinamento. Ste cose le ho già dette ma vabeh.
Premesso che il riferimento che facevo ad Eco era positivo (fatti miei, “Il nome della rosa” m’è piaciuto), dove sta scritto che il genere sentimentale non possa dar vita a opere significative? Il problema non è il “romance”, ma l’uso dei suoi strumenti: ma questo non succede anche negli altri generi? La discussione tra (vado a memoria, non vorrei sbagliarmi sui nomi) Barth e Carver: “niente trucchi inutili” / “no: niente trucchi” non vale per ogni prodotto letterario? Ricordo che persino l’Hemingway di “Il vecchio e il mare” fu stato accusato di far ricorso a trucchi del mestiere.
uno disprezza quel che vuole e non sarò io a difendere il politicamente corretto..poi vabbè personalmente credo che sia riduttivo e un po’ ingiusto definire il genere una gabbia (anche se chissà degli scrittori potrebbero non essere d’accordo) tanto più che oggi i generi possono commistionarsi fra loro, ci si può “giocare” a patto certo di conoscerne le regole e anche di “amarle” in un certo senso. E no,non credo che i cliches siano sempre e comunque il Male
E non capisco dove sta il problema se si leggono i classici perchè parlano d’amore e perchè questa lettura debba essere considerata “deteriore” e oscurarne altre considerate più “profonde”..ma vabbè…problema mio
“non vale per ogni prodotto letterario?”
ma appunto, possibile che nel 2013 stiamo ancora alla ricerca dell’autentico, della Letteratura? Capisco ricercarlo nello scrivere e nel leggere, ma addirittura quando ci si riflette sopra in maniera critica è anacronistico. Il fatto stesso che si parla di generi è anacronistico se non serve a disporre libri sugli scaffali o per circoscrivere un discorso.
Sembrano le discussioni adolescenziali su quale musica fosse più commerciale e quale più pura. Siamo ancora vittime della Poetica di Aristotele?
Cmq il verso sentimentale migliore della storia è di un anonimo scritto sul muro: “Daiana dammela sennò mi ammazzo di seghe”
Mah, io osservo soltanto il modo del tutto naturale in cui due Oracoli come Eco e Giuliani diano per scontata la connotazione negativa e insultante di “Liala” (aggettivo) e, nell’ambito di un discorso critico, non si preoccupino minimamente di spiegare anche in cosa consista l’insulto.
Ritorno sfinito dopo una visita alla suocera ospedalizzata (alzheimer) e ai miei due nipotini, con Jessica che succhia il latte come una idrovora e Jonathan che mi riempie di cazzotti e di continui “Nonnone testone burone (?)” (sembra che così sfoghi il suo affetto). Sfinito ma ancora con una piccola scorta di energia prima di schiantare a terra. Aggiungo solo che è anche un po’ questione di mode. Tempo fa la Feltrinelli di Siena era occupata quasi esclusivamente da ali di pipistrello, artigli sanguinanti, teschi paurosi, volti mefistofelici armati di corna. Ora labbra carnose, occhi maliardetti, rossi cuoricini spuntano da tutte le parti. Tra poco avremo, invece, …(staremo a vedere).
Buonanotte!
Io mi vado sempre più convincendo di quanto lessi sul McKee: tutte le storie sono storie di genere. La storia d’autore, in realtà, non esiste. Appartiene sempre ad una famiglia di richiami e di echi che sono di fatto ‘di genere’.
Certo se uno intende per genere aver fatto il compitino seguendo il viaggio dell’eroe, sono d’accordo a denigrare il genere, ma tale definizione mi sembra molto scentrata.
Anche Dostoevskij scriveva romanzi di genere, non dobbiamo assolutamente vergognarci nel dirlo o nello scriverlo. In America queste distinzioni piuttosto fumose, per fortuna, sono molto meno di peso che da noi (e i risultati si vedono).
“Romeo e Giulietta” è forse meno folgorante e meraviglioso di “Amleto” perché racconta un mélo? L'”Odissea” vale meno dell'”Ulisse” di Joyce perché appartiene al genere epico?
Basta riflettere su queste prospettive per rendersi conto di quanto la suddivisione tra arte Maior (quella d’autore, che ci fa diventare persone mejor) e l’arte Minor (quella che ci intrattiene) sia assolutamente pretestuosa e ricamata “ad arte” dalla critica che ci campa sopra. Poi ci sono anche lettori e lettrici che vogliono vedercela assolutamente questa differenza. Ma alla base c’è un completo misunderstanding sul concetto di genere.
p.s. il discorso dei generi, oltretutto, dovrebbe interessare più che altro gli autori, non i lettori.
