LE INVASIONI ANAGRAFICHE

Ieri ho postato su Facebook una domanda. Mi chiedevo il motivo per cui tanti romanzi si occupassero, recentemente, di adolescenza. Non che sia una novità, com’è ovvio: la questione del cambiamento e della trasformazione dell’individuo è sempre stata cara ai narratori.
Ma c’è qualcosa, mi sembra, di diverso: in parte c’è la solita questione del “red ocean”. Ovvero, laddove un libro sull’adolescenza è divenuto best-seller, tanto vale provarci ancora e ancora. Era avvenuto dopo Tre metri sopra il cielo, avviene tuttora, in ambito fantastico-romance, dopo Twilight.
Ma qui stiamo parlando di mainstream: dunque, il filone “racconto com’ero” si apre di nuovo dopo La solitudine dei numeri primi. Inutile fare l’elenco dei titoli attuali perchè occuperebbe troppo spazio: non c’è quasi esordio, al momento, che non riguardi tormenti e ferocia dell’adolescente, maschio o femmina che sia.
Una delle risposte possibili – oltre a quella modaiola – riguarda l’ossessione sociale e culturale per la figura del giovane: ma potrebbe non essere l’unica causa. La discussione è comunque tuttora in corso. Ne estraggo, accorpandoli, due commenti di Gilda Policastro, e rilancio qui. Scrive Gilda:
“Da sempre il romanzo è narrazione di una Bildung, e i primi germi della formazione sono lì, nell’adolescenza. siccome gli editori hanno spiegato a intere generazioni di aspiranti scrittori che i lettori vogliono leggere STORIE e ROMANZI, quello si sono messi a fare, i nostri scriventi, storie e romanzi, meglio se di Bildung, meglio ancora se sull’ adolescenza, con esiti alterni (da Melissa P. a Chiara Valerio). attenzione a chiamarli indistintamente scrittori, però. l’ultimo serio libro di Bildung (al contrario) che si sia letto in Italia è Scuola di Nudo di Walter Siti, che non ha scalato le classifiche, non parlava di adolescenza, ma certamente rimarrà per decenni ancora un esempio di scrittura e di stile, e Giordano a distanza di un annetto già è tornato a fare il fisico, mi pare (buon per lui e per noi).
In Italia almeno sta prevalendo la tendenza perniciosa a considerare il romanzo in quanto tale Opera Letteraria. caratteristiche del romanzo di successo: avere almeno 300 pp, raccontare una storia, meglio se aristotelicamente coerente -inizio, mezzo, fine-, avere uno stile accattivante, possibilmente scorrevole e comprensibile (il romanzo di successo deve potersi leggere senza il vocabolario accanto, cosa fino agli Sessanta impossibile, non dico per Manganelli, ma anche, ad esempio, per Bianciardi). Questo tipo di ricerca hanno condotto gli editori negli ultimi decenni, col risultato di ammazzare la narrazione, soprattutto quella breve, così feconda in Italia, dalle novelle di Boccaccio ai racconti dei cosiddetti cannibali anni Novanta. Manganelli ci aveva insegnato invano a preferire il narratore al romanziere, e a comprendere che in nessun caso, ma meno che mai nel moderno, la narrazione può coincidere con la Visione Del Mondo, ma solo offrire una parziale, momentanea immersione nelle sue zone più buie e non immediatamente visibili (mentre un romanzo su due adolescenti a Piombino, l’ultimo degli allievi di una scuola di scrittura è in grado di scriverlo, così). Manganelli, che esordì a 40 anni, difatti. Oggi si vuole (gli editori, il pubblico) lo scrittor giovane che parli di giovani, e i migliori narratori o prosatori che abbiamo sono confinati in collane di nicchia che non arrivano in libreria (penso all’ottimo Bortolotti, ad esempio). E il dramma non è solo che chi scala le classifiche si affermi a danno di chi non verrà mai conosciuto nemmeno dai posteri, ma che queste tendenze si affermino non solo editorialmente e dunque sul mercato, ma che orientino e condizionino la scrittura. Altro che Saviano e il neoneorealismo: qui stanno tornando le Liale”.

