Io non voglio vedere, oggi, domani, dopodomani, le fotografie della piccola Martina Carbonaro, 14 anni, con il suo ex, Alessio Tucci, 18 anni, che ha appena confessato di averla uccisa con un masso e di aver nascosto il corpo in un armadio di un ex casolare abbandonato nei pressi dell’ex stadio “Moccia” di Afragola.
Non voglio vedere praticelli e fiorellini come è avvenuto e forse ancora avviene per Giulia Cecchettin e il suo assassino. Non voglio che si usi in modo alcuno la parola amore. Non voglio leggere gli ennesimi distinguo sulla parola femminicidio. E non voglio neanche ascoltare le parole compunte di qualche ministra che rivendica l’idea dell’ergastolo per chi commette femminicidio. E’ una legge per le morte, come scriveva mesi fa Giulia Blasi, e a noi servono leggi per rimanere vive, perché da morte gli anni di carcere di chi ha alzato il masso o il coltello sono ininfluenti.
Voglio che sia chiaro che quest’ennesima morte non è un episodio isolato, non è un caso, non un inciampo del destino. Che è frutto di una catena lunga e ininterrotta, di un mondo e di una cultura che per secoli hanno giustificato lo sgarbo, e dunque l’abbandono, come qualcosa che merita una punizione. Verbale, fisica. Nel caso di Martina, con un masso.
Voglio che quelli che si turbano oggi per la fotografia di Martina, perché in questi occhi di bambina si riflette il nostro orrore per una morte ingiusta e spaventosa, si rendano conto che bisognava turbarsi ogni giorno, da anni, per quello che avviene. Tante donne lo sanno, tante donne lo ripetono ogni giorno, ma anche tanti uomini, a questo punto. Ma non ascoltate, o vi fate prendere dallo sconforto estetico per la parola “femminicidio”. Turbatevi, una buona volta.
Voglio infine che sia dolorosamente chiaro che noi non possiamo salvare tutte. Non da sole.
Me ne sono resa conto il 29 maggio del 2016, quando Sara Di Pietrantonio, 22 anni, si ritrovò davanti il suo ex, Vincenzo Paduano, che l’aveva seguita e speronata. Sara chiese aiuto ai passanti ma nessuno si fermò. Venne strangolata e bruciata.
In quella stessa notte mi capitò di ritrovarmi nella stessa strada, a via della Magliana, una parte di Roma che conosco molto poco, per andare a vedere la mostra di mia figlia. Ci eravamo persi ed eravamo arrivati a mezzanotte, ce ne siamo andati, mio marito mio figlio e io, passata l’una del mattino. Ci siamo fermati a prendere un gelato. Sarà stata l’una e mezza. Due ore prima di quella disperata richiesta di aiuto di Sara Di Pietrantonio, in quella strada.
Da allora, la mia stolta, infantile fantasia è quella di aver fatto più tardi alla mostra: bastavano un paio di bicchieri e due chiacchiere in più nel giardinetto. La mia stolta, inutile fantasia è aver potuto incrociare i passi di quella ragazzina, che aveva l’età di mio figlio all’epoca, e aprirle lo sportello e dirle salta dentro.
Non è stato possibile, non è possibile ora.
L’unica possibilità per fermare questo orrore è chiamare le cose col proprio nome, e lavorare, non in modo interessato e di maniera, non facendo la dichiarazione d’occasione con gli angoli della bocca all’ingiù, come qualche ministra farà sicuramente.
E’ coinvolgerci tutte, tutti, nel ribaltare una cultura assassina. Quella patriarcale, esatto.
E infine, davvero, mi chiedo quanto serva questo triste balletto, che ogni volta si ripete: di qua chi si accora, di là chi dice “ragioniamo, il femminicidio non esiste”. Che si spegnerà fra qualche giorno e ricomincerà alla prossima ragazza che semplicemente sceglie di porre fine a un amore, e al prossimo ragazzo che non lo accetterà, e noi ritorneremo a riprendere i nostri ruoli, di qua chi si accora, di là chi dice ragioniamo. E tutto, ancora una volta, sprofonderà nel nostro rimanere immobili, nel nostro guardare il selciato, anziché, come dovremmo, il cielo.
Hai tradotto il profondo sentire di molte di noi.
Io appartengo alla generazione che purtroppo ha seguito “il massacro del Circeo” . Ricordo il processo e l’ avvocato Tina Lagostena Bassi, la sua schiena dritta, le sue parole ferme.
Ricordo le battaglie di allora, il far sentire la donna comunque colpevole, di non avere capito, di aver provocato con quel vestito, di essere in giro a quell’ora.. ecc.
È stata fatta molta strada, sono stati affrontati tabù ma come ben detto, non perdiamoci in fiorellini e palloncini, perché finché ci si dice di ripararsi in chiesa o farmacia … la strada da percorrere è ancora lunga.