Sono passati 30 anni da quando l’ho letto, oggi non so, però ho un buon ricordo del taglio del bosco.
Nel mentre sto leggendo alcuni romanzi e racconti di Scerbanenco degli anni ’40, quelli “sentimentali, “pre-giallo”. Ammazza come scriveva bene, un vero ritrattista. Sarebbe da rivalutare, altro che, alla faccia delle etichette.
Il romanzo d’appendice o popolare negli altri paesi europei è considerato un genere letterario positivo, di consumo popolare proprio per la stretta relazione che esiste almeno dagli inizi del ‘900 tra scrittori e pubblico; in Italia invece, in cui l’intellettuale, il critico letterario sono una casta referenziale e per di più spocchiosa, gli scrittori definiti Liale e bollati con marchio d’infamia, hanno venduto milioni di copie, come dimostra la vera Liala.
Mah, parlo da incompetente, e soltanto da lettrice: a me sembra che il “genere” nelle creazioni letterarie contemporanee sia una gabbia che facilita la produzione di opere di serie B (C….Z), e la giustifica. Qualche autrice o qualche autore supera queste costrizioni (e queste indulgenze) alla bassa qualità proprie del “genere” contemporaneo. Che mi sembra proprio una necessità di mercato. Altra cosa, invece, il concetto di “genere” nel passato e nell’antichità.
Invece di Liala, che sospetto pochi qui abbiano letto se non per motivi di studio, non potremmo parlare di un tema più attuale, cioè l’atteggiamento della community fantasy nei confronti della serie di Twilight, libri e film? La pretesa dei ‘critici’, gli stessi che lagnano l’insensibilità della ‘cultura alta’ nei confronti dei ‘generi’ (dopo aver magari detto che non esistono – ma allora perchè la lagna?), di dare giudizi di valore rigorosamente estetici che poi, a leggerli, si riducono al solito, becero ‘roba da ragazzine in calore’, mentre roba altrettanto scadente ma ‘maschile’ viene trattata con molta maggior indulgenza?
Prendersela oggi con le ‘vecchie avanguardie’ non è altro, temo, che una strategia di potere equivalente a quella del Gruppo 63, la ridefinezione di un canone con autori nuovi di cui i nuovi ‘critici’ possono proclamare il possesso e monopolio. Perchè quando ipocritamente si chiede di abolire le distinzioni fra generi o fra alto e basso, in realtà si chiede l’esatto opposto, che i ‘generi’ (quelli tosti, da cui il rosa è ovviamente escluso) vengano giudicati solo secondo i propri criteri – ovvero, fuori dal mio orticello (che d’ora in poi si chiamerà giardino, btw). Da cui i tipici ‘è bello – se ti piace il genere’, oppure ‘allora vuol dire che non conosci il genere’…
Ma dove sono questi “critici ufficiali” o questi “critici” fra virgolette che vogliono mantenere il “potere”? Con l’avvento di internet tutti quanti siamo diventati critici ufficiali. Vedo in giro una valanga di blog dove ognuno critica, giustamente, come gli pare e piace. Per me il “gialletto rosa”, più volte criticato, vale come il giallone nero splatterato o il malloppone scandinavo stragonfio quando sono ipertrofici e scritti male. Quando l’amore, la passione, il sesso, il tormento, le sottili variazioni dell’animo ecc…, forze vitali in qualsiasi romanzo, scadono in forzature, in stanche ripetitività e in un balbettio scritturale davvero sconcertante ecco che, almeno da parte mia, non arriva il consenso (poi ad altri può pure piacere e ci stringiamo la mano). E, per quanto ne so, non sono solo gli insensibili maschietti a risentirsi di questa sciupio di sentimenti.
Tutti quanti siamo diventati critici ufficiali. Vero, Fabio Lotti. Ma non mi sembra che ci sia un grande passo avanti: vogliamo avere l’umiltà di ammetterlo?
Quello che mi indispone un po’, in questa occasione (a parte l’occasione dell’anniversario), è la riproposizione dell’idea che il disprezzo verso la letteratura rosa venga da una vaga ‘cultura ufficiale’ o ‘alta’ e non dagli appassionati di altri generi ‘popolari’, che pretendono rispetto per sè ma lo rifiutano agli altri, specie se donne. Insomma, non credo che l’espressione ‘chick lit’ venga da Roland Barthes o Harold Bloom…
Sascha, ma questo non lo ha sostenuto nessuno. Il disprezzo non è confinato a un solo gruppo. Certo, l’anatema intellettuale sulle Liale ha avuto il suo peso.
