Ancora un mio articolo, uscito ieri su Repubblica: lo posto qui perchè dell’argomento – la paternità – occorre, a mio parere, discutere.
Il primo padre di cui abbiamo notizia aspetta il ritorno del figlio, ascolta il resoconto del suo compito scritto, gli chiede di recitargli la tavoletta d’argilla e infine “ne rimane contento”. Avveniva quattromila anni fa, in Mesopotamia. Da qui parte il lungo cammino di Maurizio Quilici, giornalista, fondatore e presidente dell’Istituto Studi sulla Paternità, autore di Storia della paternità-dal pater familias al mammo (Fazi, pagg. 500, euro 23): una cavalcata attraverso i millenni per studiare i mutamenti di una figura che, a fronte della crescente esposizione mediatica, mancava di una ricostruzione storica: “Fino a pochi decenni fa la paternità, a differenza della maternità, non ha avuto dignità di oggetto nelle analisi storiche, sociologiche, psicologiche e, tranne qualche eccezione, neppure nell’ambito della narrativa”.
Uno sguardo indietro che risulta utilissimo, negli anni della paternità “dolce”, per riflettere su cosa sia stata l’autorità paterna: un misto di potere e cura, come per i padri della Grecia antica, cui spettava la decisione sulla sopravvivenza dei neonati gracili o indesiderati e che pure erano legati alla prole da un vincolo reciproco di responsabilità e dovere. Ma anche da reciproco timore: la mitologia greca nasce da Urano, e da un rapporto padre-figli fatto di odio e rivalità. Il parricidio era il grande terrore degli antichi e, conseguentemente, i figlicidi del mito sono innumerevoli: uccidono, sia pur inconsapevoli, Ercole e Teseo, Tantalo cucina le carni di Pelope, Idomeneo e Agamennone non esitano a sacrificare la discendenza sperando nel favore di una divinità. Ma ci sono anche i padri amorosi: c’è il disperato tentativo di Dedalo di salvare Icaro e di insegnargli la via giusta per il cielo e c’è, soprattutto, Ettore, che solleva fra le braccia il figlio Astianatte con tenerezza e orgoglio, augurandosi che il figlio possa oltrepassarlo in forza.
Il terrore del parricidio era diffuso anche presso i romani, la cui storia stessa si identifica con la figura del padre, il magistrato domestico che può condannare a morte il proprio figlio (come fece Tito Manlio Torquato) perché ha trasgredito a un ordine. Eppure, l’Eneide si fonda sulla devozione dell’eroe nei confronti del padre. L’ambivalenza fra amore, rispetto e autorità attraversa anche il Cristianesimo, che pure riduce il potere paterno anteponendogli il potere divino, raggiunge e supera il Medioevo. Se nel Decameron padri assassini e generosi si alternano, Cecco Angiolieri non esita a cantare il parricidio: “S’i’ fosse morte, andarei da mi’ padre”. Beatrice Cenci la diede al violento e crudele Francesco. Bisogna arrivare a John Locke e ai suoi Pensieri sull’educazione (1693) per trovare frasi come questa: “il padre, quando suo figlio sia cresciuto e in grado di comprenderlo, farà bene a intrattenersi familiarmente con lui e perfino a chiederne il parere e a consultarlo in quelle cose di cui egli ha qualche conoscenza”.
L’indebolirsi dell’autorità paterna inizia nel Settecento, secolo in cui l’infanzia comincia a essere oggetto di attenzione e il diritto di natura conduce alla madre: il diritto paterno non viene negato, ma deriva dal vivere civile e dalle sue leggi. Di pari passo, inizia la ribellione aperta , che trova il suo simbolo nel rapporto fra Monaldo e Giacomo Leopardi che, nei Pensieri, così scriverà: “colui che ha il padre vivo, comunemente è un uomo senza facoltà” . La potestà paterna è la schiavitù dei figli, che non possono compiere alcuna grande azione, sostiene il poeta: nel 1819, progettando la fuga, Leopardi scrive una lettera al padre che Giorgio Manganelli definisce “un grande, straordinario pezzo di bravura” per amarezza, deplorazione, umiltà e scatto tirannicida: “Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che toccare una spilla del suo”. La fuga non riuscì, la lettera non venne mai consegnata.
Di questi padri ostili parleranno Hesse e Musil, che ricorderanno punizioni e percosse, mentre l’ultimo schiaffo dato dal padre morente condizionerà la vita di Zeno Cosini. E’che con l’industrializzazione cessa il passaggio di testimone fra padre e figlio: passaggio di autorità, ma anche di valori professionali. “Si sfalda la famiglia patriarcale – scrive Quilici – e ha inizio la rottura antropologica tra l’uomo e la cultura maschile preesistente”. In sostanza, il paterno si svaluta nel momento in cui il padre esce dalla famiglia e lascia i figli alla madre. Parallelamente, però, inizia la lenta scoperta dei padri “materni”. Il primo libro in cui questo avviene è Pinocchio: nella storia di Collodi è il padre a “far nascere” il burattino, e Geppetto si dimostrerà sempre pieno di affetto e capacità di sacrificio nei confronti del figlio. Un fallimento della responsabilità virile, secondo alcuni. Un’anticipazione, secondo altri, di quel che verrà dopo. Dopo i padri devoti o violenti di Cuore, dopo il gelido genitore di Incompreso, dopo Freud, dopo quel topos del dissidio generazionale che fu La lettera al padre di Franz Kafka. E dopo quel “parricidio sommario” che, scrive Quilici, fu il 1968.
