Poi, non è che io sia una santa.
Non sono immune, ovvero, da tutte le passioni tristi che osservo negli altri, dalle chiusure al mondo, dall’essere autoriferita, dal provare quella punta di dolore nel sentirti sottovalutata per colpa – già, per colpa – di qualcun altro che non sei tu.
Lo capisco bene, cosa significhi, per esempio, essere convinta di aver scritto ilromanzopiùbellodelmondo e leggere qualche nuova uscita chiedendoti “ma come? pubblicano questa roba e io ancora non so bene chi, dove, perché?”, oppure “ma come? tutti impazziscono per questa roba e non per quel che scrivo io?”, oppure ancora “ma come? candidano questa roba a un premio e io invece?”.
Mi capita spessissimo. Capita quasi sempre, ed è normale che sia così. Con alcune differenze caratteriali, e un tempo avrei detto anche di genere. Ne parlavamo, con Chiara Palazzolo, nelle solite lunghissime telefonate che tanto rimpiango: succede spesso – ci dicevamo – che quando uno scrittore riceve una critica, o un rifiuto, o una sottovalutazione, si trinceri dietro un’autostima così forte (e salvifica) che lo porta a considerare colpevoli gli autori della critica e del rifiuto e dell’indifferenza. Una scrittrice, ci dicevamo ancora, si colpevolizza: è colpa mia, dice. Non sono abbastanza brava. Ho scritto una vera schifezza. Meglio cambiare mestiere, o buttare via tutto e ricominciare.
In un particolare sbagliavamo, Chiara e io: non capita a tutte le scrittrici. Capitava a noi due, e a me, la sopravvissuta, capita ancora oggi: davanti alla piccola ferita dell’ego (ma come, pubblicano questa roba e io, eccetera), la reazione non è “mondo editoriale cinico e baro” bensì “sono un disastro”.
Non so se sia un bene o un male. A volte vorrei che il mio Ego svettasse nei cieli e mi permettesse di vivere con maggiore e allegra incoscienza. Altre volte mi sta bene così, e pazienza per i malumori e per gli infiniti nuovi inizi in cui continuo a cimentarmi. Perché, infine, è un grande privilegio poter fare quel che si ama: leggere, e scrivere, e pazienza se il privilegio si paga economicamente, e come posizione sociale, e anche con le ferite grandi e piccole del famoso Ego. Non smetterò di considerarlo tale, e di augurare a chi amo di poterlo ottenere, possibilmente senza incorrere nella trappola del “fai quel che ami” di cui abbiamo scritto con Giovanni Arduino in “Schiavi di un dio minore”.
Questo post nasce dalle critiche che leggo a proposito di “Le ragazze” di Emma Cline. Fino a lunedì non avrò il tempo per scrivere una recensione approfondita del romanzo, e fino ad allora vi rimando all’intervista fatta a Cline per Fahrenheit (qui, nella pagina dei podcast). Critiche che, molto spesso, sono preventive e riferite al certamente considerevole battage pubblicitario. Ovvio che i libri devono essere criticati. Possibilmente, credo, dopo averli letti, o di cosa stiamo parlando? Altrimenti sono passioni tristi e basta. Sia detto non da influencer, non da quellachecihamillemilafollower e si sente una dea. Da me, Loredana Lipperini. Che legge e scrive, ed è spaventosamente insicura e fragile quando scrive. Ma che prova a non tramutare la fragilità in rabbia, perché toglierebbe piacere alla scrittura e anche alla lettura, e respiro alla vita stessa.
Buon giorno Loredana, come sempre lei quando scrive ci apre le stanze segrete o quasi, del suo cuore e noi leggiamo e ci commuoviamo e poi le diciamo grazie, perché le sue parole sono anche le nostre che a noi però rimangono nella strozza a far male. Ecco io non sono uno scrittore e non so come si comportino, se sono diversi dalle scrittrici in questo senso. Io so che quando ricevo una critica, sul lavoro, nella vita, anche la più ingiusta, vorrei correre a nascondermi sotto il letto come un bambino spaventato e mi sento più piccolo della caccola di “un lepre” (omaggio a M.R.Stern). Ecco mai mi è capitato di pensare che il mondo sia ingiusto con me, ma sempre di come io sia inadeguato al mondo. Certo non è un bel vivere, ma poi penso che da solo in un giorno uso l’acqua che disseterebbe un intero villaggio da qualche altra parte, che, per ora almeno, non mi mandano la democrazia dal cielo sotto forma di bombe al fosforo o bidoni di cloro; ecco penso che sono fortunato e vivo e leggo, è vero a volte scrivo, ma cose senza importanza come in questo caso. Un caro saluto e grazie, per appunto. Andrea
la scrittura per certe, determinate persone, siano essi donne o uomini, è come una ferita , un’apertura nella nostra pelle per fare emergere ciò che prima era protetto, invulnerabile. Parlo di una scrittura di qualità, non di operazioni furbe di editoria. Lì non scorre alcun sangue. Detto ciò, chi legge e critica per mestiere deve o dovrebbe essere onesto. E non dico con sè stesso, che poi le cose si complicano ad oltranza, ma con le parole e le storie dell’Altro. Ciò comporta una lettura attenta, profonda, e, permettetemi, anche competente. La stroncatura esiste ed è contemplata nel gioco delle parti, ma deve essere credibile!! E non sempre lo è. In Lipperatura trovo anzitutto questa onestà. Poi noi donne che scriviamo siamo, secondo me, nel perenne crinale tra la nostra autocritica spietata e l’attesa della salvazione dall’esterno.:) praticamente arriviamo annientate. Tranne qualche esempio di Ego smisurato e immune ( e forse esangue, vedi prima).