Loredana, sinceramente non so del passo avanti o indietro. Probabilmente hai ragione tu che sei più addentro nel settore. Io non ho alcun contatto con le case editrici, quasi ogni giorno vado per librerie a Siena, soprattutto alla Feltrinelli, guardo, scruto, leggo, compro. Poi scrivo nelle mie rubriche quello che sento e che sono in grado di scrivere senza fare distinzione tra pisello e patata (così la chiama Jonathan). La mia impressione, per quanto riguarda il settore che seguo fin dagli anni Cinquanta, è che in giro ci sia, accanto a punte notevoli, una grande massa di mediocrità. Ma può darsi che lo scontento, l’uggia (A proposito ho scritto il pezzo “Che uggioso!”) sia proprio di noi vecchietti usi a brontolare.
Ma ho già sbrodolato fin troppo e allora vi abbraccio e vi saluto davvero.
Spassionatamente: io che so tutti critici lo trovo un passo avanti. Lo erano anche prima ma ora scrivono. Ossia, esiste un dibattito condiviso ddei piccoletti sui libri, persone che dicono i loro pensieri non retribuiti e non titolati a farlo, e che nel fare questo gesto organizzano il loro pensiero. Svariati sono anche dei cazzoni, naturalmente, secondo la distribuzione dei cazzoni che teoricamente occua un sacco di settori.
E però, il passo indietro – salvo te e qualcun altro – è che la critica letteraria retribuita si è abbassata a un livello medio comune, come per il resto mi pare di un sacco di giornalismo. Per cui abbasta un’opinione per fare una recensione degna. Così come io mi devo sciroppare i pensierini di gramellini, che sarà tanto bravino, ma nè più nè meno di un sacco di blogger. A cosa dovere questa cosa non mi è tanto chiaro, forse il ricatto della fruibilità del mercato, della complessità che non paga… fatto sta che quando si tratta di prendermi dei libri, l’ultimo dei miei pensieri è consultare le pagine culturali dei quotidiani. Tutto ciò è ot, ma dato che ci stavamo…
Guardiamo a entrambe le parti Zaub. Vero: molta critica si è seduta o è diventata autistica (però Gramellini non fa critica, attenzione a non confondere le carte). Ma è anche vero che dall’altra parte esistono blogger o internauti che ritengono di avere strumenti critici a prescindere. Vecchio problema della democrazia, no? Ma così come non credo alla Kasta, non credo alla “gente” sempre a prescindere. Credo all’autorevolezza, su qualsiasi supporto si esprima.
No non ho detto che gramellini fa critica letteraria. Dico che ci sono dei movimenti regressivi paralleli in settori diversi dell’informazione – magari mi sono espressa male, perchè te dici l’autismo? Magari, ho il sospetto che quello che te chiami autismo magari a me piace pure – perchè a me la critica vecchia, pesante, strutturata, la critica che ha una frequentazione accademica, anche se non esplicitata mi piace. E’ quello che mi manca. Invece ci ho roba come D’Orrico, che per me è nè più nè meno di un blogger mediocre. Solo che muove il mercato, e io lo dovrei pure pagà per leggere che quanto è ganzo per lui quee romanzetto. Ossia la critica letteraria come sciorinamento di opinione personale.
ugualmente, si amplia il numero di giornalisti, chiamati a parlare – Gramellini, Serra, per le loro personali e idiosincratiche opinioni, per il fatto che le scrivono graziosamente, ma senza che esse siano corredate della più blanda informazione. Qualche volta con una retorica e un benpensantismo rivoltanti. Gramellini non è un esempio casuale. Blogger, blogger retribuiti.
E’ vero che ci sono quelli che credono di avere delle competenze che non hanno e parlano, dicono stronzate a manetta e uno fa bene a sottolinearlo all’occorrenza. Ma sinceramente, diventa problema della democrazia solo nel momento in cui sono talmente presi sul serio da acquisire potere, e potere vero. E non mi pare. Mi pare invece, che diventano tutti blogger, anche quelli che non lo sarebbero.
Ma in che senso non c’è stato un passo avanti dall’avere più “critici” in rete? Nel mio piccolo pure io scribacchio in un blog di libri, film e musica, ma questo mi pare solo un fatto personale che al massimo arricchisce la mia vita. Se consideriamo positivo che le persone leggano di più e più “buoni” libri, beh, non vedo di che lamentarsi, davvero senza polemica. E che le persone scrivano di più lo stesso. Inoltre i critici professionisti dovrebbero in questo modo risaltare, e penso a blog come minima e moralia o le parole e le cose, oltretutto aperti alla discussione. Per non parlare delle riviste accademiche che pubblicano i loro lavori anche gratuitamente.