Finisce il padre, inizia il papà: iniziano la commozione, l’estroversione, la fisicità maschile che un tempo furono della madre. Nel 2007 la conquista dell’affido condiviso. Da oggi, il cammino per la costruzione di una nuova fisionomia.
Sembra interessante e utile! COmpreròmmelo
L’unica cosa che mi perplime è il termine “mammo” usato non a caso anche dalla Argentieri in un suo libro in cui parlava di paternità, e che si ricollegava a una certa prescrittività dei ruoli che alle volte è reazionaria nonostante le buone intenzioni. Mammo è usato sempre con un che di dispregiativo, come se le famose conquiste della paternità fossero un’espropriazione della virilità e oh tempora! oh mores! E’ curioso come certe psicoanaliste, molto ferme nel loro lavoro, molto avanti nella carriera che potrebbero essere tacciate idi chi sa quali improperi se guardate da un maschilista ricadano nelle stesse cornici.
Frame! me stavo a scordàPPPP
Se ero OT perdoneme.
🙂
Ehi, mi fischiano le orecchie!!!
😉
(A Zauberei: hai ragione. Ed infatti io e Colombo abbiamo coniato il “Pa3” contro l’insopportabile “mammo”)
Curioso, ma neanche poi troppo, che persino la saga televisiva più amata del terzo millennio, pur raccontando la storia di un gruppo di naufraghi su un’isola deserta, affronti in realtà il rapporto – in tutte le sue possibili declinazioni – con la figura paterna.
Che peraltro, come forse già scrissi, è il grande tema del Cinema Americano.
(Pa3 Giannibiondillo mi pare molto fico:)
E’ sempre piacevole trovare qualcuno che parla di te: Argentieri, Zoja, Quilici e via e via. Già più difficile, più faticoso et più frustrante parlare di se stessi, da molti mesi e anche on line. E’ un po’ la vecchia diatriba della politica che vuole parlare degli elettori, di cosa accade alla società, alla pubblica opinione: segrete riunioni in segrete stanze quando sarebbe bastato scendere “tra” la gente. Mica sopra.
Ben venga finalmente la discussione attorno alla “babbitudine” (ognuno si accontenta dei neologismi che può) e ben venga Quilici col suo libro già adocchiato, sinceramente, e ben venga Cristiano Camera, ad esempio, col suo blog fatto comme il faut (http://sosmammo.blogspot.com/). Ben vengano quei padri che finalmente hanno trovato tempi-modi-parole di raccontarsi, anche empiricamente, anche per tentativi, per errori successivi. Per momenti azzeccati casualmente.
Che poi forse è anche vero che siamo poco interessanti, mediaticamente: come essere nella riserva ma non perché ormai sterminati e quindi “residuali” quanto piuttosto perché ancora troppo pochi e quindi di là da venire (poco vendibili). Ecco: un po’ di là da venire se la discussione sull’argomento langue. Se le conversazioni (on line ma anche dal vivo) tra babbi quasi non sussistono, se ci si confronta poco ma con tanta buona volontà. Iniziamo.
Inoltre, odiare “mammo” con tutte le proprie forze perché clona e non crea nessun mondo nuovo (quanto ci sia bisogno di nuovi padri…) e, chiedo perdonanza, rifuggire qualsiasi figaggine, che ce ne avemo già abbastanza, grazie!!!
La presentazione è molto interessante e appassionante, al punto da convincermi di affrontare la lettura di ben 500 pagine. Cara Loredana, mi è sembrato di capire che il libro, o almeno il suo tema, ti sia anche piaciuto (è sempre difficile percepire la differenza tra recensioni, presentazioni di autentica approvazione e condivisione e compiti affabilmente ed egregiamente svolti).
Caro Andrea, in questo caso, più che una recensione, era appunto una presentazione: che è, a mio parere, la forma più corretta per un saggio di questo genere. Saggio, a mio parere, necessario.
Alternativa personale a “mammo”:
Babo con una b sola (i miei figli mi chiamano così, e anche qualche ex alunno) perchè Babbo oltre a far pensare a De Amicis dalle mie parti significa ormai “babbeo” o addirittura “scemo”.
non basterebbe “papà”?
😉
Come no? Basta e avanza. Ma è bello anche lasciarsi inventare il linguaggio dai bambini. “Babo” è una delle prime parole che ha pronunciato il mio figlio più grande. Mi è piaciuta talmente che l’ho esportata.