MODUS LASCIVUS: TRE RIFLESSIONI SULLA MUSICA DEGLI ANNI NOVANTA

Sono andata a ripescare tre miei vecchi articoli: vecchi davvero, perché sono stati scritti per Repubblica tra il 1991 e il 1992. Vi si parla di rock, di punk, di rap, e dell’aura maledetta che vi si associa. Droghe, violenza, morte. Se, alla fine della lettura, riflettete su quanto è stato scritto sulla trap verificherete che la storia è sempre, sempre la stessa. L’antico modus lascivus con cui si bollavano le musiche che non si comprendevano. La stessa facile paura, lo stesso desiderio di autoassolversi (come ascoltatori di musica e soprattutto come genitori ed educatori) che fa parte della storia degli uomini e delle donne.
Il rock
Nel 1948 Ernst Junger scrisse ad Albert Hofmann, l’ uomo che dieci anni prima aveva sintetizzato l’ acido lisergico nei laboratori farmaceutici della Sandoz, di aver iniziato un libro (sarebbe stato Ruerckblick auf eine Stadt, Retrospettiva su una città) il cui sedentario protagonista avrebbe viaggiato “oltre gli oceani navigabili” grazie alla droga. Junger è soltanto un nome nel cospicuo elenco dei frequentatori letterari del Lsd: basta sfogliare il volumetto di Hofmann pubblicato  da Stampa Alternativa nella collana Mille lire per incontrare i nomi di Huxley, di Timothy Leary, di Walter Vogt, che con il chimico si intrattennero in lunghi carteggi volti ad analizzare l’ esperienza psichedelica come metodo di esplorazione delle profondità dell’ ego e di amplificazione del processo creativo. Altri stupefacenti trovarono, in precedenza, giustificazioni estetico-ideative: l’ etere di Maupassant, l’ hashish di Baudelaire, l’ oppio di Colette. L’ ecstasy, la pastiglietta a basso costo prediletta dal popolo delle discoteche, è invece una droga culturalmente diversa da quelle che l’ hanno preceduta. Certo, con gli altri stupefacenti “sociali” condivide l’ elezione a simbolo generazionale, passaporto del ribelle che abbina al “rito di passaggio” (e al conseguente flirt con la morte) il gusto per il ballo, per un abbigliamento spettacolare, per l’ esasperazione collettiva del divertimento e per una musica innovatrice rispetto ai codici precedenti. Così era per i “belli e dannati” che ascoltavano suoni “rozzi e violenti” (il jazz) stordendosi con sostanze proibite (whisky e affini). Così per i frequentatori dei locali finto- californiani degli anni Settanta, dove si ascoltava un rock che del rock vero e proprio non rispettava le caratteristiche di facilità e ballabilità (gli undici minuti delle suites dei Pink Floyd, l’ iterazione estenuante dei Tangerine Dream) e dove si respiravano micidiali zaffate da tintoria di popper. Come per la musica “psichedelica”, che secondo Leary era concepita in funzione dei corrispettivi stupefacenti, l’ ecstasy trova il suo sostegno musicale nella techno, accusata di indurre nei suoi fruitori il medesimo sfinimento, e di nascere (in quanto musica creata al computer) dalla medesima vocazione all’inautentico. Come per le droghe che hanno scandito le vicende del rock, l’ ecstasy si lega, insomma, al concetto di distruzione, si accoda al trinomio musica-ballo- morte che portò la Chiesa del Medioevo a bollare come “modus lascivus” quello, derivato dalle antiche scale eolica e ionica, che accompagnava la danza. E che tuttora si dimostra valido: in un altro saggio, Rock Babilonia di Gary Herman, pubblicato da Interno Giallo, si indulge non soltanto all’elenco di immature scomparse da droga di rockstar come Hendrix o la Joplin, o di incidenti mortali avvenuti in megaconcerti come quello di Altamont: ma ci si sofferma con dovizia sui delitti suscitati dal rock’ n’ roll. Reali come la strage di Bel Air effettuata dai seguaci di Charles Manson e scandita dalle note di ‘ Helter Skelter’ dei Beatles, o letterari come gli squartamenti a suon di Talking Heads descritti in American Psycho. Se questi sono i punti di contatto, la differenza è notevole: l’ ecstasy è una droga di massa, facilmente accessibile (quindicimila lire a pastiglia) e dunque priva di ogni fascino letterario. Uscita dai paradisi poetici, è entrata di diritto nella cronaca nera. Dove, invece di amplificare illustri coscienze, serve a motivare risse e incidenti d’ auto. Anche le droghe perdono l’ aura, direbbe Walter Benjamin, quando diventano di uso comune, e indifferente per gli stessi consumatori.