Ho scritto un libro della vita, poi pubblicato da un’editore (Archivio Dedalus di Milano) che è una cara amica. Ho provato tutto ciò che lei descrive così bene. Forse capita agli introversi, forse a chi ha grande capacità di analisi e critica, forse c’entra il genitore normativo dell’analisi transazionale. Si soffre, ma forse non si può evitare. Molto belli i commenti precedenti, apprezzo tanto anche quelli.
Per deformazione professionale diffido sempre dalle categorizzazioni di genere, dalle classificazioni e dal ridurre le cose in dualismi. Sono consapevole del fatto che classificare sia utile a conoscere il mondo che ci circonda, ma è un inizio, poi sarebbe necessario svincolarsi da questi assiomi e cedere alla complessità. Come giustamente scrivi, cara Loredana, “un tempo avresti detto…”, oggi per fortuna non lo diresti più. Autrici e autori possono avere reazioni ad una critica che nulla hanno a che vedere con il loro genere, ma che sono il frutto di un vissuto che gli è proprio (certo a volte anche influenzato da una educazione di genere). Io personalmente reagisco esattamente come te, mettendo a tacere il mio ego e dando voce a quella parte di me che continuamente mi costringe all’autocritica. Addirittura senza avere un riscontro negativo, già solo il silenzio mi porta a pensare che quanto ho scritto non sia degno di essere neanche letto. Attendo risposte per un manoscritto che nella migliore delle ipotesi, fino ad ora, non è stato neanche letto: ho ricevuto garbati dinieghi a una possibile lettura, ma mai un commento, né in negativo, né in positivo e ti assicuro che ci si sente esattamente come hai descritto. La cosa peggiore è che già durante la stesura arrivano i mostri a interrompere quel momento magico che è il narrare. Arrivano e bloccano per giorni e a volte settimane, durante i quali i protagonisti restano immobili in attesa di compiere azioni, gesti, in attesa di parlare o semplicemente di pensare. E allora tutto svanisce in quei lunghi periodi, perdendosi nella ferita del proprio ego, auto imposta, perché nessuno si è messo lì con il coltello, ma siamo noi stessi a infliggerci quel tormento. Poi finalmente scatta qualcosa e le parole riprendono vita insieme ai personaggi rimasti lì in attesa fino a quella fatidica ultima pagina. E dopo? Dopo ancora attesa, che di giorno in giorno sembra aumentare e di cui non si vede la fine. “Che meravigliosa società letteraria sarebbe [se]”, hai scritto in un altro posto su FB, e mi è venuto in mente il gioco preferito di quando si era bambini: “facciamo che tu eri… e che io ero…”. Ecco, cara Loredana, mi piace pensare che per una volta si possa dire “facciamo che io ero quello che ha scritto un romanzo e tu eri quella che lo leggeva e che si emozionava quanto mi sono emozionato io a scriverlo…” Buona giornata e grazie per questi spazi di condivisione. Francesco Staffa
Tu sai, Loredana, perché ne parlammo un giorno. Scrivo, amo scrivere. Molto più che pubblicare. Pubblico, anche. Ma niente di eclatante. E provo quella brutta sensazione del “perché quel libro sì e il mio no?”. È umano e io santa meno che mai. Ma passa subito. Perché non potrò mai essere sicura che wuel che scrivo valga. Ma lo amo di un amore da madre. E continuo, tra fragilità, stanchezza, disillusione e gioia, soprattutto gioia. E va bene così.
Grazie della tua condivisione.
Ciò che c’è di bello, di assolutamente confortante, di grandiosamente vivifico nella scrittura è la condivisione. Chi scrive lo fa perché vuole dire. Agli altri e a se stesso. Perché ha concetti, idee, storie, opinioni da far risuonare in una voce di carta. E se la voce resta muta, come non soffrirne. Sia che ci si senta incompresi, sia che ci si senta inadeguati. A volte, forse, si può aver scritto a voce troppo bassa perché gli altri ci sentano. Ma non è nel silenzio la strada. Scrivere è un diritto così come parlare. Non tutte le parole saranno perfette opere d’arte, ma sono espressioni di un sé individuale unico e chi lo fa, non ne può fare a meno. E io, come opinione del tutto personale, lo amo, a prescindere dal gradimento, in un’operazione lontana dalla presunzione e vicina alla voglia di affinare la mia voce. Grazie Loredana che hai acceso la tua voce di carta per condividere pensieri con noi.