L’OSSESSIONE DI ACHAB, LE STORIE, LA REALTA’

Sono passati dieci giorni e quindi posto qui l’articolo sulla fine delle storie uscito per La Stampa. Visto che se ne parla qua e là, mi par giusto mettere a disposizione l’originale. Ci si ritrova lunedì.

Che fine hanno fatto le storie? Perché spesso, a forza di decretare la morte del romanzo, si rischia l’effetto Pierino e il lupo, e non ci si rende conto che le cose stanno davvero cambiando, anzi, che i lettori sono già cambiati e che l’editoria si adegua ai lettori, e dunque, per forza di cose, anche i premi letterari che del mondo dei libri sono specchio. Infatti, fra non molto si assegna il Premio Strega e nel frattempo è stata proclamata la cinquina del Premio Campiello, e i libri finalisti sono un chiarissimo indicatore di quel che avviene, a volerlo vedere.
Premessa doverosa: non si discute in alcun modo della qualità di quei libri, che sono tutti, va sottolineato più volte a scanso di equivoci, di altissimo livello per quanto riguarda lo stile e la lingua e l’inventiva. Si discute, invece, di una tendenza che è in atto non da oggi ma che in questa estate 2023 raggiunge il suo culmine.
Dunque, dei cinque finalisti dello Strega, soltanto uno è un romanzo a tutti gli effetti: Mi limitavo ad amare te di Rosella Postorino. Romanzo storico o delle emozioni non importa, romanzo è. Rubare la notte di Romana Petri, che ha la magnifica scrittura che è propria dell’autrice, è una biografia (di Antoine de Saint-Exupéry) elevata a fiction, ma pur sempre proveniente dalla realtà. Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone è uno struggente memoir, che racconta la breve vita della madre biologica dell’autrice. Del padre parla Andrea Canobbio in La traversata notturna, mentre quello che si sussurra come sorprendente favorito, Come d’aria di Ada D’Adamo è un ulteriore memoir sulla malattia della figlia e dell’autrice stessa, morta pochi giorni dopo la proclamazione della dozzina.
Veniamo al Campiello, dove D’Adamo non è in gara ma ha ottenuto una menzione speciale. Anche qui, il romanzo è uno solo, Centomilioni dell’esordiente Marta Cai. Gli altri (ripeto: tutti libri molto belli e importanti) no: La Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi è un saggio, La Sibilla di Silvia Ballestra è una biografia (di Joyce Lussu), come, in termini molto ampi, Diario di un’estate marziana di Tommaso Pincio (su Ennio Flaiano), mentre In cerca di Pan è la raffinatissima esplorazione nel mito cui Filippo Tuena ci ha abituati da anni (e dunque è libro a sé, che non rientra in alcuna categoria).
Dunque, nella stragrande maggioranza dei casi, si può dire che dai libri candidati si evince che in questo preciso momento a chi scrive si chiede di raccontare storie vere: proprie o di altri non importa, ma vere. Non spetta a questo articolo, ovviamente, stabilire cosa sia letteratura e cosa no: l’intenzione è semplicemente prendere atto che esiste un principio di realtà che oggi viene richiesto con forza ai libri.
Per inciso, alcuni scrittori se ne sono accorti. Massimo Carlotto e Patrick Fogli, che sono scrittori di finzione (fa un po’ impressione scriverlo, in effetti, come se la finzione fosse una sottocategoria) hanno indetto per il 1 ottobre una giornata di confronto e discussione sullo stato delle cose, e questo sarà uno dei punti.  E Michele Vaccari, che all’importanza della narrazione pura (e non realistica) si dedica da anni, scrive: “E’ un dato, un sintomo, per me un segnale consapevole, non solo dell’editoria che nel tempo della comunicazione ha un lavoro agevolato quando può parlare di libri che hanno al centro, di sfondo, come richiamo, un mondo già esistito, che siano persone note come persone o cosmogonie già esistite di cui in qualche modo si è conservata nel senso comune memoria.”
Ma nulla nasce da un giorno all’altro, e tutto questo comincia da lontano: se vogliamo fornire una datazione, comincia da quando la prima persona ha sostituito la terza su Facebook, nel 2011 (dal 2007 si scriveva in terza persona, qualcuno lo ricorderà bene). Che i social abbiano condizionato i lettori è, temo, un fatto: noi trascorriamo ore a leggere le vite degli altri, in ogni dettaglio e, letteralmente, dalla nascita alla morte. Ci inteneriamo sul braccialetto posto al polso di un neonato, conosciamo ogni fase della sua crescita, dallo svezzamento alle prime parole all’asilo nido. E se siamo costanti arriviamo all’adolescenza e alla laurea con la coroncina di alloro in testa, e persino al matrimonio. Conosciamo la morte, in virtù del racconto che i familiari ne fanno: e a volte la vediamo, o meglio vediamo una mano inerte stretta dal figlio o dalla figlia. Conosciamo la malattia: spesso, in ogni dettaglio, a volte persino in video, quando qualche genitore colpito di Alzheimer viene filmato dal figlio o dalla figlia. E tutto il resto: le scarpe nuove che abbiamo acquistato, il vassoio di sushi di cui ci cibiamo, la pila di libri sul tavolo, il tavolo stesso ricollocato in nuova casa dopo un trasloco. Siamo avidi, e mai sazi, delle vite degli altri, e questo chiediamo oggi e con decisione alla narrativa. Che, per millenni, ha certamente raccontato il vero ma trasfigurandolo in finzione: cosa sarebbe, oggi, Moby Dick, se non il diario di un’ossessione narrato dalla voce non di Ismaele ma di Achab?
Poi ci sarebbe anche altro da sottolineare: che la nostra attitudine alla veglia continua e il nostro culto del realismo sono il sintomo di un perenne disincanto che ci accompagna da molto tempo. Ma, per rimanere alla letteratura, almeno qualche interrogativo andrebbe posto, davanti a quello specchio che ci pone davanti senza permetterci di attraversarlo.

 

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