84 pensieri su “LE INVASIONI ANAGRAFICHE

  1. E Lunar Park? E L’incanto del lotto 49? E Rumore bianco? E Le particelle elementari? E Le Benevole? Sono romanzi come Guerra e pace? O sono romanzi che sembrano romanzi (trama, personaggi, sviluppo di una storia) e poi sono altro, nelle strutture, nella voce, nell’andamento narrativo, nella domanda di senso? Qui non si tratta, Valeria, di spocchia o meno (comunque se tale ti è parsa, provo ad abbassare un po’ i toni): si tratta di ristabilire delle categorie condivise, dei parametri di valore e di gusto (come risultato di un discorso critico condiviso, e non tutto individuale o soggettivo: il pollice recto o verso di Fb, che non costa nessun impegno). A un convegno sulla formazione del canone nel panorama contemporaneo, panorama in cui solo pronunciare la parola canone, tra l’altro, suscita reazioni isteriche o personalmente risentite, uno studente mi chiese: ma perché non posso leggere Moccia, se mi piace, se parla d’amore che è il tema essenziale per la formazione di un giovane? La mia risposta fu che il problema è proprio quello, che si può senz’altro leggere Moccia, visto che lo si trova in ogni libreria, lo si nota per forza, nelle pile svettanti, lo si sfoglia, ci si passano due ore, e poi magari si va pure a vedere il film con gli attori “ganzi”. Il problema non è non poter leggere Moccia, ma non poter leggere, ad esempio, il Tristano di Balestrini. Perché anche il Tristano di Balestrini parla d’amore, ma con un codice a cui il lettore di Moccia non potrà mai arrivare nemmeno fisicamente, se il romanzo di Balestrini in libreria non ci va, e le pile di Moccia ci resistono per mesi. Allora: il problema non è, lo ribadisco, parlare di adolescenza, come età della vita in cui etc. etc. Ma che, l’hanno scoperto Giordano e la Avallone, che l’adolescenza è così e cosà? Vittorio Alfieri nell’autobiografia cos’ ha fatto, se non dare dignità letteraria a un’età della vita in cui si formano le passioni, gli ideali etc. etc. Poi, come dicevo, se si passa per le novelle di Tozzi si ha tutt’altra idea della giovinezza, come di una condizione di malessere, di cecità, di fronte alla quale i fanciulli sgarzellini di Giordano e di Avallone dovrebbero risuonarci fuori tempo massimo come Moccia di fronte a Balestrini. Dovrebbero, se avessimo un gusto, appunto, formato su una certa tradizione (e anche sul suo rifiuto, ma conoscendola) e non appiattito sulle esigenze degli editori-venditori e sulle aspettative dei lettori-acquirenti.
    Il problema è quello di una generazione o un paio che crescono nel rifiuto dei padri e dei modelli, che diventa però un rifiuto della tradizione senza conoscerla, del letterario che poi si finisce col praticare in forme facili e grottesche: le case editrici sono sommerse da romanzi “ben fatti” di giovani scrittori che trasferiscono su carta le impressioni di giornata. Accade anche che scrittori di successo (a quanto è emerso qualche tempo fa da una serie di articoli) copino altri romanzi, di successo o meno, scalando le classifiche o vincendo premi letterari senza che nessuno se ne avveda, tanto nessuno legge più, siamo tutti a scrivere, magari su Fb. (E, a proposito di Fb, una piccola postilla: quella delle Liale del Duemiladieci è stata una provocazione, esattamente come lo fu ai tempi della neoavanguardia: nel campione che si è spontaneamente costituito tra i miei contatti sono usciti fuori i seguenti nomi: Baricco, Giordano, Veronesi, Mazzucco, Cotroneo, Vinci, De Luca, Scurati, Wu Ming, Moresco. Dissento su alcuni, concordo su altri, ma non mi pare corretto far passare un sondaggio per una mia asserzione critica, che non mi verrebbe mai in mente di formulare in questo modo gretto, senza motivare alcunché (e senza nemmeno chiarire prelinarmente le ragioni o le condizioni del “lialismo” o della “lialità”: scorrevolezza, piacevolezza, disimpegno, ad esempio). Ma mi piaceva proprio sondare in modo brutale le reazioni di lettori non necessariamente di professione: hanno risposto infatti al sondaggio un critico, uno scrittore, un docente universitario, un blogger, uno psichiatra, un poeta…etc.).

  2. Quoto Valeria – e quoto anche girolamo.
    Come sono elegante oh. Quoto! e non dico le cose pessime – ma tutto sommato plenoastiche rispetto ai commentatori di cui sopra.

  3. Loredana, io però non ci trovo nulla di neutro nell’età. Nel senso che essa è sempre e comunque condizionante, anche per uno scrittore.
    Descrivere gli adolescenti è un’operaione delicata e complessa. Grazie al cielo, qualcuno ci tenta e qualcuno ci riesce, perché è importante, importantissimo: sono cartine tornasole della società. Poi, sugli esiti nei romanzi possiamo discutere; ma per favore, non ricascando nel solito pubblichi per Mondadori,-vendi tante copie-meglio che fai altro-non sai cos’è letteratura: che noia. Peggio ancora: Oddio-imitano quello che ha venduto tanto con un libro sugli adolescenti pubblicato da Mondadori! O tempora! O mores!
    Se mi si dice «il filone “racconto com’ero” si apre di nuovo dopo La solitudine dei numeri primi.» penso che manchi qualche pezzo di storia. Se mi si dice «Da sempre il romanzo è narrazione di una Bildung» penso a Don Chisciotte o a Robinson Crusoe e valuto che preferisco evitare gli schizzi di acido provenienti da una certa penna, peraltro imprecisa nella mira.
    Sul «red ocean», l’editoria, le porcate editoriali e gli adolescenti, penso che ci sia altro da dire. Ci torno più in là.

  4. @gilda: se ho frainteso la tua accusa di lialismo, o meglio, se vi ho letto una volontà inquisitoria tua quando si trattava di una semplice provocazione, mi dispiace. Ma il tuo testo – il pezzo postato, almeno – vi si prestava. In ogni caso, mi sembra che il nodo non cambi: ai tempi, opinione mia, ok?, il gruppo ’63 ha contribuito a incanalare energie creative in forme di scrittura che rifiutavano il romanzo e così facendo ha impedito quello sviluppo della forma che ha portato, in altri panorami, ai capolavori che hai citato. In ogni caso il tuo elenco dimostra, semmai, quanto il romanzo sia vivo e vitale – affermare che i libri di Easton Ellis dissolvano il romanzo non posso che prenderla come una tua ennesima provocazione. La profondità, la capacità di scuotere e far pensare, propria dei romanzi che citi è dovuta alla loro grandezza, al talento degli autori, e non al loro, presunto, essere “altro” rispetto al romanzo.
    E un’ultima osservazione, riguardo alla tua frecciata sui corsi di scrittura (proprio non ti vanno giù, eh?): il cosiddetto Program, in America, ha prodotto romanzieri e scrittori eccezionali. Johnson, per dirne uno, o la stessa Flannery O’Connor. Diamo tempo al tempo.
    Quanto a Balestrini – che pure non amo – concordo con te: meriterebbe più spazio (e con lui Onofri, Carbone, Del Giudice, Trevisan, Luce D’Eramo, Prisco, ecc.ecc.).

