NON SU BARBARA BALZERANI, MA SUL DIRITTO E LA CIVILTA’

Questo paese è capace di immensa generosità e di crudeltà altrettanto immensa. Ieri è morta una donna di 75 anni, che si chiamava Barbara Balzerani, ha fatto parte delle Brigate Rosse e del commando che ha rapito Aldo Moro. Ha attraversato una stagione di morte, ha creduto che si potesse realizzare un mondo migliore con il sangue degli altri. Ha sbagliato atrocemente, ha lungamente pagato (quant’è brutta questa parola, quando si parla di pena, quanto: pagare, pagato). Ha avuto un’altra vita fatta di libri, e di questo si parla molto poco. I titoli dei giornali e molti social insistono sul fatto che non si è mai pentita. Come se la raffica di scuse che la Chiesa offrì negli anni Novanta, chiedendo perdono a Galilei, agli eretici e persino alle streghe che aveva bruciato, riparasse uno strappo.
La sua morte era attesa da una serie di personaggi che non vedevano l’ora di usarla. Per esempio Nicola Porro, che così scrive:

“Ricordate i poveri studenti di Pisa, quelli manganellati dai poliziotti brutti e cattivi? Quelli difesi senza se e senza ma dal Partito Democratico e dagli altri partiti di sinistra giusto per attaccare Meloni&Piantedosi? Ecco, se facciamo finta di dimenticare le provocazioni agli agenti e la ricerca del contatto fisico, c’è un altro problema per i nostri giovincelli. Protagonisti alla baruffa toscana, i rappresentanti del collettivo Cambiare Rotta – organizzazione giovanile comunista sono tra quelli che hanno reso omaggio alla Balzerani: “Barbara Balzerani ci ha lasciato, comunista rivoluzionaria non si è mai dissociata dalla storia sua e di chi come lei ha voluto e tentato l’assalto al cielo. Che la terra ti sia lieve”.

Posso parlare perché, sì, faccio parte di quella generazione che vide il sangue versato dalle Brigate Rosse ma che in nessun momento ha accettato l’ideologia della violenza (ero radicale, ero e sono nonviolenta, prendevo botte da destra, sinistra e polizia).
Perché quando muore qualcuno dei protagonisti di quegli anni quella parola che si chiama diritto sparisce, a favore delle nostre viscere.
Quel che interessa me è parlare di diritto, ché le viscere sono faccenda personale. Quando c’è un reato, si commina la pena. E talvolta sulla pena e su quel che significa vale la pena interrogarsi. Come fa, nel libro che continuo a citare da svariati anni, Elvio Fassone. Il quale è un magistrato, ha fatto parte del Csm e per Sellerio ha scritto “Fine pena ora”. Nel quale dialoga con il mafioso che ha fatto condannare all’ergastolo. Dialoga per 26 anni. E scrive questo: “La comunità offesa dal delitto si fa risarcire con fette di vita prelevate chirurgicamente da quel bisturi inappuntabile che è il processo”.
Cos’è dunque la pena e come va interpretata? Luigi Manconi, una delle poche voci che si sollevò su Doina Matei, la donna che uccise un’altra donna nelle metropolitana di Roma, che postò una sua foto al mare quando era in semilibertà e che venne lapidata sui social per questo, scrisse allora:  “Alla gente che urla che l’Italia è un Paese indulgista, lassista e perdonista voglio ricordare che l’autore della strage di decine di persone in Norvegia è stato condannato alla pena massima, cioè a 22 anni di carcere. Se in Italia si vuole la pena di morte lo si dica apertamente”.
Ecco, cito di nuovo Bjørn Ihler, uno dei sopravvissuti della strage di Utøya. Nel 2010 Anders Breivik puntò la sua arma su Ihler e gli sparò, mancandolo; Ihler ha testimoniato contro di lui in tribunale. Quando, tempo fa, Breivik ha vinto una causa contro il governo norvegese per la violazione dei suoi diritti fondamentali durante la sua detenzione in carcere (non l’ergastolo, che non è previsto in Norvegia), Ihler ha commentato così la sentenza su Twitter: “Il fatto che il tribunale abbia dato ragione a Breivik mostra che il nostro sistema giudiziario funziona e fa rispettare i diritti umani anche nelle condizioni più difficili”.
Mi piacerebbe che ci si ricordasse della Norvegia più spesso. Perché mi ha colmato di orrore la sterzata giustizialista di una piccolissima (ma potente) parte dei femminismi quando chiese l’ergastolo per i femminicidi. Perché mi hanno colpito i commenti, all’epoca, su Riina morente e, oggi, su Barbara Balzerani.
Quando Breivik vinse la causa, i giudici di Oslo applicarono l’articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, che vieta la tortura e ogni trattamento inumano o degradante. Giancarlo De Cataldo commentò così: ” Il vero oggetto di questa sentenza è la democrazia stessa. A Oslo è stata riaffermata, contro ogni clamore, la validità del principio universale che vieta di trattare in modo inumano anche il peggior prodotto dell’evoluzione della specie umana. Ed è su principi come questo che si sono costruite le democrazie: dando ragione a Breivik, in definitiva, la democrazia non solo si è difesa da Breivik, ma ha riaffermato la sua signoria”.
Di questo vorrei parlare, non di una donna che è giunta alla fine della sua vita: e che anche da morta deve servire come becchime per gli avvoltoi, grandi, piccoli, medi.

Un pensiero su “NON SU BARBARA BALZERANI, MA SUL DIRITTO E LA CIVILTA’

  1. Mantenere salda la rotta quando i venti disperdono l’orientamento è segno di grande responsabilità.
    Grazie Loredana Lipperini!

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