L'ICONA DEL DOLORE E LA SOLIDARIETA'

Nel migliore dei mondi possibili, e questo non lo è, nessuna madre dovrebbe prendere su di sé l’icona della madre coraggio (né dovrebbero farlo le sorelle, come Ilaria Cucchi) e mostrare, in parola o in immagine, il corpo del figlio straziato. Non dovrebbero sottoporsi volontariamente – ma lo fanno, perché giustamente sanno che quella, nel non migliore dei mondi possibili, è l’unica via – alla golosità mediatica che titola sul dettaglio che scuote le viscere e strappa il singhiozzo. Avrebbero la giustizia che chiedono e le verità che sono indispensabili a un mondo decente, anche se non il migliore dei possibili, senza essere costrette al dolore pubblico, come lo è la mamma di Giulio Regeni, e prima di lei la mamma di Federico Aldrovandi e prima ancora la mamma di Graziella De Palo.
Quest’è, questo siamo. Mi interrogo, da quando ho ascoltato e letto le parole di Paola Deffendi Regeni (che non è “mamma Paola” e non è “madre coraggio”: è una donna ammirevole che ha diritto a un nome e un cognome ), su quanto scrive Luigi Manconi (che era al fianco di Paola e Claudio Regeni, ieri pomeriggio) nel libro intervista a cura di Christian Raimo, Corpo e anima, minimum fax. Mi interrogo e vi porgo il passaggio per me cruciale.
“…un discorso non troppo diverso può farsi a proposito del termine solidarietà. È una parola che inizia a diffondersi due secoli fa, come patto tra uguali che si vogliono uguali. Oggi è, in prevalenza, sentimento coltivato e raccomandato da chi ha molto e rinuncia a una parte del troppo per donarlo a chi nulla ha. Atto virtuoso, ma che non modifica in alcun modo la realtà. In altri termini: la solidarietà delle origini ipotizzava una parità da affermare o da conquistare, a partire da un condiviso stato di privazione; quella attuale presuppone una disparità che tale resta e che non viene messa in discussione.
Dunque, da una solidarietà di classe (all’interno della classe) si è passati a una solidarietà interclassista: dagli strati più agiati a quelli più deboli. Pertanto, l’evocazione mondana e politica della solidarietà rischia la menzogna ogni volta che chiude gli occhi davanti alle disuguaglianze di cui si alimenta. Ed è qui che l’uso superficiale del termine solidarietà incontra quello che chiamerei il dispositivo dell’identificazione.
In quanto indotto a ignorare o a sottovalutare la propria disparità, chi si identifica non tiene conto della propria condizione di privilegio (per mezzi economico-sociali e per risorse culturali): e questo accelera il passaggio dal meccanismo dell’identificazione a quello della «sostituzione».
Se già, dunque, l’identificazione non concede spazio sufficiente alla razionalità critica (che sempre esige una distanza affinché si produca dialogo), la «sostituzione» determina conseguenze ancora più negative. Induce a sovrapporre i propri schemi di analisi e di comportamento a quelli del soggetto che si vuole tutelare. Porta a «parlare» in suo nome e per suo conto: e questo non gli dà voce, bensì l’ammutolisce. Il punto di vista di quel soggetto debole – chiamiamolo «vittima» per intenderci – è sacrosanto e assoluto. E unico. E la sua unicità non è condivisibile: essa discende solo ed esclusivamente dalla condizione di vittima: dall’aver patito direttamente l’offesa. Pertanto, quella condizione e il punto di vista che ne consegue non sono – agli occhi della vittima – comparabili e tantomeno conciliabili con quelli di altri, e nemmeno di altre vittime.
Io non solo accetto tutto questo, ma parto da tutto questo: e scelgo un ruolo totalmente diverso, che non è in alcun modo di identificazione, e che cerca di collocarsi alla giusta distanza. È un ruolo che, per un verso, tenta di sostenere le ragioni delle vittime, prova a organizzarle e a trasferirle sul piano mediatico e su quello politico e, per l’altro verso, le media. In altre parole, argomento e mobilito come meglio so le domande di giustizia delle vittime, esprimo la mia opinione non sempre coincidente e dichiaro ciò che posso e non posso fare. E svolgo di conseguenza una funzione di garanzia e, quando necessario, di conciliazione.
Insomma, una funzione politica. Sto interamente dalla parte delle vittime (anche quando autori di reato), ma distinguendo le posizioni e le parole da pronunciare e gli atti da compiere.
È molto difficile, spesso faticoso, ma non vedo altra soluzione.
E, alla lunga, sono le stesse vittime e i loro familiari ad apprezzare questa posizione”.

4 pensieri su “L'ICONA DEL DOLORE E LA SOLIDARIETA'

  1. Non ho letto il libro di Manconi, ma mi pare di capire che la solidarietà di cui parla e che caratterizzebbe, a suo dire, questo scorcio di secolo sia un corollario della piazza globale in cui si affacciano alcuni fortunati ed incoscienti, come il sottoscritto, per guardare sul maxi-schermo lo spettacolo della narrazione del succedaneo edulcorato di qualcosa che accade altrove.
    Non un bel fenomeno, se guardato da vicino, cosa che forse ha fatto Manconi e che giustifica quindi l’espressione che ha da decenni e che spesso si vede nella sala d’aspetto di un dentista.

  2. Non golosità, che è termine gentile ma il bisogno di spiare il dolore dell’altro senza interrogarsi lo chiamerei voyeurismo.
    Sul significato di solidarietà, identificazione e sostituzione con le vittime direi che abbiamo proprio bisogno di persone che si pongono come Luigi Manconi rispetto alle vittime, che non usurpa il loro ruolo, che non si sostituisce alla loro voce, ma che mettendo da parte l’emotività rende a loro la voce dovuta
    e le sostiene nel percorso odioso dell’esposizione degli eventi, e inevitabilmente dei sentimenti, ma i discorsi di queste persone di cui ha parlato lei Loredana, non vogliono infatti toccare le corde dell’emozione, ma parlare al nostro sentimento di giustizia.

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