  5. Paolo: nulla è “neutro” per una persona e dunque anche per uno scrittore. Ma non è affatto detto che l’età porti automaticamente a una migliore o peggiore descrizione dell’adolescenza. Dipende, come puoi leggere nell’articolo del Guardian linkato da Sascha, dalla voce del medesimo, non dall’anagrafe.
    Per quanto riguarda invece il filone: è ovvio fino alla banalità che il filone adolescenza non nasca con Paolo Giordano. Ma che determinati romanzi simil-numeri primi nascano dopo Giordano è, viceversa, innegabile.

  6. @Gilda Policastro. Condivido in buona parte le cose che dice, anche perché da lettrice ‘ingenua’ non mi piace che mi si nascondano le cose: vorrei poter scegliere con qualche cognizione di causa. Ovvero sono contenta che qualcuno si occupi di formare il mio gusto e di propormi un ventaglio di autori, che vada oltre le pile di libri che ingombrano le librerie.
    E però, o forse proprio per questo, divento piuttosto scorbutica quando mi imbatto nei toni sprezzanti con cui alcuni critici, esperti o i soliti aristocratici savants si scagliano contro alcuni libri e alcuni autori.
    Perché questo significa scagliarsi pure contro i lettori che sono persone del tutto oneste, mi creda. Ora, se la critica si esercita sul testo, in modo puntuale, io non ho niente da ridire: ben venga, ma quando si accanisce contro la persona dello scrittore e, indirettamente, contro i suoi lettori (che, poveri, sono un po’ cretini) io mi irrigidisco parecchio.
    Siccome la questione che lei pone la trovo molto seria e credo stia a cuore pure a molti lettori (a me di sicuro), mi sembrerebbe più opportuno cercare di creare alleanze e non inimicizie.
    Riguardo alle forme letterarie, poi, credo che il lettore sia l’ultimo a irrigidirsi o scandalizzarsi: se Lunar park non è un romanzo, io non sto a piangerci sopra o a ricredermi sul suo valore. L’ho letto, mi è piaciuto moltissimo. Non è un romanzo? Me ne faccio una ragione.
    Non so se sono atipica come lettrice, ma non credo. Già qualche tempo fa mi era capitato di dire proprio qui che il genere come etichetta non mi fa né caldo e né freddo e dunque posso leggere tranquillamente pure Adorazione di Raffaella D’Elia, che dalla scheda che ho letto mi pare possa essere ‘etichettata’ come un personal essay.
    E la cosa grave però non è che sia un personal essay, ma che nessuno ne parli, pensando che un personal essay non possa interessare il lettore. Cosa che, pure questa, mi irrita.
    Che poi tra letteratura e lettura ci siano, da sempre, dei malintesi è cosa di cui credo dobbiamo farcene una ragione.

  7. a Gilda Policastro, dici:
    “E Lunar Park? E L’incanto del lotto 49? E Rumore bianco? E Le particelle elementari? E Le Benevole? Sono romanzi come Guerra e pace?”
    Sì.
    Senza ombra di dubbio.
    Perché è del genere romanzo la capacità inclusiva, fagocitante, la mutevolezza, la poliformicità. Perché il romanzo stesso nasce come parodia di genere, quindi è da subito impossibilitato a creare uno standard. La forma romanzo, canonica, non esiste. E’ un limite che tende a zero (o infinito, dipende dall’incognita).
    “Guerra e Pace” non è IL romanzo (e al tempo lo è). E’ quella roba lì.
    Secondo il pregiudizio di genere (il “romanzo dell’Ottocento”, “il grande romanzo”, “il grande classico”, “non la robaccia moderna”, etc.) Guerra e Pace addirittura è sbagliato, con tutti quei capitoli in forma di saggio sulla guerra, l’economia, la storiografia, la politica… viene da dire: sembra un romanzo e poi è tutt’altro.
    Non a caso, quando fu pubblicato la sua capacità innovativa (di “sfondare il genere”?) fu tale che la critica del tempo lo criticò come tale. Guerra e Pace NON era un romanzo, agli occhi di quella critica, non poteva essere incluso nel genere.
    Oggi la cosa ci fa sorridere, ma mica troppo. Io che sono uno smodato amante della Recherche, ad es., so quanto Proust abbia scritto e non scritto un romanzo (tu diresti: “nelle strutture, nella voce, nell’andamento narrativo, nella domanda di senso”). Ma se nella collezione di oggetti “romanzo” evitiamo una classificazione restrittiva (cioè esclusiva) e dogmatica, ma comprendiamo che è proprio della natura del romanzo la malleabilità delle sue forme-contenuto (che non è necessariamente evolutiva. Cioè: un romanzo non ha bisogno d’essere necessariamente “differente”, evoluto, 2.0, 3.0, rispetto ai precedenti), abbiamo così un insieme che riesce a comprendere al meglio la forza immaginifica di questa forma.
    Il romanzo, insomma, vince per adattabilità al contesto. Anche troppo, potresti dirmi, come una robinia infestante che soffoca le essenze autoctone. Ma qui è del giardiniere, della manutenzione del paesaggio che parliamo (e cioè anche di mercato). E su questo concordo con te; la letteratura si fa NON solo col romanzo, ma anche con altri generi: poesia, epistole, saggistica, memorialistica, teatro, etc. etc.
    Il “problema” del romanzo è che (in teoria) è capace di implementarle tutte dentro il suo ventre vorace.
    etc., etc.
    (come al solito manca il tempo per spiegarsi meglio)

