MODESTA PROPOSTA PER FARE A MENO DEI POZZI

Di questa faccenda dei pozzi neri sarei un po’ stufa. I pozzi neri, se ricordate, sono quelli citati da Natalia Ginzburg nel 1948, nel famosissimo discorso sulle donne apparso su Mercurio di Alba De Cespedes: “le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne”. Segue risposta di De Cespedes: “Ma— al contrario di te — io credo che questi pozzi siano la nostra forza. Poiché ogni volta che cadiamo nel pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano, e nel riaffiorare portiamo in noi esperienze tali che ci permettono di comprendere tutto quello che gli uomini — i quali non cadono mai nel pozzo — non comprenderanno mai. E questo il difetto degli uomini, a parer mio: quello di non abbandonarsi mai totalmente, mai lasciarsi cadere nel pozzo”.
Era, ribadisco, il 1948 e questo discorso, letterariamente parlando, aveva senso, eccome. Credo che oggi lo abbia molto meno.
Un paio di esempi. Ieri Costanza Rizzacasa D’Orsogna, autrice di un romanzo assai potente come “Non superare le dosi consigliate”, rifletteva su La Stampa, e poi su Twitter, sul fatto che spessissimo la letteratura “femminile”, ovvero scritta da autrici (la definizione non mi piace e non mi piacerà mai) viene interpretata come esclusivamente autobiografica e dunque non letteraria.
Singolare vicenda. Scorrendo i cataloghi e, soprattutto, avendo letto moltissimo in questi mesi, noto invece che la scia autobiografica, e addirittura  tuffi nei pozzi, sguazzamenti nei pozzi, immersione in apnea nei pozzi, sono faccenda molto più frequentata da scrittori uomini: saghe familiari, padri (soprattutto padri, una quantità infinita di padri), infanzia in provincia o non in provincia, traslochi, amicizie dell’adolescenza, anche qualche amore o matrimonio, insomma la storicizzazione di se stessi e delle proprie radici mi sembra essere uno dei tratti letterari distintivi degli ultimi tempi. A volte con ottimi risultati, certo, ma non è questo il punto. Di contro, i libri di scrittrici donne mi sembrano rivolgersi più spesso di prima al grande mondo esterno e non solo a quello che coincide con il sé familiare. Quindi, altro che autobiografia (fermo restando, e dico la più banale delle banalità, che in ogni romanzo si racconta se stessi, ma non ci sarebbe neanche bisogno di sottolinearlo).
Eppure resta molto complicato muoversi in questa faccenda delle scritture e del genere di appartenenza: noto, con non poca perplessità, la ribellione di molte autrici giovani all’idea stessa che si possa parlare di scrittrici e non in generale di letteratura. Accade, con cadenza regolare, a ogni edizione del Festival Inquiete, accade quando solo si sospetti l’idea del recinto per specie protetta. Ma di contro, se non esiste e non deve esistere la specie e neanche la protezione, resta il fatto che il pregiudizio altrui esiste, e con molta fatica la scrittrice esce dal concetto di “colei che scrive per le lettrici”, e non per tutti. Che – ma che malinconia  ripetere ogni volta lo stesso discorso – se non esiste la “letteratura femminile”, esiste una minor visibilità qualitativa delle scrittrici: e no, non si è immuni da questo discorso anche se si ritiene di esserlo, e resta, al di là della pacca sulla spalla che pure si ottiene, più difficile essere la regola e non l’eccezione (penso a Olga Tokarczuk, penso ad Alice Munro, penso a Joyce Carol Oates: fra loro diversissime, ugualmente straordinarie, ma considerate eccezioni, ahimé), essere colei che a buon diritto scrive il Grande Romanzo Americano, o Europeo, o Galattico.
Dunque? Dunque, banalmente, qualsiasi occasione di riflessione, finché il pregiudizio non scivola via, va accolta come benvenuta. Dunque sarebbe bello gettare uno sguardo, ogni tanto, anche al genere nel genere (le autrici di fantastico, esatto, come quelle di Visionarie). Dunque sarebbe magnifico mettere in atto, ma sul serio, quello che diceva Donna Haraway: usare il senso dell’umorismo “per imparare i reciproci femminismi senza essere giudicanti”. Che sarebbe faccenda sacrosanta, peraltro, non solo in letteratura.

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