Il punk
Teodor W. Adorno avrebbe preso in considerazione musicisti che si chiamavano Marcio, Vizioso, Dannato, Verme, Strangolatore? Qual è il debito del nuovo ascoltatore nei confronti di Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols che sostituì il rituale saluto delle rockstar “Siete un pubblico meraviglioso”, con la frase “Scommetto che VOI non odiate NOI quanto NOI odiamo VOI”? E quante pagine dovrebbe dedicare la sociologia della musica alle spille di sicurezza e alle creste mohicane? Il critico inglese Dave Laing ne utilizza duecentodiciassette, di pagine, per coniugare approccio semiologico e analisi musicale nel saggio Il punk, Storia di una sottocultura rock (Edizioni Edt). La tesi di Laing è che anche un movimento nato con caratteristiche esclusivamente musicali e vissuto ai margini della cultura ufficiale possa incidere profondamente sui suoi meccanismi. E il punk inglese contribuì ad un radicale ripensamento della produzione e del consumo di musica grazie ad una filosofia fai-da-te, ad una logica da bricoleur che predicava l’ indipendenza dell’ ascoltatore dall’esecutore e di quest’ ultimo dalle grandi case discografiche, colpevoli di aver trasformato il rock in un prodotto misticheggiante e opulento. Così, in quel 1976 che vide la Principessa Margaret presenziare al concerto dei Rolling Stones, esplosero i Sex Pistols, i Damned, gli Stranglers. Gruppi sorti spesso nei negozi di abbigliamento o di dischi, che affidavano a registrazioni casalinghe brani che facevano a pezzi tutte le convenzioni della musica popular, sostituendo il “riconoscibile”, il già noto alle orecchie dell’ ascoltatore, con l’ “inaudito” e lo sgradevole. Il rock parlava d’ amore, il punk di sesso, meglio se “malato” (“Peaches” degli Stranglers è la confessione di un voyeur). Gli psichedelici dilatavano in lunghe suites sensazioni impalpabili, i Damned cantavano “Born to kill”, nato per uccidere. E in spregio alla “poesia” dei cantautori, i gruppi punk adottavano la tecnica del collage, che miscelava nei testi espressioni gergali, slogan pubblicitari, frasi giornalistiche, e che nell’abbigliamento abbinava svastiche e biancheria sado-maso (magari indossata sopra un impermeabile, per annullarne il valore feticistico). Sradicati dal proprio contesto originario, i vari elementi andavano a comporre un messaggio neutro, privo di intenti politici o morali, e in grado di accogliere qualsiasi significato, di sopportare un’interpretazione indifferentemente marxista o di estrema destra. Épater le bourgeois? Anche, ma soprattutto spiazzare l’ascoltatore, non concedergli punti fermi, sostituire al godimento estetico un piacere intellettuale costruito sulla consapevolezza dell’ indignazione altrui. Così, il punk tolse al suo pubblico ogni possibilità di identificarsi con l’ interprete. Ma a quella non-musica era facilissimo accedere. Tra un lancio di lattine e uno sputo (il rituale che negli spettacoli punk sostituiva lo scatto dell’ accendino) il fan poteva salire sul palco: per suonare, e non per toccare la giacca della star. L’ ascoltatore veniva sollecitato a diventare musicista: “E’ stato facile, è costato poco, è bastato mettersi a farlo. Adesso tocca a voi”, ammonivano i gruppi dalle copertine dei dischi. Grazie a propri strumenti di comunicazione e distribuzione (le “fanzine” e le “indies”, etichette indipendenti), registrare e recensire un album non era più un miraggio. E se il punk, sopravvissuto alle censure e agli scandali, si sgretolerà quando le maggiori ditte discografiche ne metteranno sotto contratto i complessi più celebri. E lascerà, tuttavia non poche eredità significative. Il gusto dell’ artificio e della citazione (che nella filosofia punk si scontrava con l’ esigenza di essere “spontanei” e “onesti”) si affinerà fino a decretare il trionfo del musicista-ladro, del collage inautentico predicato dal postmoderno. L’ accesso di massa alla produzione della musica culminerà nella vittoria del campionatore e del non-musicista (come Badalamenti, come Vangelis). E sul rapporto così rivoluzionato tra interprete e ascoltatore rifletteranno seriamente anche autorevoli rappresentanti della musica colta.