  8. Nel frattempo, Gilda ha commentato e la ringrazio per i chiarimenti. Sono però d’accordo con le obiezioni che le muovono Mario e Valeria.
    @Loredana, vado sostenendo il contario: che uno scrittore anagraficamente giovane abbia meno chances di comprendere, e dunque di descrivere mondi che non ha ancora attraversato. Per esempio, penso che Paolo Giordano non abbia nessuna chance di descrivere la percezione del dolore che ha un settantenne, se non imitando letteratura precedente. Poteva fare meglio, Giordano? Probabile. Ma se seguissimo Gilda dovremmo chiederci anche: Era meglio che Giordano non scrivesse? Non direi. Era meglio che non scrivesse per lasciare spazio a “narrazioni alla Tozzi” o “alla Balestrini”? Mi sembra un modo ben strano di porre la questione.
    Sull’altro versante ti do ragione: Joyce Carol Oates nel suo ultimo romanzo ha una voce giovane impagabile, mentre la Charlotte Simmons di Tom Wolfe non è riuscita: non dipende dall’età, forse dal modo di sentire il tema. E parliamo di giganti.
    E arriviamo al punto red ocean: non è il luogo ove è vantaggioso concorrere. Esistono determinate logiche, e ci si deve adattare a subirle, sperando di agguantare una fetta della torta. Ma, corollario: si fa esistere una torta, si aprono possibilità. Terry Brooks ha fatto fortuna scrivendo vaccate, ma gente che finiva Il signore degli anelli e chiedeva “che avete di simile?” gli rifilavano Shannara. Oggi il fantasy è un genere più venduto, più accettato, più maturo e interessante grazie anche a Terry Brooks. Che poi è pure migliorato 🙂
    L’editore di Tolkien creò un blue ocean: lanciò un prodotto indovinando le potenzialità un segmento di mercato che non esisteva concorrenza (stringendo stringendo, anche se proprio su ISdA ci sarebbe da dire di più).
    Questo meccanismo funziona in modi misteriosi, e certamente in parte è pilotabile col marketing, ma comunque è il pubblico che ne decide le sorti, e se Giordano ha fatto i numeri che la Avallone non farà, sarebbe il caso di interrogarsi seriamente sul perché. Non è solo qustione di copertina. O ancora: la scrittura di Balestrini non aprì un filone (e comunque sarebbe meglio parlare di innesti produttivi, sì, i libri sono alberi in molti modi), Il nome della rosa di Eco invece sì. Si può tuonarci contro, ma qual è il risultato?

  9. @Valeria
    il suo intervento coglie una questione essenziale, a cui tengo molto. Il problema è che il panorama del dibattito critico si è ridotto a due voci, quella del critico ritenuto desueto, bolso e pregiudiziale in partenza, e quella dello scrittore, che per lo più pretende di autogiudicarsi (vedi Scurati, dopo la sconfitta –sacrosanta –allo Strega). Il lettore non esiste proprio più, o al massimo è considerato un «recipiente», come scriveva sardonicamente Montale in un articolo della fine degli anni Sessanta. Questo perché il lettore è oramai pienamente identificato col consumatore, con una certa rassegnata acquiescenza. Allora: a me interessa meno che a tutti etichettare questo o quel libro: facevo esempi di romanzi che secondo me sono grandi capolavori perché non rappresentano il genere (che ha comunque, lo si voglia o no Biondillo, una sua tradizione, nella poikilìa, certo, nella polifonia, ma come no, nella parodia, altrettanto, ma quando parliamo di romanzi, o quando lo fanno gli editori, sappiamo tutti perfettamente cosa intendono: i Cristi polverizzati di Di Ruscio non lo sono, e non a caso sono rimasti inediti per decenni) lo sovvertono, lo usano, lo piegano, lo ribaltano e chi più ne ha più ne metta. Poi hic et nunc possiamo chiamare romanzo pure Adorazione di Raffaella D’Elia, ma a me importa proprio che non si chiami proprio più per niente, che l’aspettativa degli editori (e degli scrittori, e dei lettori) muti radicalmente, e che ci si accorga una buona volta che sono esistite avanguardie e neovanguardie, Beckett e Sanguineti (pure diversissimi, e per certi versi inconciliabili) e che un libro non può cominciare con Quel ramo del lago di Como e proseguire coi due amanti divisi e magari pure il finale con idillio, che nemmeno Manzoni s’era sentito di sostenere fino in fondo. O forse sì, ma bisogna che trovi uno stile specifico di volta in volta per il tipo di narrazione che si porta avanti, non aderendo a uno stereotipo. Il discrimine, e vorrei che questo dato passasse una volta per tutte, non è il genere, ma lo stile. Mentre la lettera di quell’editore di cui riferiva uno dei commentatori qui sopra non è certamente un unicum: gli editori credono che i lettori vogliano leggere solo romanzi, e romanzi facili, scorrevoli, piacevoli. Sì, ma quali lettori? Valeria si dice una lettrice (e sarei umanamente curiosa data la sua competenza linguistica di conoscere la sua professione, invece), e guarda la scheda di Raffella D’Elia e le attribuisce un’identità di genere. Dunque non è così ingenua come pensano gli editori, e non se lo merita, allora, di sapere che esistono Luigi Di Ruscio, Raffaella D’Elia o Gherardo Bortolotti? Lo deve sapere o no che esiste un libro di contaminazione assoluta dei generi che si chiama Prosa in prosa, uscito in questi mesi, in cui i confini tra estetica e progetto, ma soprattutto tra poesia e prosa, si perdono completamente, o deve rimanere convinta, come gli spettatori della Dandini, che quel che c’è di nuovo oggi in Italia sia Silvia Avallone? Ed è ovvio che si sia ben lontani dall’accanimento sull’autore singolo, va senza dirlo. Ci si accanisce contro la perniciosa persistenza degli schemi facili: ieri un autore mi ha contattato su Fb per consigliarmi di leggere il suo nuovo thriller. La mia risposta è stata: mi perdoni, ma non amo il genere (ambiguamente: cioè non amo il genere nello specifico, e non amo un libro quando è di genere). La sua, di contro: per il romanzo d’amore non sono ancora pronto. Capisce, Valeria? L’alternativa PER GLI SCRITTORI è romanzo giallo/romanzo rosa. In barba a Beckett, le avanguardie, le D’Elia, i Trevisan e a tutti quelli che abbiano qualcosa da scrivere e soprattutto che lo sappiano fare. Forse i lettori in Italia sono meno ingenui di quanto non si pensi e i critici, come voleva Fortini, ancora inevitabilmente parziali, ma in alcuni casi (ancora con Fortini) effettivamente dei buoni mediatori. Dove siamo carenti è proprio tra gli scrittori: mi colpiva a un seminario presso la casa editrice Laterza, qualche tempo fa, che in un dibattito sullo stile (e la lingua, la sintassi, il lessico) nessuno degli scrittori presenti avesse praticamente mai preso la parola (e ce n’erano tanti, di tutte le età), lasciando totalmente il campo a critici ed editori. Forse non sanno quello che fanno, allora o glielo spiega qualcuno, o smettano di farlo: tertium non datur.

