UNA PRIMAVERA DEL 2020

Pino Barilari, il farmacista, passava le notti alla finestra facendo le parole crociate. La notte del 15 dicembre 1943 undici ferraresi, considerati antifascisti, vengono prelevati dalle proprie case e uccisi, e i loro corpi abbandonati vicino alla farmacia. Tre anni dopo, il responsabile di quella strage, il fascista Carlo Aretusi, viene processato. C’è un solo testimone possibile, ed è Barilari.  Ma a domanda risponderà: dormivo. Nessuno verrà condannato, ma da quella notte Barilari, smessa la passione per l’enigmistica, ha come  unica occupazione appostarsi tutto il giorno alla finestra di casa, osservare i passanti e borbottare un «Ehi!» o un «Attento!».
Una notte del 43 è una delle Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani. Ed è quella a cui penso più spesso in questi giorni. Ci stiamo intristendo, inevitabilmente, e paura e tristezza possono sfociare in rabbia, in rancore, o più semplicemente ci portano ad accucciarci nell’angolo. Ma quando usciamo dall’angolo non per tentare di trovare comunque una strada percorribile, passo passo, nel presente intanto e poi vedremo per quanto riguarda il futuro, ecco, quando usciamo dall’angolo per appostarci alla finestra, forse ci si comporta persino peggio del farmacista di Ferrara.
In questi giorni pasquali molti amici e amiche hanno pubblicato sui social foto di boschi, prati, ciliegi fioriti. Immancabilmente, arrivava qualcuno ad abbaiare “ma dove sei andato? A casa”. Quando quella foto era una malinconia, un ricordo, qualcosa che salta fuori dagli archivi digitali e che diventa rimpianto o desiderio.
Naturalmente c’è di peggio.
Questa mattina Amedeo Ricucci, reporter abituato alle guerre, ha raccontato su Facebook questa storia. E io ve la riporto, sperando sempre che questa non sia che una piccola parte della realtà che viviamo, e che assieme ai Barilari ci siano anche quelli che tendono la mano per aiutare. E so che è così.
“Dio ci guardi dai vicini di casa. A volte sono un’ancora di salvezza, la risorsa in più per quando si è corto di sale o serve la chiave del terrazzo; ma in alcuni casi possono rivelarsi una vera e propria iattura, da non augurare nemmeno al peggior nemico. C’è una filmografia sterminata al riguardo. Ma siccome la realtà supera spesso la fantasia, oggi preferisco raccontarvi una storia vera. Dalla quale si evince che, prima di farsi contagiare dal coronavirus, conviene parlarne con i vicini, prima ancora che con i medici. Altrimenti loro, i vicini, trasformeranno la vostra vita in un inferno.
E’ successo a un mio amico. In una ricca e ospitale città del nord. Quando ha scoperto di aver contratto il virus, lui – che è un bravo cittadino – si è subito chiuso in casa e ha comunicato la notizia al suo medico di famiglia, alla ASL competente e al suo amministratore di condominio. Ma subito sono iniziati i mugugni. Nel suo stabile abitano infatti molto anziani, i quali avrebbero preferito – anzi, preteso – che il mio amico andasse a fare la sua quarantena altrove e non a casa sua. Come dire: mors tua, vita mea.
Eppure il mio amico se ne stava chiuso in casa, da solo, senza mai uscire. Mai si è azzardato a prendere l’ascensore o ad accarezzare il corrimano delle scale o a toccare il portone di sotto. E i suoi familiari – che vivono in un’altra casa, distante 7 km – non sono mai venuti a trovarlo, gli lasciavano in tutta fretta un po’ di cibo sul pianerottolo, una volta al giorno. Insomma, in fatto di correttezza civica non c’era nulla da eccepire. E infatti il mio amico è stato consolato più volte al telefono dal funzionario del Comune incaricato di dirimere la faccenda, il quale ha dovuto spiegare più volte alla gang dei condomini in assetto di guerra che il mio amico era un legittimo proprietario, per di più era residente proprio lì e aveva dunque tutto il diritto di starsene a casa sua. Ma non c’è stato verso.
Le proteste sono cessate solo quando il mio amico si è aggravato ed è stato ricoverato. E’ rimasto in ospedale quasi un mese, con diverse complicanze da Covid-19, attaccato a un ventilatore. Ma ce l’ha fatta, per fortuna, ed ha potuto far rientro a casa, provato ma completamente guarito, negativo a tutti e due i tamponi che gli sono stati fatti. Ad attenderlo c’era però una denuncia dei suoi vicini di casa – sì, una regolare denuncia alla Polizia Municipale – i quali ne chiedevano l’immediato allontanamento dallo stabile per motivi di salute pubblica.
Era successo che, su consiglio dei medici, il mio amico aveva fatto bonificare la casa. E com’è normale in questi casi gli operai se n’erano andati con qualche busta di spazzatura, che era stata depositata nei cassonetti condominiali. Apriti cielo! La falange armata dei condomini è subito insorta col coltello fra i denti e, dopo aver fatto sanificare con l’ozono l’ascensore, le scale e l’androne – costo: 600 euro – ha allertato il Servizio di Igiene del Comune per denunciare l’accaduto e pretendere il cartellino rosso da espulsione. Accecati dalla paranoia, si erano però dimenticati che il mio amico era rimasto fuori casa per ben 26 giorni – tanta è durata la degenza in ospedale – e quindi non potevano più esserci tracce del virus a casa sua, o quanto meno non in misura da contagiare l’intero stabile. E il solito funzionario del Comune li ha bacchettati di nuovo, invitandoli alla calma. “Non sanno come trovar la pace dentro di loro – ha spiegato al mio amico – e scaricano la loro paura del virus sul primo che gli viene a tiro”.
Per tutta risposta i condomini hanno deciso di farsi giustizia da soli. Sul pianerottolo del quarto piano, l’ultimo, oltre all’appartamento del mio amico c’è una porta da cui si accede al terrazzo condominiale. Da quando il mio amico è rientrato, quella porta è sempre aperta, anzi spalancata, anche di notte, quando fa freddo. “Almeno così circola l’aria” hanno spiegato al mio amico, che ora in casa indossa il cappotto.
L’ignoranza, non c’è che dire, genera egoismo. E l’egoismo diventa grettezza, se condito di paura. Quella paura “cieca e indisciplinata” di cui parla Manzoni a proposito della peste, quella che scatena la caccia all’untore, sia pure dentro un condominio apparentemente normale di una città che si vorrebbe normale. Il mio amico ha deciso in ogni caso di andare di persona alla prossima riunione di condominio, quando si terrà, una volta superata l’emergenza. Non ci va da una vita, mi ha spiegato, ma sarà un’ottima occasione per spaventare a morte i più agguerriti fra i suoi vicini. Vita mea, mors tua”.

2 pensieri su “UNA PRIMAVERA DEL 2020

  1. Con persone di questo tipo per quanto mi riguarda l’estraneità è completa, e ogni appello a solidarietà e vicinanza quantomeno fuori luogo.

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