Il rap
Chi sarà tanto ardito da sostenere che il rap è nato nella Firenze del Cinquecento? Chi riuscirà a collegare l’ “imitar col canto chi parla” del primo melodramma e il “parlare-in-ritmo” di Afrika Bambaataa? Per ora sono in pochi a sottolineare le analogie fra l’ uso della voce nel recitar cantando europeo e nell’insultar cantando dei griots, gli antichi cantastorie africani, considerati gli antenati dei rappers, che utilizzavano il proprio virtuosismo d’ improvvisatori per duelli canori su commissione. Eppure questa musica costruita sull’immediato presente e impregnata delle tradizioni del più lontano passato meriterebbe più riflessioni e meno note di cronaca. Nato alla fine degli anni Settanta come espressione privilegiata dei giovani neri americani, il rap incide attualmente sul costume come e più del rock e del punk: in Francia è non soltanto materia di studi universitari (grazie al sociologo George Lapassade, che per primo ha intrapreso uno studio organico sul rap assimilandolo alle tradizioni orali delle civiltà arcaiche), ma anche linguaggio privilegiato dei pubblicitari che lo definiscono “il modo più diretto di dire le cose”; in Italia si è affermato in poco più di dodici mesi come tramite di quella che anni fa si sarebbe chiamata la protesta giovanile; in America, infine, sta diventando lo spauracchio dei bianchi, la causa prima (secondo i media) di risse e violenze metropolitane. Così è stato in occasione dei recenti disordini di Los Angeles, dove i giovani eredi della “Zulu nation” vagheggiata da Bambaataa sono stati dipinti dai giornali come replicanti postmoderni delle pantere nere, come i sanguinari vendicatori di un passato prossimo appannato da reaganismi e travoltismi. Ha rincarato la dose Dan Quayle, il non vispissimo vicepresidente Usa che già attribuì ad una soap opera la responsabilità della perversione dei tempi, e che non molti giorni fa ha puntato l’ indice contro Ice T, esponente di punta di un rap finto-criminale (il finto è d’ obbligo, se si dà credito ad astute dichiarazioni del medesimo quali: “Possiedo un telefono, una segreteria telefonica, un apparecchio televisivo, un computer, una bomba a mano – tutto quello che occorre per condurre gli affari a Los Angeles”), accusandolo di istigazione alla violenza per quel “muori porco muori” contenuto nel brano Cop killer, Ammazzapoliziotti. Una lettura più profonda, o comunque puntata sul versante spettacolare del fenomeno (come nel punk, l’ odio dei rappers è velenoso quanto, nella maggior parte dei casi, falso) viene invece dal saggio Rap, storia di una musica nera del giornalista e musicista inglese David Toop, (Edt). Da dove emerge con prepotenza un dato: il rap è la più compiuta espressione musicale del presente. La realizzazione dell’ aspirazione postmoderna al flusso sonoro ininterrotto, alla non-pausa, al silenzio negato. Vi provvede a perfezione il DJ, l’ officiante elettronico del rap, nell interminabile colonna sonora costruita secondo la tecnica dello scratching, una sequenza di brani altrui riassemblati in forma inedita: perché il rap è musica di ladri, lavora sul già noto, riproponendolo ma distruggendone la familiarità (come già il jazz, peraltro), smentendo il diktat adorniano secondo cui l’ arte non è riproducibile e appropriandosi di tutto quel che capita a tiro, l’ urlo di James Brown e le schitarrate del vecchio rock, ridotti a frammenti sonori (i breaks) e rimontati in un nuovo ordine. Musica proletaria, che ruba ai ricchi (le schegge musicali vengono spesso Musica proletaria, che ruba ai ricchi (le schegge musicali vengono spesso dal patrimonio lussuoso della disco) per dare ai poveri. Musica fai-da-te, facile da produrre: un disco di rap, qui in Italia, può essere inciso tranquillamente a casa propria con una spesa inferiore ai cinque milioni ed essere fatto stampare in una delle tante piccole etichette indipendenti sorte per l’ esigenza di arrivare in fretta al pubblico (prima che i gusti cambino, prima che l’ attualità divenga meno stretta). Musica che torna a privilegiare la voce rispetto allo strumento: e ne fa, anzi, l’ unico strumento che si esibisce “dal vivo” su una base sonora registrata. Un ruolo centrale che il punk aveva già intuito. E che porterebbe, volendo, ancora lontano, alla già citata tradizione dell’ insulto rituale: quello