  10. @Policastro
    Andare a rivedersi la differenza tra poesia e teoria. Per scoprire che fin troppo spesso chi pratica la seconda si serve della prima come materiale su cui riflettere, ma non possiede il talento per praticarla. Che è un talento particolare, diverso da quello speculativo. Per fabbricare miti occorre avere l’intelligenza nelle mani, come per scolpire. La nostra epoca è ricca di opere artistiche con un forte contenuto concettuale, ma quasi mai si tratta di opere che sanno parlare al cuore. Io adoro Walter Siti, ma è uno scrittore per scrittori. Detesto i romanzi di genere quando servono solo a veicolare stereotipi e stilemi frusti, ma una pagina di James Ellroy o di Cormac Mc Carthy vale l’onanismo letterario di buona parte dell’avanguardia. Se uno volesse fare il critico (professione di cui non ho mai capito bene il significato sociale) dovrebbe mettersi al servizio del lettore e dello scrittore, separare il grano dal loglio, non pretendere estendere al mondo intero un proprio gusto personale, infarcito di pregiudizi e idiosincrasie

  11. @ Gilda Policastro
    «se qualcuno studiasse ancora e non stessimo tutti a scrivere romanzi»
    Mi consenta: parli per Lei, e non usi il pluralis maiestatis.
    Che se poi, nella furia di scrivere, non si accorge che “La solitudine dei numeri primi” non è né (principalmente, almeno) un romanzo di formazione, né (principalmente, almeno) un romanzo sull’adolescenza, il problema è suo, non certo di Giordano.
    In attesa del suo epocale romanzo che già si annuncia fuori dai generi, dalle mode e da quant’altro, ma già sicuramente condannato a non essere presente nelle librerie, dunque di sicuro colto e importante, torno a scrivere. E a studiare.

  12. Sinceramente, Gilda, mi sembra che lo schematismo sia davvero eccessivo: dire a priori di non amare il genere, prescindendo da cosa ci sia dentro, che sia stilisticamente e contenutisticamente interessante, significa chiudersi in un ghetto.
    I lettori non sono ingenui, affatto. E’ comunque ai lettori che si parla, non a cinque persone. E alcuni degli autori che tu citi, perdonami, a più di cinque non parlano. In alcuni casi, anzi, mi pare che l’avanguardia si confonda con il semplice onanismo.

  13. a Gilda Policastro,
    condividerei molta parte del tuo commento (non a caso faccio parte di una redazione, quella di NI, dove Bortolotti o Di Ruscio, o libri come Prosa in prosa, sono più che familiari) se non fosse che poi mi caschi sulla solita generalizzazione: “gli scrittori”.
    Chi sono gli scrittori? Io non parlo mai de “i critici”. Io parlo di quel critico, di quello scrittore. Tu scrivi (maiuscolizzando): “L’alternativa PER GLI SCRITTORI è romanzo giallo/romanzo rosa.” Ma quando mai? Per chi? Nomi e cognomi. Per me (e per molti scrittori che conosco personalmente) sicuramente no, forse per una certa editoria (tutta? No), per molti librai (tutti? No), ma la cosa non è mica così monolitica.
    E, Valter,
    piacerà agli scrittori, ma gli ultimi romanzi di Siti hanno venduto molto e bene. Mediamente io ho più fiducia nei lettori. Almeno nei grandi lettori. (poi su McCarthy sfondi la proverbiale porta aperta).

  14. a proposito, Gilda:
    “Il discrimine, e vorrei che questo dato passasse una volta per tutte, non è il genere, ma lo stile.”
    mi pare cozzi con “non amo un libro quando è di genere”, che sembra proprio un discrimine.
    Io mi ricordavo che la proposizione “A è anche non-A” è falsa. Era quella roba di Aristotele e il principio di non contraddizione. Ma ora smetto di scrivere anch’io e vado a studiare meglio.
    😉

  15. @Gilda. Dice: “Il lettore non esiste proprio più, o al massimo è considerato un «recipiente», come scriveva sardonicamente Montale in un articolo della fine degli anni Sessanta. Questo perché il lettore è oramai pienamente identificato col consumatore, con una certa rassegnata acquiescenza.”
    Eppure c’è invece un movimento di lettori che si fanno critici, che partecipano alle opere, sventrandole o prolungandole in altre forme. Lei stessa, nel suo intervento, dopo dice che non sono così ingenui come alcuni li immaginano. Ma alcuni chi? Oggi a valorizzare l’approccio più critico e partecipativo dei lettori ci sono proprio degli scrittori: non tutti, forse non molti, ma sono scrittori che nelle avanguardie probabilmente non si riconoscono affatto.

  16. Infine, se posso: io starei attenta a gridare al miracolo su alcuni autori che in tutta evidenza necessitano di crescere, o di cui forse non si sente proprio il bisogno.Non vale solo per i forzati del marketing che vengono lanciati come i/le nuove Giordano, a loro rischio e pericolo. Vale anche per quelli e quelle che vengono lanciati/e come il nuovo Beckett o la nuova Byatt.
    Non è che il critico laureato sia esente da combine, favori amicali o di piccola corte: spesso più del recensore considerato fiancheggiatore della monnezza.

