MASSIMO IL SOGNATORE: UN CONGEDO

Non ricordo più dove ci siamo conosciuti. Penso addirittura su Facebook, su Messenger, che in genere non è il posto migliore per fare amicizia. Però ricordo molto bene il contenuto della conversazione: una giovane casa editrice (era nata l’anno prima, nel 2012), l’idea di fare letteratura per ragazzi chiedendo però storie, almeno per cominciare, a scrittori che per ragazzi non avevano mai scritto, e chiamando giovani illustratori, e anche meno giovani, certo, non per accompagnarle, ma per camminare insieme, le parole e le immagini.  Ci chiamiamo, disse Massimo De Nardo, Rrose Sélavy. Che nome, dissi io, anzi lo scrissi. E lui rispose così, con le parole che oggi sono sul sito della casa editrice:
“Il nome lo abbiamo preso in prestito da Marcel Duchamp, che firmò con il nome Rrose Sélavy alcune opere (ready-made).  C’è una foto (ormai storica, conservata al Philadelphia Museum of Art), scattata dall’amico Man Ray,  che lo ritrae vestito da donna. Rrose Sélavy, appunto.  In realtà questo nome è un anagramma fonetico: Eros c’est la vie. Che deriva da una dedica che Duchamp scrisse su un quadro di Francis Picabia. Racconta lui stesso, in una intervista: «Volevo cambiare la mia identità e dapprima ebbi l’idea di prendere un nome ebraico. Io ero cattolico e questo passaggio di religione significava già un cambiamento. Ma non trovai nessun nome ebraico che mi piacesse, o che colpisse la mia immaginazione, e improvvisamente ebbi l’idea: perché non cambiare di sesso? Da qui viene il nome di Rrose Sélavy. Oggi suona abbastanza bene, perché anche i nomi cambiano col tempo, ma nel 1920 era un nome sciocco. La doppia “R” ha a che fare con il quadro di Picabia, Oeil Cacodylate, esposto nel cabaret “Le Boeuf sur le Toit” e che Picabia chiedeva a tutti gli amici di firmare. Credo di aver scritto “Pi Qu’habilla Rrose Sélavy”». La frase che Duchamp scrisse sul quadro di Picabia suona foneticamente come Picabia l’arrose c’est la vie. Arroser la vie, cioè “berci sopra, fare un brindisi alla vita”. Anche questa è creatività. Sottile ironia, che manda in frantumi la banalità del linguaggio, nella vita, nell’arte.Per questo ci piace un bel po’.”
Coltissima spiegazione, coltissimo editore. Il formato, anche, era inusuale: un quadrato. Tant’è vero che quei libri si chiamavano Quaderni Quadroni. Ce n’erano due, all’epoca: uno di Massimo stesso, Che mestieri fantastici, e uno di Franco Arminio, Il topo sognatore e altri animali di paese. Vuoi fare il terzo?, mi chiese Massimo. E io: “non ho mai scritto per ragazzi”. “Appunto”, disse lui. Ci pensai un po’, perché in realtà una storia ce l’avevo, ed era poi quella di mia madre bambina, delle sue avventure a Bengasi, dei cammelli che si affacciavano dalla sua finestra (e sputavano, mamma, eh? Quelli sono i lama, dai), del tifo che si prese mangiando le patelle che staccava dallo scoglio col suo coltellino, della scheggia di bomba che la mancò per un soffio. I pochi parenti che mia madre aveva l’hanno sempre chiamata Pupa, finché non sono morti. E in quel suo ultimo anno di vita – io  ignoravo che fosse l’ultimo, come tutte le figlie – decisi di raccontare la sua storia, che poi è una storia d’amore fra madri e figlie, fra nonne e nipoti, con l’aiuto di un demone gentile, un jinn (non sono sempre gentili, i jinn, ma lui lo era).
Quella storia, che venne illustrata dal meraviglioso Paolo D’Altan, è stata accudita come nessun mio libro, mai, da un mio editore. Presentazioni, premi soprattutto, attenzione. Cura. Nel frattempo i Quaderni Quadroni si erano moltiplicati. Antonio Moresco e Carlo Lucarelli, Sandra Petrignani e Paolo Di Paolo, Igiaba Scego e Stefania Scateni, Franco Lorenzoni e Romana Petri, e poi tanti autori per ragazzi, tantissimi, Roberto Piumini e Bruno Tognolini e Fabrizio Silei e Beniamino Sidoti e tanti altri.
Pupa era ambientata nel 2020. Uscì nel novembre 2013: c’è una foto di mia madre con il libro fra le mani, fiera come non mai. Mia madre se ne andò a settembre 2014. Pupa ha viaggiato, nel frattempo, e ho viaggiato anche io e soprattutto ha viaggiato Rrose, vincendo premi a man bassa e facendosi amare da grandi, piccoli, esperti, curiosi. Ci siamo persi di vista, come accade, e ci siamo spesso ritrovati nelle Marche, perché Massimo viveva a Tolentino e a Tolentino c’è la sua compagna di vita e di editoria, Chiara. Prendevamo il caffè in un bar del centro, che vorrei ritrovare, quando passavo di là.
Massimo De Nardo ci ha lasciato ieri, ma ci aveva di fatto salutato due settimane fa, quando era scivolato all’improvviso in un sonno profondo. Restano i sogni che ha sognato e ci ha fatto sognare, un’avventura editoriale bellissima perché folle e visionaria e colta come lo era lui, e che spero possa in qualche modo continuare. Resta la tristezza in un mondo triste, come è il mondo oggi, ma, come direbbe Pupa, ci sono sempre gesti, storie, idee che possono illuminarlo. Se questa fosse un’illustrazione, li vedrebbe sfidarsi, dove sono ora, a una Scala Quaranta vertiginosa come l’eternità.

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