dei griots e poi dei dozenz, le gare verbali in voga nei quartieri neri anni Cinquanta. Ma anche quello delle lavandaie immortalate nei madrigali barocchi (e rifiltrate da De Simone nel finale della “Gatta Cenerentola”). Prima e seconda oralità si fondono insieme in questa musica televisiva, il cui tempo è spezzato, convulso, frammentario come un palinsesto: e che ingloba tutto Dio e i supereroi della fantascienza, i Puffi e i poliziotti, le pattuglie di Los Angeles o Starsky e Hutch, fa lo stesso. Il problema della violenza contenuta nel rap andrebbe, secondo Toop, letto in questa chiave: impossibile per una musica che si configura come fax sonoro del reale, come un pezzo di cronaca da ballare, ignorare la violenza diffusa quotidianamente dai media. Emblematico, in questo senso, è il caso degli N.W.A. o Niggers With Attitude, il cui video, che utilizzava pezzi di reportage fatti da reti televisive come la Cnn, venne bandito dal Mtv per aver contravvenuto a uno statuto che “proibisce i video che celebrano la violenza e/o mostrano scene di violenza gratuita”. Una violenza ben raccontata nel libro Fallo o Muori che esce in traduzione italiana presso Baldini e Castoldi in autunno. I media ameriacani, peraltro, non risparmiano accuse ai rappers. E non da oggi: se, come ricorda Toop, già nel 1986, uscendo dalla proiezione di un film girato sul raduno rap del Krush Groove Christmas Party (ventimila rappers e un titolone sul New York Post: “Cinque persone stroncate dalla violenza al Garden”) venne avvicinato da un reporter Tv che cercava connessioni tra rap e violenza. “I film e i concerti rap – scrive il giornalista – si stavano dimostrando un punto d’ incontro per gente ostile all’autorità, gente spinta verso la violenza a tutti i costi dal suo legame con la droga, le armi o spinta verso la violenza a tutti i costi dal suo legame con la droga, le armi o le bande. Dissi al reporter che al massimo il rap poteva essere la colonna sonora di tutto ciò”. Quanto mai appropriata: i rappers non hanno fatto altro che elaborare quella che Toop chiama Faction, fiction più action (informazione-spettacolo in italiano), che nei media americani rende indistinguibili amor di cronaca ed eccitazione voyeuristica. Incalza, su richiesta di Toop, il rapper L.L. Cool J: “Rap non significa violenza… Sono solo idee dei media. Non è che ascolti un disco rap e poi ti viene voglia di uscire e di ammazzare qualcuno. Invece il rap tiene i ragazzi lontani dai guai… Mette un sacco di gente nera nello stesso posto e nello stesso momento. A loro questo non piace, perché magari questi neri possono mettersi a pensare a qualcos’altro oltre al rap… Hanno questa mania del ghetto e delle cazzate di strada. Il ghetto non c’ entra. Io vengo da Queens. Il ritmo è nelle strade. La durezza. Ho i miei problemi, sono cresciuto e ho vissuto duramente, ma non vengo dal ghetto. . Merda, io vivo con mia nonna”. Niente più che musica, nient’ altro che spettacolo. Lo ribadisce in un saggio su Los Angeles, “City of Quartz”, Mike Davis: “Ci sono neonati con l’ Aids, e adolescenti che vengono uccisi per rubare loro le scarpe. Anche se il potere della musica è grande, nessuna musica è abbastanza potente da generare un simile degrado sociale. I rap sono finzione, e queste finzioni si basano su una realtà vissuta o su un’ immaginazione sovreccitata: il mondo che riflettono si muove in fretta, senza controllo, troppo in fretta per essere guidato dal rap”. Ma c’ è una nota di ottimismo da non tralasciare in questa musica a struttura aperta, di cui può appropriarsi chiunque e per qualunque fine, sia esso la frivolezza o l’ impegno. Non a caso le band italiane, le “posse”, (gruppo, in slang giamaicano) si fondano su una forma inedita di aggregazione instabile, che di volta in volta può in
cludere elementi nuovi. Anche provenienti dal pubblico: “Il microfono è aperto a chiunque: nei nostri concerti non c’ è alcuna differenza tra chi è sul palco e chi si agita sulla pista da ballo”, affermano i membri del Sud Sound System. Parole in cui sembra riecheggiare la vecchia filosofia punk, detersa però da ogni vocazione autodistruttiva. Non per nulla i francesi hanno già sostituito allo slogan punk “No future”, nessun futuro, quello che recita: “Il rap è l’ avvenire”.

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