  17. “se qualcuno studiasse ancora e non stessimo tutti a scrivere romanzi”.
    C’è anche un sacco di gente che studia la lezioncina a memoria – specie in ambito accademico – se il problema è questo.

  18. Credo di essermi espressa già a lungo e in modo piuttosto disteso sulle questioni su cui vengo sollecitata (eufemismo), dunque alcune le trascuro (eufemismo anche questo). Dico solo a Loredana che ho seguito la lunga discussione, proprio in questo blog, tra Cortellessa e ”il resto del mondo” sui generi letterari, e non mi pare sia il caso di riaprirla, anche perché dovrei dire ”io”, come Binaghi (io, ad esempio, a differenza di Cortellessa, non sono contro il genere semplicemente perché il discrimine per me è lo stile; io sono contro l’ossessione editoriale del genere, Biondillo, per la contraddizion che ”lo” consente….), e del mio io francamente a me per prima non importa granché. E forse, anzi, il problema dei lettori e degli scrittori (quelli che leggo, quelli che incontro, quelli che intervisto, quelli con cui chiacchiero per forza facendo il mestiere che faccio, quelli che mi mandano i libri autografati, quelli che non me li mandano per principio) è che rivendicano in modo troppo deciso la forza della loro personale opinione, che francamente non si vede in nome di cosa debba valere più di un’altra (ho mai sostenuto di voler esiliare chi legge Giordano e non D’Elia, o di voler beatificare la stessa D’Elia perché è andata in visibilio per Capriccio italiano? certo che no: ad alcuni piace il cibo raffinato ad altri le patatine di McDonald’s: i gusti perversi esistono, ma non stavamo parlando di questo, vero???). Si dà il caso che PER IL CRITICO de gustibus disputandum est, come diceva il già citato Guido Guglielmi: il suo gusto, prima di formarselo, il critico però lo ha dovuto educare, mettere alla prova, verificare e poi condividerlo, attraverso la conoscenza di un codice e la conquista di una possibilità di argomentazione che renda attuabile e utile la messa a confronto delle idee, evitando il bla bla bla senza costrutto.
    So che è difficile da capire, che ci sia gente che invece di divorare i libri (e certi libri) in senso orizzontale, ci si tuffa in modo verticale, ed è quello che intendevo con la ”lezioncina” sugli scartafacci di Manganelli, che non ho potuto certo imparare a memoria da nessun libro: è andando a Pavia a ”sudare” un po’ di carte che ho capito come si lavora attorno a un’ossessione, come le si dà corpo, stile, forma. La forma di quell’ossessione, ci capiamo? Non (io editore): ”Manganelli mi scriva un romanzo sul rapporto con la madre che possibilmente abbia un inizio, dei dialoghi e un finale”. Bensì (io Giorgio Manganelli) ”voglio raccontare la storia di quando si cade, di quando si è depressi, di quando si sta male, e al modo di raccontarla arrivo dopo cinque stesure e svariate rielaborazioni”. Questo fa uno scrittore, scrive, suda, fa fatica. E perché il lettore dovrebbe leggere un testo facile facile, scorrevole scorrevole? Che studi anche il lettore, se vuole leggere (più che mai se a sua volta vuole scrivere). Ci impiega anni, Manganelli, circa una ventina. 20 anni. Avete mai contato quanti romanzi scrivono i nostri romanzieri (ad esempio le Liale) in non dico venti, ma in cinque anni? Fatelo.
    E il critico fa la stessa fatica a ricostruire il lavoro attorno a un’Opera, quando questa sia tale. Ma deve farla, questa fatica. E le opinioni sono lecite solo se scaturiscono da analoga fatica. Il resto è esclamazione (entusiasmo o dissenso non importa) e non rileva. Non rileva se vogliamo sperare di poter leggere domani altri romanzi come Scuola di nudo: e che non ce ne siano molti altri in grado di competere per resistenza al tempo e alle mode (è un romanzo che ha ben sedici anni, quello di Siti, in un mondo letterario dove tutto invecchia come il pesce) dovrebbe farci riflettere tutti, se siamo qui dentro a parlarne.

  19. @Policastro
    I tempi che lei cita (di scrittori e di scrittura) sono autorevoli ma legati ad un altra epoca. Non dico che in un mondo che va alla velocità del Web si debba scrivere in fretta e male, semplicemente che i tempi della meditazione letteraria non sono mai stati quelli della narrativa nè orale nè scritta. Io credo di aver letto Manganelli quando lei andava all’asilo, ma non mi permetterei mai di dire che il suo gusto è meno educato del mio solo perchè ha letto meno libri. L’educazione del gusto è anche un’educazione al gusto, e chi non capisce il proprio tempo può fare giusto l’archeologo. Come nella musica non esiste solo la tecnica ma quello che si dice il “soul”, l’anima con cui s’interpreta, nella scrittura ci sono voci narranti vigorose e profonde senza essere colte nè esplicitamente riflessive. Penso a John Fante per esempio, che io preferirò per tutta la vita a Don De Lillo. E non mi dia dell’ignorante per questo, o del facilone. La semplicità e la pulizia, così come la forza schietta, sono un traguardo, una sorta d’infanzia ritrovata come naturalezza e secondo me individuano una sapienza superiore. L’altra, quella di cui accusa quasi indiscriminatamente chi scrive romanzi, è l’approssimazione claudicante ad altri media (televisione, cinema, Net) di chi cerca la simbiosi con l’industria culturale: roba da vecchi. Come l’intellettualismo dell’avanguardia a tutti i costi. Ma la poesia è costruire mondi poeticamente abitabili: non è un paese per vecchi.

  20. Cara Gilda, metterla in termini di patè d’oca versus patatine fritte non rende giustizia a nessuna delle due categorie alimentari e letterarie. E nemmeno alla discussione fra Andrea Cortellessa e “resto del mondo”, che infine mi è sembrata proficua per tutti e due i presunti schieramenti.
    Condivido che l’ossessione editoriale per il genere possa creare catastrofi: soprattutto al genere, perchè è di questo che si è parlato allora e di questo che si parla da svariati anni. Al buon genere.
    Del resto, anche l’ossessione critica, qualora ci sia, verso il “guarda mamma senza mani” può produrre catastrofi non meno gravi. Ma credo che non sia questo il punto: è evidente che qui non si discute della superiorità di D’Elia su Avallone, in quanto, ribadisco, sarebbe ingeneroso per entrambe. Quel che, a mio parere, è necessario superare è uno schematismo che nuoce a tutti: da una parte i veri critici che amano Di Ruscio (a proposito, Giorgo Falco lo recensisce oggi su Repubblica), dall’altra gli esclamatori sventati: mi sembra che, dai tempi del Gruppo 63, siano passati anni sufficienti, e narrazioni sufficienti, per dimostrare che è possibile parlare ai lettori senza utilizzare codici cifrati nè lingue di plastica.

  21. Secondo me, Loredana, viviamo un momento di emergenza rispetto alla letteratura, insidiata, depotenziata, impoverita proprio dal dilagare dei generi (giallo, nero, reportage narrativo, autofiction etc.) e da quella (illusione della) maggior facilità di scrittura cui accennava anche Binaghi. La soluzione non è la tolleranza verso tutto ciò che si pubblica, dal momento che vanno bene anche le patatine fritte, perché no. La soluzione da parte della critica deve essere un orientamento diverso, e la proposta continua, pedante, assillante (per contrastare lo strapotere dei media, perché tanto il dato che Avallone in classifica ci vada e D’Elia no è inconfutabile, indipendentemente dai valori in campo, ed è un problema editoriale, di pesi, di visibilità, di investimenti, di propaganda, e lo capiamo benissimo perché Avallone ancora prima di uscire è recensita da tutte le parti e va in tv, e D’Elia ancora dopo un mese chissà se avrà una mezza recensione da qualche parte) di altri autori, di altri percorsi, di altri stili e vie d’accesso al mondo (De Lillo, appunto, e non solo Fante), e dunque, sì, di questo benedetto patè. Ma non è mettere uno contro l’altro o decidere se questo è migliore di quest’altro, che posta così pare la nomination del Grande Fratello, o chi butto dalla torre, e non importa a nessuno. é un discorso che va affrontato in una prospettiva più ampia, tenendo conto (e non dimenticandolo mai) che il genere c’è, e tiene banco editorialmente. Vogliamo sapere, dire, sostenere che c’è anche altro, o lasciare che quelli che amano le patatine perché hanno sempre mangiato quelle, si lecchino anche le dita dopo, perché in fondo le patatine hanno un buon sapore, e tutto è lecito a questo mondo? Il patè almeno mettiamolo nelle possibilità di scelta, poi che ognuno, morettianamente, continui a farsi il male che vuole.
    Quanto alla lingua di plastica cui accenni, mi viene in mente che la “plastica della lingua” è un icastico titolo di Ottonieri critico sui narratori della cosiddetta “terza ondata”, tra l’altro. Possiamo prima leggerlo o rileggerlo, e poi rifiutare, magari, neoavanguardia e derivati? Ormai sono la nostra tradizione, piaccia o no, e alcuni sarebbero anche il nostro presente, se avessimo la pazienza e gli strumenti per leggerli. Un editore come Le lettere, ad esempio, il “Fucino” di Ottonieri l’ha pubblicato, un paio d’anni fa, con una guida alla lettura (della sottoscritta) che è costata ad autore e curatori altri mesi di lavoro, per tacere dei tempi della stesura del libro-rizoma. Un altro editore non l’avrebbe pubblicato e basta, rubricandolo tra gli illeggibili inutili. A me il problema pare questo, Loredana, non che Giordano si occupi di adolescenza invece che di fisica delle particelle. Il problema, come mi ha detto una volta un amico scrittore, è che uno se ha letto anche solo una cinquantina di libri in vita sua, un romanzo così (ben confezionato, abile narrativamente, accattivante) lo scrive. Il “Fucino” di Ottonieri può scriverlo solo lui. é questa, la differenza: che lo stile, vivaddio, è ancora l’uomo, e più che mai lo scrittore.

  22. Valter, ma tu ce l’hai con me? (alla “Taxi-Driver”‘). Non ti viene in mente che possa esserci nella tua testa un cliché, per non dire quel che in tedesco si chiama “Feindbild”, ossia l’immagine stereotipata del nemico….

  23. @ licia
    Sulla facilità di scrivere un romanzo sull’adolescenza mi limitavo a riportare e approvare la frase di G.P. secondo cui un libro su due adolescenti a Piombino lo sanno fare in qualsiasi scuola creativa, visto poi che si preferisce una lingua ‘naturale’, così che non ci si può aspettare ‘Il diavolo in corpo’ o il ‘Grande amico Meaulnes’…
    L’adolescenza non è figura di tutta la vita dell’uomo (anche se, ovviamente, uno ha il diritto di interpretarla così). Per quanto mi riguarda è l’allenamento prima della gara vera e propria: chiaro che è un soggetto del tutto degno ma un giornalista sportivo che si occupasse solo degli allenamenti non sarebbe troppo interessante…
    Figurarsi poi in un’epoca in cui i media e la loro nostalgia hanno largamente colonizzato i ricordi lasciando pochissimo spazio ad una bildung vera e propria, un’epoca che è anche quella dell’adolescenza prolungata e prolungata, se possibile, ad infinitum…

  24. @Helena
    Non ce l’ho con te, ma non mi è piaciuto il modoi in cui, nella discussione su Nori, hai esibito come scelte culturali (e d’opposizione magari, raccontando la storia Adelphi-Leon Bloy) quella che è evidentemente una sacrosanta scelta per la pagnotta, vista la spregiudicatezza con cui si muove il tuo attuale editore.

  25. Gilda tre cose:
    1) Perché io non ho letto gli interventi di Andrea Cortellessa come un semplicistico “contro il genere”? Andrea parlava di mercati drogati (e questo è un discorso di cui si può parlare) ma ha sempre ammesso il debito e l’affetto nei confronti di autori dichiaratamente di genere.
    2) Ci sono scrittori che riscrivono lo stesso libro per dieci, venti anni. Vero. Questo li fa necessariamente migliori di chi in quel numero di anni ha pubblicato decine e decine di volumi?
    Quindi devo considerare autori come Victor Hugo, giù giù, fino a PierPaolo Pasolini – loro e le loro decine di migliaia di pagine di teatro, poesia, saggistica, memorialistica, giornalismo, narrativa, teatro (e poi cinema , grafica, pittura, etc.) – come delle banalissime Liale?
    3) La “scorrevolezza” e “leggibilità” di un autore come Italo Calvino implica faciloneria? Mancanza di fatica, profondità, letterarietà?

  26. Valter il punto per me non è mai stato volermi ergere a esempio di virtù e tantomeno di “linea”. Né mi sogno di voler convincere nessuno che l’Adephi è “peggio” della Mondadori. Il punto è che lavorare in Aldelphi significava essere sostanzialmente in sintonia con la sua linea editoriale. A me stare in Adelphi piaceva molto, posso dirti. Ma non me la sono sentita di rimanervi dopo aver espresso quel che mi suscitava quella pubblicazione.
    Puoi non crederci, ovviamente.
    E’ evidente che per quel che concerne la realtà in cui ci troviamo un certo andamento dell’editoria di mercato da un lato (ridurre la questione a Mondadori mi sembra sbagliato e fuorviante) e della cultura berlusconiana dall’altro, sia più incisivo, nel male, di Adelphi.
    Ma io – ripeto – non ho preteso di essere quell’intellettuale di sinistra femminista organica e integrale che rivendica una qualche ortodossia. Sono semplicemente una persona con una propria storia che cerca di rispettarsi, pur nei compromessi che di volta in volta sceglie di fare.

  27. @Helena
    Va bene. A nessuno e tantomeno a me è lecito fare processi alle intenzioni delle singole persone. Io mi limito a constatare che in questo mercato editoriale c’è chi pubblica anche roba scabrosa ma non viene mai meno a un principio di qualità (Adelphi) e chi s’inventa casi letterari con la complicità di presunti giornalisti a partire da autentiche porcherie (Mondadori e non solo, certo). Lasciamo pure perdere il berlusconismo, che ha un versante pop e uno colto (mi dicono che Dell’Utri sia un fine collezionista di libri antichi), ma allora lasciamo anche perdere le stucchevoli puttanate sul sinistrato che scrive su giornali di destra, e anche sul redattore che rimane de sinistra anche se lavora per un editore di destra. Questo post di Lipperini-Policastro potrebbe essere l’occasione buona per accorgersi (dopo sessant’anni) che non esiste la letteratura impegnata o l’intellettuale engagée ma solo buona e cattiva scrittura, l’ampia o ristretta intelligenza.

  28. Secondo me la questione sollevata da Gilda ha varie facce.
    Ci sono i libri letti quasi esclusivamente dagli adolescenti tipo “Twilight”. Creano filoni e “genere” e sono – per il mercato- un fenomeno nuovo e importante. Ma quasi mai gli emuli riescono a imbroccare tutto quel che rende quei bestseller così tanto in sintonia con l’immaginario dei ragazzi che passano parola ( vale anche per Harry Potter)
    Ci sono poi i libri in cui l’elemento “giovane” è uno degli ingredienti del successo, tipo quello di Giordano i cui lettori sono di tutte le età.
    La corsa agli esordienti, più giovani (e possibilmente carini) sono, megli è, rappresenta un fenomeno non solo italiano.
    Tra l’altro su Giordano la penso come Girolamo.
    Non importa che quegli esordi siano per tema e linguaggio giovanilistici. Potrebbe essere interessanta anche chi scrive in modo decisamente retrò. Ma anche un’anziana signora esordiente.
    Il problema è la richiesta di novità, novità comunicabile in quanto tale.
    Questo meccanismo rende sempre più difficile fare una politica d’autore sui non esordienti (giovani principalmente, ma anche no), ossia curare la carriera soprattutto di scrittori letterari, fossero anche meno stilisticamente impegnativi di quelli nominati da Gilda.
    E’ l’erosione di quel che si chiamava doppio binario. Che riguarda l’editoria in generale, italiana e non solo.
    Anche in Germania alcuni scrittori validissimi sono ormai pubblicati da case editrici medie o medio-piccole. La cosa che lì rimane diversa che questo non conta per la critica sui giornali.
    Anche lì ovviamente gli uffici stampa cercano di spingere i loro titoli di punta, ma lo spazio per non appiattirsi su questo le pagine culturali se lo preservono. Creando con questo un minimo di dialettica che va a vantaggio sia degli autori che della critica stessa, la quale, in questo modo, continua ad assolvere una funzione per coloro ai quali è rivolta.

  29. Perché tu non sei “engagé”, Valter? Senza ironia, con il massimo rispetto per chi crede in ciò che pensa (e non deve essere de sinistra). Poi la qualità di un libro, certo, non deriva da nessuna adesione a programmi ideologici, ma vi rientra tutta la visione profonda del suo autore. Che magari, talvolta, la fanno anche essere impegnata. Ma a partire da un’esigenza non posticcia.

  30. giusto per curiosità, nella biblioteca della mia città un po’ di tempo fa hanno organizzato una festicciola per i lettori più assidui della sezione narrativa, tutti over 50, a parte me, e il libro più letto ( che è stato più volte preso in prestito ) è stato proprio “la solitudine…”.

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